Sarà la vicinanza con la Pasqua, ma in questi giorni i giornali di tutto il mondo stanno rilanciando notizie su ‘sorprese scartate’ in varie collezioni egizie. In particolare, dall’Australia ne arriva una veramente inaspettata. Gli studiosi della University of Sidney, infatti, di certo non pensavano di trovare qualcosa in uno dei sarcofagi egizi conservati nei magazzini del Nicholson Museum. Dopo oltre 150 anni, in occasione dell’allestimento del nuovo museo universitario, la cassa antropoide è stata studiata per la prima volta e il team diretto da Jamie Fraser si è accorto che non era vuota come preventivato: al suo interno, terra e resti umani fortemente disturbati (immagine in alto), forse per l’intervento di un ladro in cerca di amuleti.
I frammenti di mummia appartengono con tutta probabilità a Mer-Neith-it-es, sacerdotessa di Sekhmet durante la XXVI din. (664-525 a.C.) il cui nome compare sul coperchio del sarcofago (foto a sinistra). Lo scavo microstratigrafico del contenuto al momento ha portato solo all’individuazione dei piedi della defunta, ma la TAC ha fornito molte informazioni in più (immagine in basso). Infatti, John Magnussen, radiologo della Macquarie University che ha scansionato il reperto, ha affermato che le ossa indicano un individuo di oltre 30 anni e che è visibile anche il riempimento della calotta cranica con della resina a sostituzione del cervello estratto.
Qualche mese fa, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo, sono comparsi titoli sensazionalistici sulla famigerata iscrizione di Beyköy, un lungo testo in geroglifico anatolico che avrebbe parlato di Popoli del Mare e della fine dell’Età del Bronzo. Perché, nonostante il fenomeno interessi anche l’Egitto, non ho riportato la notizia sul blog? Perché era una bufala. L’intera vicenda mi è subito apparsa sospetta, viste la mia esperienza con le fake news egittologiche e la familiarità con l’argomento che avevo scelto per la tesi di triennale.
Qualche mese fa, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo sono comparsi titoli sensazionalistici riguardo una presunta scoperta che avrebbe dovuto far luce su uno dei periodi più enigmatici dell’antichità: la fine dell’Età del Bronzo. La decifrazione di un testo di 3200 anni dall’odierna Turchia, infatti, sembrava poter spiegare definitivamente le cause del collasso del sistema politico-economico palaziale. Ma, già prima della pubblicazione completa della traduzione, era sorto più di qualche dubbio tra gli esperti.
I Popoli del Mare e la fine di un’epoca
Intorno al 1200 a.C., le tre superpotenze dell’epoca – Micene, Hatti ed Egitto – subirono un netto declino. Con il cosiddetto Medioevo ellenico, evidenti tracce di distruzione in alcuni centri della Grecia attestarono la fine della civiltà micenea; il grande impero ittita si frazionò in una serie di entità più piccole chiamate Stati neo-ittiti; l’Egitto – tra la fine della XIX e l’inizio della XX dinastia – riuscì a fronteggiare continui attacchi da nord, ma iniziò gradualmente a perdere il controllo sulla terra di Canaan. Questa crisi globale viene imputata, forse in modo troppo semplicistico, ai cosiddetti Popoli del Mare, coalizione eterogenea di genti che avrebbe attaccato le principali città costiere del Mediterraneo Orientale.
Tali popolazioni – note nelle fonti egizie con i nomi di Shardana, Shekelesh, Peleset, Tjekker, Lukka, Danuna, Eqwesh, Tursha, Weshwesh – si mossero probabilmente dall’area dell’Egeo per compiere incursioni in Anatolia, Siria, Palestina e Cipro. La loro avanzata si fermò solo in Egitto dove, almeno secondo i documenti ufficiali faraonici, furono definitivamente sconfitte e ricacciate indietro. Perfino il grande Ramesse II (1279-1213), così come il successore Merenptah (1213-1203), si trovò a fronteggiare queste scorribande; ma la minaccia più grave deve essersi verificata sotto Ramesse III (1185-1153) che dedicò ben il 36% delle scene militari nel suo tempio funerario a Medinet Habu (Tebe Ovest) alle campagne contro la confederazione dei “barbari settentrionali”.
L’iscrizione scomparsa
In questo apparente scenario di caos e devastazione, una parte da protagonista sarebbe stata ricoperta dal fantomatico Kupanta-Kurunta, Gran Re di Mira (uno degli Stati del Tardo Bronzo dell’Anatolia occidentale), in grado d’inanellare una serie di conquiste militari lungo la costa del Mediterraneo Orientale proprio intorno al 1190-1180 a.C. La sua invincibile flotta, comandata dal principe Muksus di Troia, avrebbe attaccato perfino la biblica Ascalona, nell’attuale Israele, al confine con la zona d’influenza egizia.
Questa e altre gesta erano narrate da un’iscrizione in luvio geroglifico che purtroppo non esiste più, o meglio, come spieghiamo più avanti, verosimilmente non è mai esistita. Il “documento” in questione era inciso su un fregio di calcare, lungo 29 metri e alto 35 cm, scoperto nel 1878 a Beyköy, 34 km a nord dalla città turca di Afyonkarahisar. Il testo, però, è stato tradotto e pubblicato solo lo scorso dicembre dal geoarcheologo svizzero Eberhard Zangger e dal linguista olandese Fred Woudhuizen. Le motivazioni di un simile ritardo stanno nella storia stessa del reperto, più intricata e avventurosa del racconto che avrebbe veicolato. Il blocco originario, infatti, sarebbe sparito subito, utilizzato dagli abitanti del luogo come materiale edile per le fondamenta di una moschea; ma, poco prima, il francese Georges Perrot sarebbe riuscito a disegnarne il contenuto. Da questo momento, comincia una lunga serie di trascrizioni degli schizzi originari, a loro volta perduti, che arrivano fino alla controversa figura di James Mellaart, archeologo britannico noto più per gli scandali in cui è stato coinvolto che per le sue scoperte. Mellaart avrebbe copiato il testo di Beyköy a Istanbul nel 1979 dagli appunti dello studioso locale Ulug Bahadir Alkim, per poi tentare, fino all’ultimo giorno della sua vita, la decifrazione di quella scrittura che però non conosceva. Dopo la morte avvenuta nel 2012, lasciò addirittura scritto nel suo testamento che fosse cercato qualcuno in grado di continuare il suo lavoro.
La pubblicazione del testo e il clamore mediatico
Per il difficile compito, la scelta del figlio di Mellaart è ricaduta su Eberhard Zangger, presidente della fondazione Luwian Studies e autore di teorie altrettanto controverse sull’interpretazione di Troia come Atlantide e sulle responsabilità dei Luvi nel collasso delle civiltà dell’Età del Bronzo. Non a caso, la traduzione di Woudhuizen, già dalle prime anticipazioni, sembrava confermare il ruolo attivo di una coalizione di Stati dell’Asia Minore nell’invasione dei Popoli del Mare. Tutto molto sospetto. Nonostante ciò, la notizia è diventata subito virale ancor prima della pubblicazione ufficiale sull’ultimo numero di Talanta – Proceedings of the Dutch Archaeological and Historical Society.
I primi dubbi sono poi stati confermati dalle informazioni fornite da Recai Tekoglu, professore dell’Università di Smirne e uno dei pochi studiosi al mondo in grado di tradurre il geroglifico anatolico: Perrot si recò l’ultima volta nell’Impero ottomano nel 1871 e quindi non può essere stato presente al momento della presunta scoperta (1878); la moschea di Beyköy risalirebbe addirittura a quasi 50 anni prima; inoltre, dal punto di vista strettamente linguistico, il testo presenta numerosissimi complementi fonetici (segni che esprimono un suono), caratteristica della scrittura del I millennio a.C. e non di quella del II che, invece, si basa su un sistema di logogrammi (segni che esprimono un’intera parola).
Gli appunti di Mellaart contenenti informazioni storiche e ricostruzioni testuali
Un falsario seriale A questi dati, già da soli sufficienti a invalidare la notizia, si aggiunge la fama negativa del vero protagonista della faccenda: James Mellaart. L’archeologo inglese scoprì l’importante sito neolitico di Çatalhöyük nel 1958, ma pochi anni dopo fu bandito dalla Turchia con l’accusa di traffico illegale di antichità. In più, tra la comunità scientifica, già da tempo era noto soprattutto per aver parlato di una serie di pitture parietali la cui esistenza non è mai stata provata, come scene con sconosciuti riti religiosi, la più antica rappresentazione di un’eruzione vulcanica e la prima mappa stradale. Gravi sospetti che sono stati confermati poche settimane fa, quando Eberhard Zangger in persona ha visitato il suo appartamento rimanendone sconcertato.
Al giornalista Owen Jarus di Live Science, infatti, Zangger ha riferito di essersi recato a Londra in cerca di foto e note originali sull’iscrizione appena pubblicata e di aver scoperto, invece, un vero e proprio laboratorio domestico di falsi. Decine di lastre di scisto erano state utilizzate per provare i disegni spacciati come ritrovamenti di Çatalhöyük, mentre un corposo dossier era servito a confezionare l’iscrizione di Beyköy: informazioni storiche, liste di nomi di personaggi, popoli e luoghi, appunti di grammatica testimoniano il meticoloso lavoro di Mellaart che, a quanto pare, mentiva anche quando affermava di non conoscere il luvio geroglifico. Per oltre 50 anni, quindi, si sarebbe reiterata la creazione di falsi documenti atti a rafforzare teorie fantasiose mai supportate da dati oggettivi.
Lastre di scisto con prove dei disegni di Çatalhöyük. Ph: Luwian Studies
In archeologia, si sa, capita spessissimo che le scoperte siano effettuate casualmente. Questo non succede solo nei cantieri edili ma anche nei magazzini dei musei. E l’ennesima conferma di tale regola potrebbe venire dal Galles, più precisamente dall’Egypt Centre della Swansea University. Ken Griffin, docente di Arte e Architettura Egiziana, si è infatti ritrovato tra le mani quello che potrebbe essere un reperto dall’importanza inaspettata: un rilievo di Hatshepsut.
L’egittologo aveva scelto due frammenti di calcare dai depositi del museo, notandoli per la forma inusuale in una vecchia foto in bianco e nero. I pezzi sarebbero serviti per una handling session con i suoi studenti, cioè un’esercitazione pratica su oggetti reali. In effetti, ci si accorge subito che le due parti del rilievo hanno un taglio strano, con la porzione superiore che sembra combaciare con quella inferiore. Sulla faccia anteriore è visibile una testa maschile, un ventaglio e parte di un’iscrizione geroglifica; sul retro della parte alta, invece, si trova il completamento del volto della persona rappresentata (immagine in basso). A come tutto ciò sia possibile ci arriveremo dopo.
Perché la questione importante è capire di chi sia la testa che, per la presenza dell’ureo, non può che appartenere a un faraone. Griffin è convinto che il rilievo raffiguri la celebre regina Hatshepsut (1478-1458) e che provenga dal suo tempio funerario di Tebe Ovest. La teoria si basa su considerazioni di tipo stilistico che riguardano la tipologia del ventaglio, la capigliatura a piccole ciocche e il diadema intrecciato, tutti elementi attestati a Deir el-Bahari. La decorazione parietale sarebbe così stata staccata nel XIX secolo, prima che il tempio fosse scavato dalla missione dell’Egypt Exploration Fund (oggi Egypt Exploration Society) tra 1902 e 1909, e poi sarebbe stata acquistata dall’antiquario londinese Sir Henry Wellcome (1853-1936), la cui collezione è arrivata a Swansea nel 1971. Se questa ipotesi fosse confermata, si dovrebbe poi cercare la posizione originaria del rilievo; per questo Griffin si è già rivolto alla missione polacca che lavora nel tempio di Hatshepsut da oltre 50 anni.
Invece, il mento barbuto sul retro altro non è che un’aggiunta posteriore, una contraffazione effettuata – tagliando e girando uno dei due pezzi – per rendere la figura completa aumentandone il valore di mercato. L’autore, quindi, potrebbe essere stato il venditore o Wellcome stesso. Poi, una volta arrivato in Galles, evidentemente il rilievo è tornato com’era prima per volere dei curatori dell’Egypt Centre. Altra particolarità: l’handling session si è tenuta l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna.
Lo scorso fine settimana, approfittando di un passaggio a Roma, ho visitato una mostra che m’incuriosiva da mesi. Presso la Centrale Montemartini, splendida sede appartenente al sistema dei Musei in Comune (ne avevo parlato qui), già dal 21 dicembre e fino al 30 giugno, sono messe a confronto due tra le civiltà più affascinanti dell’antichità: Egizi ed Etruschi. “Egizi Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato” è la prima mostra temporanea allestita nei nuovi spazi espositivi inaugurati per il ventennale del museo e comprende 250 reperti provenienti da contesti archeologici e dal collezionismo antiquario. Come si può evincere dal titolo, la gran parte degli oggetti appartenevano a Eugene Berman, pittore, illustratore, scenografo russo che donò la sua collezione alla Soprintendenza nel 1952, dopo aver vissuto per quasi 20 anni nella Capitale.
Questi pezzi, insieme a prestiti dal Museo Egizio di Firenze e ad altri dai nuclei ottocenteschi di Augusto Castellani e Giovanni Barracco, sono utilizzati per illustrare in linea di massima le culture egizia ed etrusca, estranee al museo, enfatizzandone le somiglianze. La mostra, infatti, ha un carattere divulgativo semplice adatto ai non esperti e, senza un vero e proprio filo conduttore e con qualche errore nelle didascalie, fornisce elementi base per la conoscenza di religione e vita quotidiana dei due popoli. In particolare, ho apprezzato l’espediente della scelta di alcuni reperti campione per rappresentare le diverse epoche delle due linee temporali e per segnare il punto in cui, durante il periodo orientalizzante (VIII-VI sec. a.C.), Egizi ed Etruschi entrarono in contatto (foto in basso).
Proprio da questo momento, nelle tombe degli esponenti dell’élite italiche, cominciano a vedersi scarabei e altri amuleti nilotici che, insieme ad oggetti da Siria, Mesopotamia, Anatolia e Cipro, si diffondono in tutto il Mediterraneo grazie al commercio e diventano veri e propri status symbol delle classi sociali più ricche e potenti. Quindi, la cosa più interessante della mostra è vedere i corredi funerari riuniti di principi e principesse etrusche e accorgersi come non mancasse mai qualche pezzo faraonico. In particolare, spiccano i ritrovamenti da Vulci, in provincia di Viterbo, in alcuni casi così recenti da avermi permesso di occuparmene prima per l’Archeoblog di VOLO e poi per Djed Medu. La Tomba dello Scarabeo dorato, ad esempio, scoperta nel febbraio del 2016, deve il suo nome alla presenza di un sigillo con un crittogramma acrofonico (un rebus con il nome di Amon) e di un altro scarabeo in faience.
Corredo della Tomba dello Scarabeo dorato (sulla sinistra)
(Attenzione: le immagini presenti nell’articolo potrebbero impressionare le persone più sensibili)
Gli esperti dell’Egypt’s Mummies Conservation Project hanno recentemente restaurato 7 mummie dalla necropoli di El-Muzawaka. Il cimitero, risalente al periodo greco-romano, si trova nell’Oasi di Dakhla ed è composto da una serie di tombe, la più famosa delle quali è quella di Petosiris, spesso in pessimo stato. In particolare, i corpi imbalsamati sono stati abbandonati per decenni tra sabbia e spazzatura, senza alcuna protezione dai turisti (immagine in basso). Per questo è stato necessario procedere a un’intervento di restauro che conclude la prima fase del progetto di conservazione delle mummie stipate nei vari magazzini del Ministero delle Antichità. In precedenza, erano stati trattati ‘pazienti’ da Kom Aushim nel Fayyum, dal Museo Nazionale di Alessandria e dal deposito di Mustafa Kamel sempre nella stessa città.
Source: journey-to-world.blogspot.it
Gharib Sonbol, capo del progetto, ha fatto notare la particolarità di tre mummie: due presentano la bocca aperta (in basso a destra), mentre una ha le mani legate con una corda (in basso a sinistra). Queste caratteristiche, non ascrivibili al normale processo di imbalsamazione, fanno pensare a un’esecrazione, cioè a una maledizione ricevuta in vita per un qualche tipo di reato o peccato. La stessa cosa è riscontrabile nella cosiddetta “Mummia urlante”, probabilmente il corpo di uno dei sospettati dell’omicidio di Ramesse III.
Anche se spesso travisata, la giornata di oggi, l’8 marzo, è stata istituita per celebrare le conquiste sociali, politiche ed economiche femminili e, soprattutto, per porre l’accento sulle discriminazioni che, ancora oggi, le donne subiscono sul posto di lavoro e tra le mura domestiche. Questo problema si riscontra soprattutto nella evidente sproporzione della presenza maschile nelle cariche dirigenziali. E se nel XXI secolo è così difficile vedere una donna al comando, si può solo immaginare quanto fosse straordinaria la salita al trono – solitaria – di una regina nell’antichità. Così, vorrei celebrare la Giornata Internazionale della Donna ricordando tutti i personaggi storici femminili che riuscirono a governare l’Egitto e diventare faraoni. Ovviamente non sono molte e spesso, a causa della damnatio memoriae subita, è anche difficile avere dati certi sulla loro carica.
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Neithotep (3100)
Si daterebbe alla I dinastia, agli albori della storia egizia, la prima governante donna. A lungo Neithotep è stata considerata ‘solo’ la moglie di Narmer, ma la recente scoperta di graffiti geroglifici nello Wadi Ameyra, in Sinai, la collocherebbe come sposa di Aha e madre reggente di Djer.
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Mer(it)neith (3050) ?
Ancora alla I dinastia risale una figura che, tuttavia, rimane molto incerta. Merneith è considerata la moglie del faraone Djet e la madre reggente del giovane Den dalla cui tomba ad Abido proviene un sigillo con il nome ‘nebty‘ della presunta genitrice. Per questa titolatura si pensa che abbia almeno condiviso il potere. Il problema è che la forma del nome è al maschile, come si vede nella sua stele (immagine a sinistra) conservata presso il Museo Egizio del Cairo.
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Nitocris (2200-2195)
Se della precedente il dubbio cadeva sul sesso, di Nitocris non si è nemmeno sicuri dell’effettiva esistenza. La regina, infatti, compare solo su fonti più tarde, come gli “Aigyptiakà” di Manetone e le “Storie” di Erodoto, che la collocano come ultima sovrana della VI dinastia. Sarebbe quindi figlia di Pepi II, ma mancano documenti coevi originali, se si esclude qualche testimonianza di dubbia interpretazione.
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Nefrusobek (1797-1793)
La prima vera regina egizia di cui si conosce con certezza la carica reale è Nefrusobek, figlia di Amenemhat III e sorella di Amenemhat IV cui successe al trono. Viene collocata alla fine della XII dinastia e, di conseguenza, del Medio Regno.
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Hatshepsut (1478-1458)
Senza dubbio la regina più longeva e di successo tra quelle che si fregiarono del titolo di faraone. Titolo, peraltro, usurpato al figliastro Thutmosi III, legittimo erede al trono di Thutmosi II, di cui amministrò il potere per circa un ventennio. Non a caso, per legittimare la sua corona, inventò una genealogia celeste dal dio Amon riportata sul tempio funerario di Deir el-Bahari.
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Nefertiti (1334-1332?)
I più assidui lettori di questo blog non si stupiranno, soprattutto dopo che il dibattito è tornato alla ribalta con la ricerca di stanze nascoste nella tomba di Tutankhamon. Se fino a pochi anni fa, per la sparizione del suo nome nei documenti ufficiali, si pensava che la regina fosse morta o caduta in disgrazia nella seconda metà del regno di Akhenaton, grazie alla scoperta nel 2012 di un’iscrizione a Dayr Abu Ḥinnis, Nefertiti è stata identificata come possibile primo co-reggente e successore del marito con il nome di Ankhkheperura Neferneferuaten.
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Tausert (1191-1189)
Grande Sposa Reale di Seti II, fu co-reggente di Siptah che era ancora adolescente (10-12 anni), fino a diventare di fatto l’ultimo faraone della XIX dinastia quando morì prematuramente il figliastro. Tausert ricoprì anche la carica religiosa di “Divina Sposa di Amon” (come nella rappresentazione nel tempio di Amada qui a sinistra), funzione che nel III Periodo Intermedio acquisì anche una grande importanza politica.
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. Come appena detto, la carica di “Divina Sposa/Adoratrice di Amon” subì un’evoluzione a partire dall’VIII sec. a.C., quando queste sacerdotesse (ShepenupetI, AmenirdisI, ShepenupetII -nella foto a sinistra-, AmenirdisII, NitocrisI, Ankhnesneferibra e NitocrisII) controllarono di fatto la Tebaide per conto dei loro padri (o fratello nel caso di Amenirdis I), faraoni in altri territori durante la XXIII, XXV e XXVI dinastia.
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Infine, non vanno dimenticate le regine tolemaiche che mantennero la reggenza del governo insieme a mariti e figli fino a Cleopatra VII (51-30), ultima grande esponente dei Tolomei prima dell’arrivo dei Romani.
Domani (8 marzo) alle 18:00, sarà inaugurata la terza mostra temporanea della nuova gestione del Museo Egizio di Torino. Come promesso alla fine del riallestimento dell’edificio, ogni anno gli spazi del piano soppalcato sono stati usati per un’esposizione speciale (“Il Nilo a Pompei” e “Missione Egitto 1903-1920”) che stavolta avrà il titolo: “Anche le statue muoiono. Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo”. L’evento, che durerà dal 9 marzo al 9 settembre 2018, è stato organizzato in collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e i Musei Reali – le altre due sedi di questo progetto espositivo diffuso -, oltre al Centro Scavi dell’Università di Torino. Citando il direttore Christian Greco – curatore della mostra insieme a Paolo Del Vesco, Enrica Pagella, Elisa Panero, Stefano De Martino e Irene Calderoni – l’evento porterà a «una riflessione sulla fragilità dei tesori d’arte, sul museo come luogo di memoria e conservazione, ma anche di distruzione, in un dialogo tra reperti del passato e creazioni contemporanee». Reperti antichi saranno esposti accanto a lavori di artisti di paesi mediorientali come Siria, Egitto, Libano, Turchia.
Nuovo appuntamento con la divulgazione archeologica che vede come protagonista il mezzo cinematografico. Nell’ambito delle manifestazioni organizzate da Archeologia Viva per tourismA, tra il 14 e il 18 Marzo 2018, si terrà la prima edizione di Firenze Archeofilm – Festival Internazionale del Cinema di Archeologia Arte Ambiente. La rassegna vedrà la proiezione di decine di film a carattere archeologico che potranno essere fruite gratuitamente da tutti presso il cinema La Compagnia (via Cavour 50r, Firenze). Ovviamente non mancherà l’antico Egitto che verrà raccontato attraverso 5 pellicole:
Mercoledì 14
CEAlex, 25 anni
(Sala Piccola, 11:30) Creato nel 1990 da Jean-Yves Empereur, direttore di ricerca al CNRS, il Centro di Studi Alessandrini (CEAlex) fa capo a diverse missioni, organizzate in collaborazione con il Ministero di Antichità Egiziane, per la salvaguardia e la valorizzazione dell’eccezionale patrimonio di Alessandria. 25 anni dopo la sua fondazione, il CEAlex conta più di 80 persone: ingegneri, tecnici, ricercatori… J-Y Empereur rievoca la creazione del Centro e le tappe più importanti, grazie a immagini di archivio, anche inedite.
Giovedì 15
Le statue di Alessandria si muovono
(Sala Grande, 11:30) Ad Alessandria le statue si muovono. E anche gli obelischi… I Tolemei, che hanno governato l’Egitto in età ellenistica, le hanno fatte scolpire per decorare la loro nuova capitale. In seguito, queste pietre millenarie hanno viaggiato fino a Roma, Londra e New York, dove si trovano attualmente. In età moderna sono state commissionate statue in marmo e in bronzo a Parigi e ad Atene per decorare le piazze di Alessandria. Anche queste statue sono comparse, scomparse e riapparse nel corso della storia della città.
Fotografare l’invisibile
(Sala Grande, 22.45) La ricerca dell’invisibile interessa anche gli archeologi. Fotografie di oggetti, tombe, sarcofagi, mummie, lasciano intendere che sono andati persi alcuni elementi pittorici. D’altra parte, alcune tecniche di ripresa e di trattamento delle immagini permettono di rendere visibili tracce scomparse da secoli. André Pelle, ingegnere del CNRS, illustra questa avventura e ci porta ai confini dell’invisibile, tra l’archeologia, la fisica, e l’arte.
Venerdì 16
Alla scoperta del tempio di Amenophis III
(Sala Piccola, 10:00) A Luxor, i colossi di Memnone, segnano l’ingresso del maestoso tempio di Amenophis III. A partire dall’inizio degli anni 2000, una équipe internazionale ha ridato vita a questo tempio, di cui, a parte i due colossi, ben poco era rimasto visibile. Seguiamo, insieme a tutta la squadra di archeologi, le grandi tappe di questa impresa, filmata a partire dal 2004, e prendiamo dunque consapevolezza del carattere grandioso di questo tempio, costruito da un faraone durante il suo regno pacifico e prospero.
Sabato 17
L’harem del Faraone del Sole
(Sala Grande, 17:45) Nel gennaio del 2011, mentre la regione del Cairo subiva gli attacchi della rivoluzione egiziana, l’Università di Basilea realizzava due importanti scoperte nella Valle dei Re: una cripta contenente decine di corpi e una tomba fino a quel momento sconosciuta. Mentre gli archeologi e gli studiosi riflettono sull’identità dei resti contenuti in queste tombe, giungono a una conclusione stupefacente…
Inoltre, tra i vari premi che verranno assegnati nella giornata conclusiva, ho il piacere di presentare la menzione speciale “WebAward” che verrà data «al film che più ha saputo coniugare l’intento didattico con quello divulgativo e ha presentato la scoperta o lo studio archeologico come facente parte del tessuto storico e sociale di una comunità». La giuria sarà composta dal sottoscritto e da altri archeoblogger:
Nel tentativo di rianimare il turismo calante in Egitto, continuano le iniziative che sfruttano l’immenso patrimonio storico del Paese. Nell’arco di due giorni, ad esempio, sono stati inaugurati due nuovi musei archeologici. Il primo è stato ufficialmente aperto giovedì scorso a Marsa Matruh, famosa località balneare nord-occidentale sul Mediterraneo. La chiara intenzione del governo, rappresentato per l’occasione dal presidente Al-Sisi in persona, è di spingere chi arriva per il mare a visitare anche centri culturali. Nei due piani del museo (foto in alto), sono esposti circa 1000 reperti per lo più scoperti in zona ma anche provenienti da altri musei (Cairo, Alessandria, Suez) per sottolineare il ruolo di vicinanza con il confine con la Libia. Tra questi, spiccano statue di Ramesse II, Thutmosi IV, Tutankhamon e Sheshonq.
Sabato, invece, è stato il ministro delle Antichità Khaled el-Enany a tagliare i nastri del museo archeologico di Tell Basta (foto in basso), a Zagazig nel Delta centro-orientale. In questo caso, l’apertura dell’edifico è stata più travagliata perché l’inizio dei lavori risale al 2006 mentre il completamento al 2010. Come il precedente, il museo accoglie pezzi locali, dalla provincia di Sharqiya e in particolare dal sito dell’antica Bubastis, capitale del 18° nomo del Basso Egitto e città consacrata alla dea gatta Bastet.
Ginger è il primo individuo tatuato al mondo. O meglio, è colui che ha sulla pelle i più antichi segni figurativi finora individuati. Il vero primato, infatti, spetta per poco al nostro Ötzi (3370-3100 a.C.) che però ha solo punti, linee e crocette. La scoperta è stata recentemente pubblicata sul Journal of Archaeological Science, dopo che la mummia del cosiddetto Uomo A di Gebelein (detto appunto Ginger per il colore rossastro dei capelli) è stata sottoposta a nuovi esami.
Il corpo appartiene a ragazzo che morì, tra i 18 e i 21 anni, a causa di una pugnalata alla schiena, nel periodo Naqada II (tra il 3351 e il 3017 a.C.). Il cadavere si mummificò naturalmente per il contatto diretto con la sabbia quando fu sepolto in posizione fetale, semplicemente avvolto in un lenzuolo e stuoie, nella località a 30 km a sud di Luxor. La mummia è esposta dal 1900 nel British Museum (EA32751), ma solo ora, grazie agli infrarossi, si è capito che quella macchia scura indistinta sul braccio destro corrisponde, in realtà, a due animali cornuti: un uro (un grande toro selvatico ormai estinto: Bos taurus primigenius) e una capra berbera (Ammotragus lervia). Senza addentrarmi in difficili valutazioni di tipo ideologico, entrambi gli animali sono tipici dell’arte predinastica. Il pigmento, probabilmente fuliggine, è stato inserito in profondità nel derma con un ago.
Source: British Museum
Praticamente coeva di Ginger è la mummia della Donna di Gebelein su cui sono stati ritrovati altri tatuaggi, ma di più difficile interpretazione. Sulla spalla sinistra, infatti, ci sono 4 simboli a forma di “S” (foto in alto), mentre, sul braccio destro, un motivo lineare (foto in basso), forse un bastone o comunque un oggetto rituale, che si riscontra sulle ceramiche dell’epoca.