Archivi del mese: giugno 2018

Restituiti all’Egitto i reperti sequestrati a Salerno

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Source: @_Carabinieri_

Come anticipato la scorsa settimana nel mio articolo per National Geographic, l’Italia ha ufficialmente restituito all’Egitto i reperti archeologici sequestrati a marzo nel porto di Salerno. La cerimonia si è tenuta ieri mattina presso la sede del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale di Roma, alla presenza  del Gen. Fabrizio Parrulli, Comandante del Nucleo, di Corrado Lembi, Procuratore di Salerno, dell’Ambasciatore egiziano Hesham Badr, di Mohamed Ezzat, Dirigente Procuratore presso il Gabinetto del Procuratore Generale egiziano, e di Moustafa Waziry (nella foto, con la maschera funeraria), Segretario Generale del Supreme Council of Antiquities.

Secondo quanto riferito dal comunicato stampa, gli oggetti recuperati comprendono circa 23.000 monete in bronzo e argento e 195 reperti di epoca compresa tra il predinastico e il periodo tolemaico, come maschere funerarie, anfore, pettorali dipinti in cartonnage, sculture lignee, bronzi, ushabti e frammenti di sarcofago. Questi pezzi, guardando alle analisi preliminari, potrebbero venire da scavi illegali effettuati nell’area di el-Minya, in Medio Egitto, e non dal Sinai come precedentemente ipotizzato dalle autorità egiziane.

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El-Asasif Sud, scoperti 4 vasi canopi di XXVI dinastia

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Source: MoA

A volte, anche un sito già indagato può fornire nuovi dati importanti. Ne è testimonianza la recente scoperta di quattro vasi canopi (foto in alto) nella tomba di Karabasken (TT391), nella necropoli meridionale di el-Asasif, Tebe Ovest. In realtà, non è la prima volta che questa sepoltura – segnalata fin dalla spedizione di Champollion e Rosellini nel 1828-9 – riserva sorprese; nel 2016, ad esempio, era stato individuato, nella parte più interna dell’ipogeo, un enorme sarcofago di granito rosa che probabilmente apparteneva al defunto, Quarto Profeta di Amon e Sindaco di Tebe sotto il faraone Shabaka (715-705; XXV dinastia).

Questa volta, invece, il team egiziano-americano del “South Asasif Conservation Project”, diretto da Elena Pischikova e Fathy Yassin, ha scoperto i canopi in un annesso scavato successivamente sulla parete sud della sala ipostila. I contenitori in calcite, alti da 35,5 a 39,4 cm, erano adagiati sul fondo di una fossa quasi cubica (60 x 60 cm con una profondità di 50 cm) ricavata nel pavimento (foto in basso). Lo stato di conservazione dei reperti è molto buono se si esclude uno dei vasi che era rotto in diversi frammenti, comunque ricomposti grazie all’opera di pulizia e restauro dei tecnici del Ministero delle Antichità. I coperchi, realizzati da 3 artigiani diversi, rappresentano i quattro figli di Horo, le divinità preposte ognuna alla protezione di uno degli organi estratti dal corpo del morto durante la mummificazione: da sinistra verso destra, Imsety (uomo: fegato), Hapi (babbuino: polmoni), Duamutef (sciacallo: stomaco) e Qebehsenuef (falco: intestini). Tuttavia, i resti organici non si sono preservati per l’azione dell’acqua, ma rimangono ancora tracce delle resine.

Il nome del proprietario e la datazione degli oggetti viene fornita dalle iscrizioni, disposte su due colonne verticali e una linea orizzontale: Amenirdis, “Signora della casa” (nebet per) vissuta durante la XXVI dinastia (672-525 a.C.).

https://southasasif.wordpress.com/

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Source: MoA

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Torneranno a casa i reperti egizi sequestrati nel porto di Salerno

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Source: nationalgeographic.it

Un mese fa vi avevo parlato di un sequestro di reperti egizi nel porto di Salerno. Nell’articolo che ho scritto per National Geographic Italia, tutti gli aggiornamenti e approfondimenti.

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Source: MoA

Negli ultimi anni, siamo stati abituati al rinnovato sforzo profuso dalle autorità italiane nel recuperare frammenti del nostro patrimonio storico-artistico acquistati illegalmente da collezionisti privati o musei stranieri. Ultimo caso celebre, ad esempio, è quello del cosiddetto Atleta di Fano, capolavoro bronzeo (IV-II sec. a.C.) attribuito allo scultore greco Lisippo, scoperto al largo della città marchigiana, ma finito attraverso il mercato nero al Getty Museum di Malibu che si sta opponendo strenuamente alla restituzione. Tuttavia, per una volta sarà il nostro paese a rendere al legittimo proprietario reperti archeologici che probabilmente avrebbero foraggiato l’attività terroristica dell’Isis. In questo caso, però, non c’è alcun contenzioso né lunghe trafile legali, ma la libera collaborazione tra Italia ed Egitto, luogo di origine di 118 oggetti confiscati lo scorso marzo nel porto di Salerno.

Ieri mattina (20 giugno), il procuratore generale egiziano, Nabil Sadek, ha annunciato l’approvazione da parte del suo omologo campano della rogatoria inviata qualche settimana fa, grazie alla quale la “refurtiva” tornerà presto al Cairo per essere esposta in una mostra temporanea nel Museo Egizio di Piazza Tahrir. La vicenda era stata resa nota il 21 maggio in un servizio di Stefania Battistini per il TG1, ma il sequestro, ad opera dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Napoli e dell’ufficio delle Dogane di Salerno, era stato effettuato a marzo e prontamente comunicato all’Ambasciata egiziana a Roma. In un container diplomatico, infatti, erano stipati ben 23.700 reperti archeologici di cui 118 provenienti dall’Egitto. Tra questi, databili dal periodo faraonico all’età islamica, spiccano vasi in ceramica, monete, canopi, frammenti di sarcofagi, una maschera funeraria dorata e diversi modellini in legno che riproducono barche con relativi rematori e donne che realizzano pane e birra.

Foto dei pezzi erano subito state inviate al ministero egiziano delle Antichità, ma la conferma della loro autenticità è arrivata solo il 5 giugno, quando una delegazione del Supreme Council of Antiquities si è recata presso la caserma Tofano di Nocera Inferiore per un controllo da vicino. Secondo quanto riferito da Shabaan Abdel Gawad, direttore generale del Dipartimento per il Rimpatrio delle Antichità, i reperti non compaiono in nessun registro ufficiale quindi non sarebbero stati trafugati da musei o magazzini del ministero, ma proverrebbero da scavi clandestini in siti archeologici. Purtroppo in Egitto, soprattutto dopo la rivoluzione del 2011, l’attività dei tombaroli ha avuto una crescita esponenziale, nonostante l’inasprimento delle pene che possono arrivare fino a multe di 10 milioni di lire egiziane (quasi 500.000 euro) o addirittura all’ergastolo. Il fenomeno è ancor più grave in zone difficilmente controllabili come quelle del Sinai in cui si sono diffusi gruppi jihadisti affiliati all’Isis.

Proprio dalla penisola sarebbe arrivato il carico, poi imbarcato ad Alessandria per l’Italia. Non è un caso che le indagini dei carabinieri si siano da subito indirizzate verso i traffici degli uomini del Califfato. La vendita di beni archeologici, infatti, è diventata una delle principali fonti di guadagno del Daesh che ha sfruttato i siti in Siria, Iraq e Libia come veri e propri supermercati dove attingere denaro facile. In questo caso, inoltre, ci sarebbe anche lo zampino della malavita locale, come testimonia un’indagine della Procura di Salerno che ha posto fine nel 2016 a un traffico analogo orchestrato da camorra e ‘ndrangheta nella vicina Vietri sul Mare.

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Source: MoA

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Annunciate sede e data del XII International Congress of Egyptologists

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Source: iae-egyptology.org

Dopo l’edizione italiana del 2015, l’International Congress of Egyptologists torna in Egitto. Tuttavia il congresso, diversamente da quanto annunciato a Firenze, non si terrà a Luxor ma al Cairo, dal 3 all’8 novembre 2019. Organizzato dall’International Association of Egyptologists e dal Ministero egiziano delle Antichità, l’evento vedrà studiosi da tutto il mondo che, per inviare l’abstract dei propri interventi, avranno tempo fino al 1 ottobre 2018.

Per maggiori info:

http://www.iae-egyptology.org/uploads/1st%20_Circular.pdf

http://www.ice12cairo.moantiq.gov.eg/#

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Le ultime scoperte dell’Elkab Desert Survey Project

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Source: MoA

Ayman Ashmawy, capo del settore delle Antichità egizie presso il Ministero delle Antichità, ha annunciato una serie di ritrovamenti effettuati nei pressi di El-Kab, 60 km a sud di Luxor, dalla missione della Yale University. L’area indagata si trova più precisamente a Bir Umm Tineidba, in pieno Deserto Orientale, verso la giuntura con lo Wadi Hilal. Durante la ricognizione diretta da John Coleman Darnell, sono stati individuati alcuni centri di lavorazione della selce legati a tre gruppi di arte rupestre databile tra Naqada II e Naqada III/Dinastia 0 (3500-3100 a.C.).

L’importanza di queste rappresentazioni, secondo Darnell, sta nella continuità stilistica in periodi così remoti tra la Valle del Nilo e le aree marginali. Ad esempio, in un insieme di graffiti del 3300 a.C. che rappresentano animali, insieme a un toro, una giraffa, una capra berbera e asini, compare anche un addax, antilope simbolo nella tradizione pre e protodinastica del controllo umano sulla natura. La crescente influenza che le popolazioni del deserto subiscono dalla società faraonica in fieri della Dinastia 0 si vede anche dai corredi funerari scoperti in alcuni tumuli funerari nella zona. In particolare, una donna di 25-35 anni, membro di un’élite locale, si fece seppellire con perline di corniola e conchiglie del Mar Rosso oltre a contenitori in marna (una roccia sedimentaria) del tipo “marl clay A1” decorati con lo stile standard della Valle. In questo modo, quindi, si confermerebbe l’ipotesi nata dopo la scoperta dei più antichi geroglifici monumentali, effettuata lo scorso anno sempre dalla stessa missione.

Molto più vicino a noi, invece, è l’insediamento, finora sconosciuto, individuato poco più a sud che risale al periodo tardo romano (400-600 a.C.). Qui strutture in pietra datate grazie alla ceramica presente nel sito potrebbero, ancora secondo Darnell, riferirsi all’antica popolazione nomade dei Blemmi, menzionata da alcune fonti storiche tardo-antiche e bizantine e rese mostruose soprattutto dalle cronache medievali. Plinio il Vecchio, ad esempio, nella sua Naturalis Historia (V 46), scrive: «Si dice che i Blemmi non abbiano il capo, e che abbiano la bocca e gli occhi nel petto».

In realtà, tutte queste scoperte non sono proprio recenti ma la summa dei risultati ottenuti nel corso del 2018 dall’Elkab Desert Survey Project. Non a caso, erano già state anticipate da Colleen Darnell sul suo profilo Instagram (@vintage_egyptologist) dove, come si nota già dalla foto in alto, la si può vedere anche a lavoro con abiti vintage.

https://egyptology.yale.edu/expeditions/current-expeditions/elkab-desert-survey-project-edsp

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“Egitto di Provincia”: la collezione dell’Accademia dei Concordi di Rovigo (mostra “EGITTO RITROVATO. La Collezione Valsè Pantellini”, 14 aprile – 1 luglio 2018)

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È passato un anno esatto dall’ultimo articolo per “Egitto di Provincia”. Troppo. Per questo, trovandomi nei paraggi, non potevo non cogliere l’occasione di andare a Rovigo per vedere “EGITTO RITROVATO. La Collezione Valsè Pantellini”, mostra che si adatta alla perfezione allo spirito di questa rubrica. L’esposizione, infatti, è incentrata su una delle tante raccolte egizie formatesi nel XIX secolo grazie alle donazioni di ricchi viaggiatori e collezionisti colpiti dalla civiltà faraonica. E non è un caso che la curatela sia stata affidata, sotto il coordinamento del prof. Emanuele Ciampini (Università “Ca’ Foscari di Venezia) e della dott.ssa Paola Zanovello (Università di Padova), al team di EgittoVeneto, gruppo di ricercatori che da anni si occupa dello studio e della valorizzazione delle piccole collezioni egizie della regione.

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Source: egittoveneto.veneto.eu

Nella mostra, che si tiene dal 14 aprile al 1 luglio a Palazzo Roncale, è esposta una selezione degli oggetti di solito conservati dall’altro lato della strada, presso l’Accademia dei Concordi. Questo secolare istituto è sempre stato il fulcro della cultura della città, raccogliendo letterati, musicisti, filosofi e studiosi rodigini. Grazie alle donazioni dei soci, nella prima metà dell’800, qui si formò la Pinacoteca che, oltre ovviamente ai dipinti, comprende anche reperti archeologici tra cui spiccano quelli inviati dall’Egitto da Giuseppe Valsè Pantellini (1826-1890; foto a sinistra). Esiliato per la partecipazione ai moti insurrezionali del ’48, l’imprenditore si rifugiò al Cairo dove, tra 1878 e 1879, accolse la richiesta dell’allora presidente dell’Accademia Lorenzoni di inviare oggetti per la creazione di un museo egizio a Rovigo. L’egittomania in Europa era ormai galoppante e già erano nate le più importanti raccolte come quelle di Torino, Parigi, Londra, Berlino ecc. Così Valsè Pantellini spedì in Italia 5 casse di reperti, comprese le due mummie diventate protagoniste della mostra e di cui parlerò meglio dopo: Meryt e Baby. Altre antichità egizie vennero poi donate da Eugenio Piva, Lodovico Bassani e dalla famiglia Silvestri, ma è impossibile avere dati sull’origine dei pezzi, come d’altronde succede quasi sempre per le collezioni d’antiquariato senza contesto di scavo. In totale, con circa 500 unità, quella di Rovigo è la collezione egizia più grande del Veneto.

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Passando al percorso di visita della mostra, il piano terra è dedicato ai più piccoli con le illustrazioni di Sara Michieli che edulcorano l’aspetto delle due mummie con una forma pre-imbalsamazione (immagine a destra). Poi si va, saltando il piano nobile del palazzo, al secondo piano dove sono esposti gli oggetti. Premetto che non è possibile scattare foto e le immagini qui postate mi sono state gentilmente fornite dall’ufficio stampa gestito dallo Studio ESSECI.

La prima sala è dedicata agli elementi architettonici di Antico Regno con frammenti di pilastri iscritti provenienti da mastabe di V dinastia, ma anche con reperti più recenti come stele funerarie di Medio e Nuovo Regno e di Epoca Tolemaica. Nella seconda stanza, invece, si trovano tutti gli oggetti tipici di un corredo funerario egizio: amuleti, bronzetti, statuette in legno, collane, canopi, ushabti (particolare rarissimo quello dei ‘servitori’ di XXV din. con cesto portato sulla testa) e frammenti di sarcofago.

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Ma l’aspetto della mostra che ha avuto maggior riscontro mediatico è la possibilità di assistere in diretta al trattamento delle mummie da parte di Cinzia Oliva, restauratrice del Museo Egizio di Torino, e di altri esperti come gli investigatori della Polizia Scientifica del Triveneto. Affacciandosi nel laboratorio, infatti, a seconda dei giorni (vi consiglio quindi di controllare il calendario degli eventi sul sito web), si ha l’occasione di vedere con i propri occhi tutti i procedimenti volti allo studio e alla conservazione di Meryt, nome fittizio dato a una sconosciuta donna adulta, e di Baby, misterioso involucro di bende di lino che si pensava contenesse il corpo di un neonato (l’ipotesi è stata confermata dalla TAC effettuata il 15 giugno). Quest’ultimo/a era un regalo – e ancora presenta i nastri di cuoio – di Valsè Pantellini per l’amico Minelli che, a quanto pare, non gradì il ‘pacco’ e non lo scartò nemmeno.

Ad esempio, io ho avuto la fortuna di capitare durante le ultime misurazione dei medici dell’Università di Padova prima della spedizione dei due ‘pazienti’ all’Ospedale di Rovigo. Inoltre, era presente anche Claudia Gambino (Università Ca’ Foscari e EgittoVeneto) che ringrazio per la gentilezza con cui ha tolto ogni mia curiosità, mentre rimando voi tutti al sito della mostra e alla pagina Facebook del Progetto EgittoVeneto per ogni futuro aggiornamento sulle analisi effettuate ai corpi imbalsamati che saranno esposti al pubblico l’ultimo weekend di giugno al termine del restauro.

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La “Via di Horus”: l’autostrada fortificata dei faraoni per la Palestina (di Alberto Maria Pollastrini)

Sono anni ormai che mi occupo di divulgazione archeologica sul web perché reputo che la ricerca scientifica non possa esulare dal rapporto con il grande pubblico, in quanto il fine ultimo, ma non meno importante, del nostro lavoro è proprio la diffusione della conoscenza tra la gente. La celebre ‘torre d’avorio’ su cui per troppo tempo ci siamo isolati non ha fatto altro che creare falsi miti, cliché e un generale atteggiamento ostile nei nostri confronti: gli archeologi sono snob, nascondono quello che scoprono, bloccano i cantieri e non sono aperti a ‘verità alternative’. Questo vuoto comunicativo è riempito spesso, nei migliori dei casi, da amatori che, non avendo una solida base di studi e un metodo che permetta loro di distinguere le notizie vere dalle bufale, veicolano dati erronei che si diffondono più di quelli effettivi. Per questo, è compito degli addetti ai lavori di parlare dei propri risultati in modo chiaro e semplice, utilizzando un linguaggio libero da futili tecnicismi. In tal senso, è da tempo che penso di ospitare sul mio blog articoli di colleghi dottorandi, ricercatori e professori che illustrino il campo dei loro studi, magari integrando le ultime news che riporto su Djed Medu. È proprio il caso del primo guest post di questa nuova rubrica, “Parola all’Esperto“, che riguarderà recenti scoperte effettuate sul Delta Orientale. A scrivere è Alberto Maria Pollastrini, dottorando di Egittologia presso l’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Altri interventi sono già in cantiere, ma colgo l’occasione per invitare altri studiosi a inviarmi i loro contributi che sicuramente saranno apprezzati dai lettori.

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La “Via di Horus” (source: oocities.org/zurdig/map.htm)

Fin dalla più remota antichità il confine orientale dell’Egitto ha rappresentato non solo la via privilegiata per il transito di uomini, merci e idee, da e verso il Vicino Oriente, ma anche, sotto il punto di vista militare, l’area più esposta alle penetrazioni straniere. L’esigenza di ovviare alla mancanza di un vero e proprio ostacolo naturale che fungesse da barriera contro le minacce provenienti da Est, portò all’elaborazione di linea di difesa chiamata 35247695_1679765008806472_4460226079793086464_n wAt-Hr, la “Via di Horus”, costituita da un sistema di fortezze e punti di sosta ed approvvigionamento, a guardia della strada costiera che dal Delta orientale, attraverso il Sinai, giungeva fino alle Palestina meridionale.

Per i periodi precedenti il Nuovo Regno, le informazioni riguardo la Via di Horus sono assai scarse e non è possibile definire quale fosse la sua reale natura. Ciò nonostante, a giudicare dall’attestazione del titolo di 35026798_1679765068806466_7293097215864602624_n mr wAt-Hr, “Soprintendente della Via di Horus”, ritrovata a Giza sul sarcofago di calcare del generale Hekeni-Khnum, è lecito ipotizzare che delle misure difensive fossero già state approntate durante la V dinastia, intorno alla metà del III millennio a. C.

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Il sito di Tell Hebua (source: MoA)

Con l’avvento della XVIII dinastia, la Via di Horus diventa di capitale importanza per i sovrani egiziani al fine di spostare velocemente enormi contingenti di truppe verso il teatro di guerra siro-palestinese. Dal resoconto della prima campagna asiatica di Thutmosi III contro Megiddo, siamo informati che l’esercito egiziano attraversò il deserto del Sinai settentrionale fino a Gaza in soli dieci giorni, percorrendo una media di 25 km al giorno. Tale rapidità lascia supporre che lungo il tragitto fossero presenti, a distanze regolari, installazioni militari che assicurassero l’approvvigionamento d’acqua necessario al movimento di forti contingenti di uomini e animali. Solo l’elevata efficienza organizzativa raggiunta durante il Nuovo Regno dall’esercito egiziano poteva tenere in piedi un apparato logistico così imponente.

La principale fonte di informazioni storico-testuali sull’argomento è costituita da un ciclo di rilievi di carattere militare, fatti realizzare dal secondo sovrano della XIX dinastia, Seti I, all’esterno della parete nord della grande sala ipostila del tempio di Karnak, presso l’attuale città di Luxor. Sfortunatamente la parete di pietra ha subito in quell’area un notevole degrado ed è quindi imprescindibile ricorrere ai disegni realizzati nel XIX secolo da egittologi quali Burton, Rosellini, Champollion e Lepsius, al fine di recuperare alcuni particolari oggigiorno perduti irrimediabilmente. Le scene scolpite raffigurano le fasi salienti della campagna asiatica condotta durante il primo anno di regno del faraone contro la popolazione nomade degli Shasu, che tradizionalmente minacciava le aree desertiche del Sinai. Dalle raffigurazioni sembra chiaro che Seti I si sia scontrato per almeno due volte con le forze avversarie lungo la Via di Horus. Il tracciato di quest’ultima è riportato nelle scene con dovizia di particolari, quasi si trattasse di una mappa: lungo il percorso tra la fortezza di Tjaru, punto di partenza della Via di Horus, e una località della Palestina meridionale dal nome illeggibile, probabilmente l’ultima guarnigione controllata in modo permanente dagli Egiziani (Gaza?, Rafa?), sono state rappresentate dieci fortificazioni con accesso all’acqua potabile, ognuna delle quali contrassegnata da un toponimo.

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Frammento di rilievo con scena militare, tomba del generale Iwrkhy, Saqqara (ph. A.M. Pollastrini)

35199020_1679765032139803_3309224099150036992_n PA xtm n TArw, “la fortezza di Tjaru”, al margine orientale del Delta, segnava il confine tra le ospitali terre dell’Egitto e le insidiose terre straniere. Da qui tradizionalmente l’esercito faraonico intraprendeva il cammino, lungo la Via di Horus, per raggiungere l’area siro-palestinese. Nel rilevo di Karnak (foto in basso), l’aspetto di Tjaru differisce da tutte le altre fortificazioni. Gli artisti egiziani l’hanno rappresentata come un’imponente struttura adiacente alla riva orientale di un corso d’acqua popolato di coccodrilli, chiamato 35206743_1679765038806469_8659456123813756928_n tA dnit, “l’acqua che divide”, sul quale è visibile un ponte che conduce ad un’altra serie di edifici posti sulla riva occidentale. Molte supposizioni sono state fatte sulla reale natura de “l’acqua che divide” (il ramo Pelusiaco del Nilo? Una laguna a margine del Delta, alimentata dalle acque del Nilo? Un canale di confine costruito dall’uomo?) senza pervenire ad alcuna risposta definiva. Il particolare dei coccodrilli suggerisce però che si trattasse di un corso d’acqua dolce. Questo dettaglio iconografico ha recentemente trovato un possibile parallelo in un frammento di rilievo (foto in alto) proveniente della tomba del generale di origine siriana Iwrkhy, vissuto durante la XIX dinastia, a cavallo dei regni di Seti I e Ramesse II. L’importante testimonianza, scoperta durante la campagna di scavo 2017/2018 dell’Università del Cairo presso la necropoli di Saqqarah, presenta una scena di carattere militare su due registri. Il registro superiore raffigura due carri da guerra divisi da un corso d’acqua brulicante di coccodrilli, che somiglia in maniera sorprendente a “l’acqua che divide” del rilievo di Karnak. Il registro inferiore mostra un gruppo di cinque soldati di fanteria seguiti da alcuni asini, che portano sul dorso due ragazzini. Un uomo spinge il gruppo di asini al di là del corso d’acqua con l’ausilio di un bastone. Inoltre, sul lato destro del frammento sono visibili delle porzioni di edifici che rappresenterebbero la fortezza di Tjaru.

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Particolare della fortezza di Tjaru, rilevi di Seti I nella grande sala ipostila di Karnak (ph. Pollastrini)

Sebbene fiumi d’inchiostro siano stati versati negli anni nel tentativo di dare una corrispondenza geografica precisa alle località citate nel rilievo di Karnak di Seti I, solo Tjaru è stata individuata con certezza. Alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, le investigazioni dei siti Hebua I ed Hebua II, a pochi chilometri da El Qantara, presso il Canale di Suez, avevano indotto gli archeologi Mohammed Abdul Maqsoud e James K. Hoffmeier a supporre che si potesse trattare delle due parti del complesso militare eretto sulle sponde del corso d’acqua tA dnit, così come rappresentato nel rilievo di Karnak di Seti I. La scoperta nel 1999 e nel 2005, nel sito di Hebua I, di alcune statue di Secondo Periodo Intermedio e di Nuovo Regno incise con il toponimo di Tjaru aveva dato concretezza a questa supposizione. Tuttavia, nel 2007, è stata la notizia del Supreme Council of Antiquities (SCA) del rinvenimento presso il sito di Hebua II di una monumentale opera difensiva di Nuovo Regno a fugare i dubbi residui. I dati archeologici ci rivelano che Tjaru era munita di poderose mura in mattoni crudi spesse 13 metri, intervallate da ventiquattro torri e circondate da un profondo fossato. L’intero circuito murario racchiudeva un’area vasta più di 12 ettari, rappresentando di fatto la più grande fortezza egiziana fino ad oggi conosciuta.

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Seti I sconfigge gli Shasu nei pressi di una città chiamata Pa-Canaan, grande sala ipostila di Karnak (ph. Pollastrini)

La scoperta di Tjaru va inserita nel più ampio quadro di ricerche archeologiche che da oltre trenta anni hanno lo scopo di riportare alla luce il sistema difensivo nel nord del Sinai. In questo contesto va collocato il sito di Tell el-Borg, distante 5 chilometri dal sito di Hebua II, dove James K. Hoffmeier  ha rinvenuto le vestigia di due forti del Nuovo Regno. Il più antico, costruito probabilmente sotto il regno di Thutmosi III ed in uso fino all’epoca amarniana, ha rivelato un imponente fossato le cui fondamenta erano realizzate in mattoni cotti. Il più recente, realizzato subito dopo l’abbandono del primo, è rimasto in attività per tutto il periodo ramesside fino alla XX dinastia. L’abbondante materiale epigrafico non ha purtroppo permesso di conoscere il nome dell’installazione militare, sebbene la speranza degli studiosi sia quella di aver individuato 35239028_1679765002139806_1895303767042031616_n tA a.t pA mAj “la dimora del leone”, la prima sosta sulla Via di Horus dopo Tjaru in direzione della Palestina meridionale.

Alberto Maria Pollastrini

 

Per approfondire:

A. H. Gardiner, “The Ancient Military Road between Egypt and Palestine”, JEA 6, 1920, 99-120.

J. K. Hoffmeier, “Reconstructing Egypt’s Eastern Frontier Defense Network in the New Kingdom (Late Bronze Age)” in F. Jesse, C. Vogel (ed.), The Power of Walls – Fortifications in Ancient Northeastern Africa. Proceeding of the International Workshop held at the University of Cologne 4th – 7th August 2011, Cologna, 2013.

F. Monnier, “Une iconographie égyptienne de l’architecture défensive”, ENiM 7, 2014, 173-219.

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Grand Egyptian Museum: nuova data d’apertura e logo ufficiale

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Source: MoA

Ieri mattina (10/06/2018), si è tenuta a Giza una conferenza stampa in cui Khaled el-Enany, ministro delle Antichità, Rania Al-Mashat, ministra del Turismo, Mostafa Waziry, segretario generale del Supreme Council of Antiquities, e Tarek Tawfik, direttore del Grand Egyptian Museum, hanno lanciato il bando per l’assegnazione dei servizi accessori al nuovo grande museo archeologico. Il GEM, infatti, oltre ai 92.000 m² destinati all’esposizione di 100.000 reperti, ne avrà a disposizione altri 400.000 per parcheggi, sale per conferenze, cinema, ristoranti, caffetterie, centri commerciali, bookshop, ecc.

34872689_1806949022684073_6225482995936002048_nCon l’occasione, è stato presentato il logo ufficiale (immagine a sinistra), ideato dalla società tedesca di design Atelier Brückner. Come spiegato da Tawfik, la forma semplice del disegno richiama la struttura stessa dell’edificio i cui confini laterali sono la prosecuzione prospettica degli assi delle piramidi di Cheope e Micerino. Il colore arancio è quello del sole al tramonto; il font adottato per il nome in arabo, invece, s’ispira all’andamento sinuoso delle dune di sabbia del deserto.

Infine, è stata fornita l’ennesima data di apertura che dovrebbe collocarsi al primo quadrimestre del 2019. Infatti, dopo la fine della prima fase di costruzione del museo prevista per dicembre 2018, sarà visitabile un primo settore del GEM che comprenderà i 5000 oggetti del corredo funerario di Tutankhamon, oltre agli 87 colossi ed enormi elementi architettonici – tra cui la statua alta 11 metri di Ramesse II e la colonna di Merenptah – che saranno posti nell’atrio.

Aggiornamento del 15 giugno 2018

Dopo le numerose critiche, fatte soprattutto da artisti egiziani, al design del logo del GEM ritenuto troppo semplice e poco evocativo della civiltà faraonica, il ministro delle Antichità Khaled el-Enany ha assicurato che il logo presentato ufficialmente alla stampa è solo una prova a scopi promozionali, mentre quello definitivo sarà scelto in futuro con un bando internazionale.

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“Antonio e Cleopatra”: il prossimo libro di Alberto Angela sarà sull’antico Egitto

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Antico Egitto + Roma + Alberto Angela = successo editoriale assicurato.

Gran bel colpo per la HarperCollins Italia grazie al contratto firmato con il divulgatore più amato della televisione italiana che pubblicherà con la casa editrice newyorkese ben tre libri. Il primo della serie, che uscirà il prossimo autunno in collaborazione con Rai Eri, riguarderà in gran parte vicende accadute ad Alessandria riprendendo un tema già portato sugli schermi con una puntata di Ulisse: “Antonio e Cleopatra. Il tramonto di un regno, l’alba di un impero”.

Come s’intuisce dal titolo, quindi, il saggio di Angela parlerà della fase storica a cavallo tra la fine del regno tolemaico e la nascita dell’impero romano, ponendo l’accento sulla guerra civile tra Antonio e Ottaviano, la fine dell’indipendenza egiziana e, si spera non troppo, la presunta storia d’amore più famosa dell’antichità.

https://www.harpercollins.it/NEWS/Alberto-Angela-pubblichera-con-HarperCollins-Italia

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Ringrazio Stefania Piccin, admin del gruppo facebook Angelers – Fan di Alberto Angela, per avermi segnalato la notizia.

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