Ci sono voluti quasi 10 anni, ma ora la Tomba di Tutankhamon è finalmente tornata “come nuova”. Si è infatti concluso il progetto di studio, restauro e, soprattutto, consolidamento della pitture della KV62 iniziato nel 2009 grazie agli esperti del Getty Conservation Institute di Los Angeles.
All’epoca, la situazione delle decorazioni parietali della tomba più famosa del mondo era decisamente preoccupante a causa del continuo afflusso di turisti e il Supremo Consiglio delle Antichità si era rivolto a un istituto di comprovate esperienza e professionalità, come aveva dimostrato con l’intervento nella Tomba di Nefertari (1986-1992). Poi, la complessità delle operazioni e gli strascici della rivoluzione del 2011 hanno fatto sì che i lavori si siano conclusi solo lo scorso autunno. I risultati finali, invece, sono stati presentati durante un convegno che si è tenuto in questa settimana a Luxor durante il quale Neville Agnew, direttore del progetto, e i suoi colleghi hanno parlato delle problematiche risolte in questi anni ma anche delle preoccupazioni che si prospettano per il futuro.
Durante una lunga fase di analisi delle pitture, è emerso che le caratteristiche macchioline marroni che coprono tutte le pareti fossero di origine microbica; tuttavia, se in passato queste erano sempre state sempre trattate con biocidi, questa volta si è deciso di lasciarle in quanto infiltratesi in profondità negli intonaci, non più pericolose perché ormai i microrganismi che le hanno prodotte sono morti da secoli e, aspetto da non sottovalutare, parte integrante della storia della tomba. Infatti, già nelle foto di Harry Burton all’apertura della camera funeraria nel 1923, sono ben visibili e con la stessa diffusione di oggi.
Un altro serio problema riscontrato è stato quello della fine polvere del deserto che s’insinua dappertutto e rimane incollata alle fragili pitture quando s’inumidisce con il respiro dei visitatori. Per questo, dopo averla rimossa, è stato istallato un nuovo sistema di ventilazione e filtraggio dell’aria che permetterà anche di mantenere più costanti la temperatura e il livello di umidità. Inoltre, la tomba è stata dotata di nuove luci, passerella di legno e piattaforma di osservazione (curiosità: nello smontare la vecchia copertura del pavimento, sono stati trovati diversi bigliettini in cui si chiedeva a Tutankhamon protezione o di maledire persone evidentemente poco gradite).
Resta comunque la minaccia più pressante: il turismo di massa. Come detto, le persone introducono nella piccola struttura umidità e anidrite carbonica che può interagire chimicamente con i minerali dei pigmenti. In passato, come anche auspicato dal Getty, si era anche pensato di chiudere al pubblico o comunque di ridurre drasticamente gli ingressi per proteggere le pitture e per questo era stata fatta realizzare una copia perfetta dalla Factum Arte, oggi posizionata all’imbocco della Valle dei Re nei pressi della Casa di Howard Carter. Ma poi, per risollevare un turismo in netta crisi, è stato deciso di lasciare la KV62 ai circa 1000 visitatori al giorno così come, seppur a prezzi molto alti (rispettivamente 60 e 50 euro), sono state riaperte le tombe di Nefertari e Seti I.
Da sempre l’Egitto affascina tutti con la sua magica aurea pregna di esotismo e mistero. Una civiltà millenaria così peculiare, incastonata in un ambiente desertico che a lungo l’ha apparentemente isolata dal resto del mondo, non poteva che far nascere leggende e storie fiabesche tra chi non la conosceva e non la conosce tuttora. Per questo, non è così strano l’accostamento dell’antico Egitto con l’illusionista di origini ungheresi Ehrich Weisz, meglio noto come Harry Houdini.
Tuttavia, a differenza di quello che si potrebbe pensare del più celebre tra i mistificatori della realtà, Houdini aveva una mentalità fortemente razionale e, grazie alla sua sconfinata conoscenza di trucchi e inganni di ogni tipo, spesso si scagliava contro medium, veggenti e chiunque altro millantasse poteri sovrannaturali. In poche parole, potremmo definirlo un debunker ante-litteram. E non è un caso che io abbia avuto l’ispirazione per scrivere questo articolo proprio leggendo un libro di una persona che si batte da una vita contro fake news e teorie “alternative”: Massimo Polidoro.
Polidoro è il segretario nazionale del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e il protagonista di una serie su YouTube chiamata “Strane Storie”, in cui getta luce su fatti inspiegabili solo all’apparenza (in una puntata parla anche delle bufale eGGizie nate attorno alle piramidi di Giza). Nel suo “Houdini. Mago dell’impossibile” , Massimo racconta la vita dell’escapologo senza cadere nella noiosa sequenza di fatti e date che spesso si trova nelle biografie. Infatti, nonostante dietro ci sia un lavoro decennale di ricerca e studio d’archivio, il libro scorre piacevolmente senza nemmeno che il contenuto sia romanzato. D’altronde, che bisogno c’è d’inventare quando si parla di Houdini?
Houdini e Conan Doyle (Source: wildabouthoudini.com)
In particolare, mi ha colpito lo strano rapporto di “amore-odio” tra il mago e Sir Arthur Conan Doyle, presenza fissa nelle storie paranormali tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Convinto spiritista, infatti, Doyle mise lo zampino nella diffusione di diverse bufale come, per restare nell’ambito egittologico, quella dell’Unlucky Mummy del British Museum e quella ancora più famosa della Maledizione di Tutankhamon. L’amicizia tra i due si ruppe proprio a causa di queste credenze, quando il padre di Sherlock Holmes accusò Houdini di mentire e di nascondere i suoi poteri sovrannaturali: simili esibizioni non potevano essere spiegate con semplici trucchi.
Weird Tales, maggio 1924 (Source: wildabouthoudini.com)
La vita di Houdini incrociò anche quella di un altro celebre scrittore che finì per diventare il suo ghostwriter: Howard Phillips Lovecraft. Il maestro dell’horror, infatti, accettò di scrivere per l’illusionista un racconto, poi pubblicato nel 1924 sulla rivista Weird Tales, cercando di farlo passare come una storia vera. Lovecraft stesso parla di questo ingaggio in una lettera dove leggiamo che era stato pagato 100$ per prendere un episodio riferito da Houdini e “colorirlo delle più macacre sfumature, di alcuni degli orrori più arcani, infidi e innominabili”. Come si evince chiaramente dalla copertina del numero, il racconto è ambientato in Egitto; tale scelta fu tutt’altro che casuale in un periodo in cui impazzava la tutmania. Poco più di un anno prima, infatti, Howard Carter aveva scoperto la tomba di Tutankhamon, l’evento archeologico più importante del XX secolo, tanto da influenzare letteratura, cinema, architettura e abbigliamento dell’epoca.
Houdini, perfetto imprenditore di se stesso, non poteva farsi scappare la moda del momento e cominciò a pensare a un numero ispirato alla civiltà faraonica. Nel frattempo, probabilmente per creare un contesto di cui inserirlo, chiese a Jacob Henneberger, direttore di Weird Tales, di pubblicare una storia sull’argomento. In “Sotto le Piramidi” (titolo poi cambiato in “Prigioniero dei Faraoni”), il mago – o, meglio, Lovecraft – racconta di un suo precedente viaggio verso l’Australia con tappa intermedia a Port Said. Da qui, approfittando della sosta, Houdini si sarebbe recato al Cairo e alle piramidi di Giza, divenute improvvisamente la sua potenziale tomba. Una guida locale, infatti, avrebbe visto con sospetto lo stregone straniero e, per saggiarne i poteri escapologici, insieme a un gruppo di beduini lo avrebbe preso, legato, bendato e calato con una corda in un profondo pozzo nel Tempio a valle di Chefren. Nell’oscurità delle rovine, lo scrittore americano inserisce le sue classiche creature da incubo, tuttavia declinate al tema egittologico grazie a diverse ricerche effettuate presso il Metropolitan Museum di New York. Appaiono quindi perversi sacerdoti di culti dimenticati, mummie formate da pezzi di cadaveri e mostri compositi dalla testa animale che s’ispirono alle divinità egizie. La stessa Sfinge altro non sarebbe che l’effige del tentacolare Dio dei Morti. Ovviamente, il protagonista della storia riesce a liberarsi e a scappare da quell’inferno in terra, lasciando però nel lettore il dubbio che potesse essere solo un sogno.
La locandina di uno degli spettacoli di Houdini (Source: wildabouthoudini.com)
Come detto, Houdini aveva in mente un numero da condire con un’atmosfera faraonica che, tuttavia, non era una novità. Si era già fatto seppellire vivo nella terra o fatto chiudere in una cassa sotto l’acqua, ma con il nuovo “Buried Alive” voleva spostare l’asticella più in là. L’occasione si presentò con l’arrivo nella Grande Mela nel 1926 di Rahman Bey. Il fachiro egiziano si esibiva infilandosi spilloni nella carne, distendendosi su un letto di chiodi e facendosi spaccare massi sul petto, ma il suo pezzo forte consisteva nel farsi chiudere in una bara e ricoprire dalla sabbia per un’ora.
Houdini volle subito battere questo record e ci riuscì il 5 agosto 1926, passando ben 91 minuti in una cassa calata nella piscina dell’hotel Shelton di New York. L’impresa ebbe un risalto mondiale e da questo successo il mago ripartì per la nuova stagione di spettacoli. Come dimostrano alcune locandine precedenti, è possibile che Harry abbia ripreso una vecchia idea adattandola alla sfida vinta con Rahman Bay. Nel poster in alto, infatti, si fa riferimento al fachiro egiziano battuto e probabilmente al pozzo del racconto di Lovecraft. Non è chiaro, però, se Houdini sia riuscito a portare sul palco il nuovo numero perché il 31 ottobre ci fu la sua tanto famosa quanto assurda fine: peritonite in seguito alla rottura dell’appendice provocata dal pugno di uno studente di boxe che voleva mettere alla prova i suoi celebri addominali. In sintesi, colui che era sfuggito ai demoni dell’Amduat era morto per un semplice cazzotto.
A Kom el-Trogi, sito archeologico nei pressi di Abu el-Matamir (la città più popolosa del governatorato di el-Buhayra, Delta nord-occidentale), gli archeologi egiziani hanno individuato un centro di produzione del vino di epoca greco-romana. La struttura è composta da una serie di vasche di stoccaggio scavato nella roccia all’interno di ambienti delimitati da stretti muri di mattoni in fango con qualche blocco di calcare.
Adiacente ai magazzini, è stato indagato un edificio abitativo dedicato agli amministratori e ai lavoratori della struttura. Qui sono stati scoperti forni, frammenti di intonaco dipinto, tessere di mosaico, ceramica che va dal periodo tolemaico a quello islamico e una serie di monete tra le quali spiccano una di Tolomeo I (305-282 a.C.) e una dell’imperatore romano Domiziano (81-96 d.C.).
Grazie alla lettura dei bolli su giare e anfore, è stato possibile capire anche le rotte commerciali che legavano questo centro al resto del Mediterraneo. Compaiono infatti i nomi di Cipro, Rodi e Cnido, città greca dell’Anatolia.
Giovedì scorso sono stato all’inaugurazione di una mostra fotografica che i romani, e non solo, non dovrebbero farsi scappare: “Viaggio in Egitto. Antonio Beato nell’Archivio del Touring Club Italiano”. Ciò che è ritratto nelle fotografie esposte è un Egitto che non esiste più, quello delle Piramidi di Giza non ancora invase dallo sprawl, dei palazzi storici della Cairo Vecchia, delle piccionaie in fango costruite nei templi di Luxor, dei monumenti nubiani nella loro posizione originaria prima della Diga di Assuan. Un Egitto raccontato da un fotografo italiano poco conosciuto, ma che ci regalato una cospicua documentazione della Valle del Nilo durante la seconda metà del XIX secolo: Antonio Beato (1835-1906).
Come si evince dal titolo della mostra, le 48 stampe originali all’albumina esposte fanno parte dell’archivio del Touring Club Italiano che ha deciso di mettere a disposizione del pubblico questa raccolta dopo un lungo lavoro di restauro. Così, dopo una prima tappa a Milano, fino al 22 febbraio 15 febbraio (lun-ven 10-17; la data di chiusura è stata anticipata per problemi tecnici) sarà possibile vedere gratuitamente le foto presso la sede dell’Accademia d’Egitto (via Omero 4, praticamente sul bordo occidentale di Villa Borghese).
Il progetto si è sviluppato attraverso diverse fasi di recupero, restauro, conservazione e valorizzazione delle stampe grazie al finanziamento di SOS Archivi (che ringrazio per l’invito all’inaugurazione), associazione che promuove il recupero e la tutela dei beni archivistici e che si è occupata anche dell’esposizione curata da Michele Magini, Roberto Mutti e Luciana Senna.
Il percorso segue due linee, una semplicemente geografica (da Nord verso Sud) e una tematica che divide le foto di architetture e abitanti del Cairo da quelle dedicate alle vestigia faraoniche. Particolare attenzione è rivolta ai monumenti di Luxor dove Beato aprì il primo studio fotografico della città, in cui vendeva ai turisti i suoi lavori, proprio come cartoline ante litteram.
Piccola sfida: in una delle stampe si vede limpidamente una mosca che si era andata a posare sull’obiettivo durante lo scatto; vediamo se la trovate!
A Kom el-Khelgan, sito del Delta nord-orientale nei pressi di Tell el-Samara, una missione egiziana ha scoperto una serie di tombe che vanno dal Predinastico al II Periodo Intermedio. Le 20 sepolture più antiche risalgono alla fase Naqada III (3300-3050 a.C. circa) e presentano semplici deposizioni in fossa con i morti rivolti in posizione fetale verso nord, ovest o est. Il corredo comprende ceramiche, coltelli e altri oggetti in pietra come le classiche tavolozze predinastiche. Le altre tombe, invece, si datano al periodo in cui l’area era sotto il controllo degli Hyksos (1650-1550 circa). Anche in questo caso, sono stati ritrovati vasi di diverse tipologie come le famose “ceramiche Tell el-Yahudiya”, produzione tipica del Medio Bronzo ed esportata in tutto il Mediterraneo orientale. Scoperti anche un vaso globulare che conteneva 7 scarabei (6 iscritti in faience e uno in pietra dura) e ossa di animali.
Due anni fa, a chiusura della prima stagione del Qubbet el-Hawa Research Project (University of Birmingham in collaborazione con l’Egypt Exploration Society), era stato individuato un muro in pietra (foto in basso) che faceva presagire la presenza di tombe. E in effetti era così.
Oggi Mostafa Waziry, segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità, ha annunciato la scoperta di 6 tombe rupestri risalenti all’Antico Regno nella necropoli di Qubbet el-Hawa, sulla riva occidentale di Assuan. Ad effettuare il ritrovamento il team di Martin Bommas (da poco alla Macquarie University a Sydney) che, tuttavia, si è accorto da subito che le sepolture erano state depredate già in antichità. I muri in mattoni crudi che sigillavano le entrate, infatti, erano stati in parte abbattuti dai tombaroli e all’interno, oltre a diversi vasi, sono stati ritrovati solo un frammento di maschera funeraria e un amuleto in bronzo del dio Khnum. Lo studio della ceramica ha permesso di capire che le tombe sono state riutilizzate fino all’Epoca Tarda.
Nell’Oasi di Dakhla, una delle principali aree verdi del Deserto occidentale, una missione archeologica locale ha effettuato una scoperta piuttosto rara, ancora di più per l’Egitto: un tesoretto di monete d’oro. In un paese in cui la monetazione vera e propria fu introdotta solo alla fine dell’epoca faraonica, infatti, un ritrovamento del genere può essere ascrivibile solo a un periodo più recente. In questo caso, in un piccolo vaso ancora chiuso da un coperchio d’argilla, erano stipati 10 solidi aurei risalenti al regno di Costanzo II (337-361), figlio di Costantino il Grande.
Lo sfortunato proprietario che – chissà per quale motivo – nascose e non recuperò mai il cospicuo gruzzolo, era un abitante del sito di Ain el-Sabel, un piccolo centro rurale dipendente amministrativamente dalla vicina città di Kellis. Qui la missione di Kamel Bayoumi scava dal 2009 e ha portato alla luce i resti di diverse case in mattoni crudi e di una chiesa disposti lungo i due assi viari principali dall’andamento NO-SE.
Le autorità del Ministero delle Antichità hanno annunciato che nell’Oasi diDakhla, una delle principali aree verdi del Deserto Occidentale (380 km a ovest di Luxor), una missione egiziana ha individuato due tombe risalenti al periodo romano. Il ritrovamento è stato effettuato a Bir Shagala, necropoli della città di Mut, attuale capoluogo della provincia ma centro amministrativo dell’oasi fin dall’Antico Regno. Così come per le altre sepolture scoperte in precedenza, le strutture sono realizzate in mattoni crudi e si compongono di un atrio trasversale e due camere funerarie.
In particolare, alla prima tomba si accede tramite una scalinata di 20 gradini che conduce all’ingresso realizzato in pietra arenaria con un altare in calcare. Da qui si entra nella sala principale, dall’andamento E-O (5,4 x 2,5 m), sulla cui parete settentrionale si aprono i passaggi verso due camere funerarie. Quest’ultime sono collegate a ulteriori due vani, disposti su un piano superiore, in cui sono stati scoperti vasi ceramici, lucerne e resti ossei relativi a diversi individui. Il soffitto, in gran parte crollato, era alto 3,7 m.
Ad est della prima tomba se ne trova una seconda (l’unica di cui, al momento, sono state rilasciate foto). Anche in questo caso una sala trasversale conduce alla camera principale che presenta una nicchia sul fondo e le pareti stuccate con i resti di una scena dipinta che mostra il processo di mummificazione in cui il morto è deposto su un letto a forma di leone fiancheggiato da due sacerdoti o divinità (un parallelo coevo si può trovare nella necropoli alessandrina di Kom el-Shuqafa). Interessante è la commistione tra la tradizione religiosa egizia e lo stile decorativo romano.
È tornato in patria il rilievo con cartiglio di Amenofi I sequestrato due mesi fa in una casa d’asta londinese. Il frammento di calcare reca la porzione superiore del nomen (si vedono anche le zampe dell’anatra, parte della titolaruta sA-ra: “figlio di Ra; immagine a sinistra) del faraone che regnò intorno al 1526-1506 a.C. (XVIII din.). L’oggetto era stato rubato nel 1991 dal museo all’aperto del complesso di Karnak, a Luxor, e dopo 30 anni stava per essere venduto. Fortunatamente, però, un archeologo di cui non sono state rilasciate le generalità ha riconosciuto il reperto dal catalogo dell’asta e ha fatto una segnalazione al Ministero egiziano delle Antichità.
Così, come conferma Shaaban Abdel Gawad, coordinatore generale del Dipartimento Rimpatrio Antichità, l’Egitto si è mosso chiedendone la restituzione che è stata effettuata, presso l’ambasciata egiziana a Londra, lo scorso 19 settembre. Ora il rilievo è stato trasportato in Egitto, in attesa di essere esposto dov’era in origine: il museo all’aperto di Karnak è una vasta area nell’angolo N-E del precinto di Amon dove sono state rimontate diverse strutture sacrali distrutte e inglobate in costruzioni successive, come la “Cappella Bianca” di Sesostri I e la “Cappella Rossa” di Hatshepsut, e dove sono collocati blocchi singoli individuati durante gli scavi e di cui non si conosce l’origine precisa. Come si vede dalla foto in basso che ho scattato due mesi fa, questi blocchi sono disposti in una zona poco battuta dai turisti e per questo ancora oggi meno controllata rispetto al resto del complesso.
Museo all’aperto di Karnak (ph. Mattia Mancini)
In ogni caso, non è la prima volta che un archeologo blocca la vendita illegale di un reperto egizio nel Regno Unito. Marcel Marée del British Museum, ad esempio, in ben due occasioni (link 1, link 2) ha scovato pezzi trafugati dall’Egitto e finiti tra le proposte di Christie’s e Bonhams. Che sia stato ancora lui anche questa volta?
(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
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Devo ammetterlo: mi ero illuso, credevo che qualcosa fosse cambiato e invece…
La prima puntata della nuova avventura televisiva di Roberto Giacobbo, “Freedom – Oltre il confine”, non mi era dispiaciuta, anzi avevo apprezzato le belle immagini della tomba di Mehu – aperta al pubblico solo lo scorso settembre dopo quasi 80 anni dalla scoperta – e lo stile narrativo, volutamente amichevole e autoironico (ormai celebri sono i “permessi speciali” e le raccomandazioni fatte ai cameraman), che in alcuni casi preferisco a quello più ‘epico’ di Alberto Angela. Precisazione: il mio giudizio si limita al servizio sull’antico Egitto, l’unico che ho visto.
Tuttavia, giovedì scorso si è tornati nel classico solco del mistero che, con la scusa di voler sentire tutte le campane (cosa in genere buona e giusta), mette sullo stesso piano la cosiddetta ‘archeologia ufficiale’ e la fantarcheologia. Lungi da me pensare che ci siano verità dogmaticamente intoccabili, ma, se si vuole proporre teorie alternative, bisognerebbe avere alle spalle una solida preparazione, un metodo scientifico e argomentazioni che non si limitino a coincidenze numeriche, vaghe somiglianze o interpretazioni personali. Citando un altro Angela, il padre Piero, “Bisogna avere sempre una mente aperta, ma non così aperta che il cervello caschi per terra”.
Tornando alla seconda puntata di Freedom, l’argomento trattato si prestava particolarmente a speculazioni pseudostoriche di cui ho già parlato in questa rubrica: la piramide di Cheope. Perché nonostante il villaggio e i cimiteri degli operai, i graffiti nelle camere di scarico e la recente scoperta dei papiri dello Wadi el-Jarf (erroneamente attribuita – questa volta per colpa del social media manager della trasmissione – a Zahi Hawass; immagine a sinistra), viene sempre riproposta la panzana dell’origine più antica della Grande Piramide. Opera di una civiltà di oltre 10.000 anni fa, il monumento sarebbe stato al massimo modificato da Khufu. A tal proposito, Giacobbo si domanda come sia stato possibile passare repentinamente attraverso i sistemi costruttivi così diversi della ‘Piramide a gradoni’ di Djoser, di quelle per l’appunto di Giza e degli esempi meno monumentali della V dinastia. Peccato che non si faccia riferimento alle fasi intermedie di Snefru (‘Piramide romboidale’, ‘Piramide rossa’ di Dashur) e all’evoluzione, durata comunque secoli, sia del pensiero religioso che del tessuto socio-economico dell’Egitto, non più in grado di supportare, alla fine dell’Antico Regno, opere come quelle della IV dinastia. In sostanza, non c’è stata nessuna perdita improvvisa di conoscenza tecnologica.
Altro indizio per una presunta retrodatazione della piramide sarebbe la presenza di proto-geroglifici – mille anni più antichi di Cheope – in fondo a un condotto esplorato da un robot. Così come la Camera del Re (dove si trova il sarcofago in granito), anche la sottostante Camera della Regina ha due lunghi tunnel dalla sezione quadrata di circa 20 x 20 cm che salgono con pendenza variabile verso l’esterno. Dopo essere stati individuati nel 1872 dagli scozzesi Waynman Dixon e James Grant (in origine, infatti, le aperture erano nascoste dal rivestimento della stanza), si è cercato di indagarli a più riprese, anche con mezzi altamente tecnologici. In particolare, per il condotto meridionale sono stati adottati ben 4 robot cingolati: nel 1992 Upuaut aveva prodotto scarsi risultati; nel 1993 Upuaut 2 era riuscito a salire per circa 63 metri fino a incontrare una lastra di calcare con due maniglie di bronzo; nel 2002 la National Geographic Society aveva inviato, con diretta TV, un Pyramid Rover in grado di forare la ‘porta’ e vedere con una microcamera che oltre l’ostacolo si trovava un piccolo segmento e una chiusura analoga; infine, nel 2009, il progetto Djedi, ideato dall’ingegnere Rob Richardson della University of Leeds, adottò una snake-camera snodabile così da documentare anche le pareti laterali del vano scoperto in precedenza.
Source: newscientist.com
Ed effettivamente una sorpresa in quest’ultimo caso ci fu quando si notarono segni dipinti in rosso sulla pietra (immagine a sinistra). Segni che, senza aspettare la prima pubblicazione scientifica del team (Hawass Z. et alii, First report: video survey of the southern shaft of the Queen’s Chamber in the Great Pyramid, in ASAE vol. 84, 2010), erano stati definiti proto-geroglifici.
Le più antiche testimonianze conosciute di scrittura egizia vengono dalla tomba U-j di Umm el-Qa’ab (3320-3150 a.C.), nei pressi di Abido. In questa sepoltura, forse appartenuta al re Scorpione I, sono stati scoperti vasi con segni d’inchiostro, impronte di sigillo e soprattutto etichette d’osso e avorio che recano toponimi interpretati come un’embrionale suddivisione amministrativa del territorio alla fine del Predinastico. Non sarà stato il 3500 a.C. come detto in trasmissione, ma comunque una simile datazione dei segni nel condotto, se fosse stata confermata, avrebbe sconvolto tutte le nostre credenze sul monumento e sull’intera storia dell’antico Egitto.
Source: Djedi Project
Source: Luxor Times
In realtà, anche se le immagini girate dalla microcamera (vedi in alto) non sono chiarissime, bastano comunque per confermare la datazione ‘ufficiale’. Nella piramide, infatti, ci sono molti segni simili, fra l’altro vergati analogalmente in inchiostro rosso, come l’iscrizione con il cartiglio stesso di Cheope nella cosiddetta Camera di Campbell (foto a destra). Si tratta di semplici appunti lasciati dagli operai con numeri, date e nomi delle diverse squadre di lavoratori (qui un articolo di approfondimento). D’altronde, chiunque sia stato in un cantiere sa benissimo che le pareti di tutti gli edifici, sotto la vernice o la carta da parati, sono piene di scritte e numeri lasciati da muratori ed elettricisti per facilitarsi il lavoro.
E quindi, come interpretare i segni in ocra rossa del condotto meridionale se non proto-geroglifici? Hawass e i co-autori del report scrivono che si tratta di cifre in ieratico, la forma di scrittura corsiva dell’egiziano antico. Luca Miatello, ricercatore indipendente, rincara la dose leggendo “121”, tesi condivisa da James Allen, celebre egittologo americano ed esperto in lingua che tutti gli studenti conosceranno per aver imparato i geroglifici sul suo libro “Middle Egyptian: An Introduction to the Language and Culture of Hieroglyphs”. Mi chiedo solo perché, nella sbandierata volontà di dar voce a tutti, non sia stato interpellato sulla questione proprio Hawass, direttore del Progetto Djedi, che ha accompagnato Giacobbo nella visita della piramide. Il vero quesito è la funzione sconosciuta di questi canali, detti impropriamente “d’areazione”, che da alcuni vengono indicati come passaggi simbolici per l’anima del faraone verso le stelle circumpolari.
Infine, non poteva mancare il riferimento allo studio che negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione dei media: lo Scan Pyramids Project. Ne ho parlato ampliamente sul blog, quindi dico solo che una squadra internazionale di scienziati ha effettuato indagini non invasive con l’utilizzo di particelle muoniche individuando due anomalie nella Piramide di Cheope (immagine in alto). In particolare, sarebbe stato rilevato un ampio vuoto sopra la Grande Galleria, interpretato troppo frettolamente come “stanza segreta”. Ormai dovremmo aver imparato la lezione dalla lunghissima vicenda delle camere nascoste nella tomba di Tutankhamon e quindi sarebbe opportuna maggior cautela nei proclami aspettando ulteriori esami (che fra l’altro sono stati annunciati in esclusiva durante la puntata dallo scettico Hawass che ha parlato di due nuovi gruppi di studiosi, giapponesi e americani, attesi a Giza per l’inizio del 2019). Appare quindi come minimo prematura l’ipotesi di Giulio Magli, docente di matematica e archeoastronomia presso il Politecnico di Milano, che basandosi sulla lettura dei Testi delle Piramidi ha parlato della presenza nella camera di untrono di ferro meteoritico. Interpretare alla lettera le fonti scritte è sempre sbagliato, a maggior ragione quando non ne si conosce il contesto. Quel vuoto, per quello che sappiamo ora, potrebbe avere semplicemente una funzione strutturale o pratica nel realizzare la galleria sottostante, quindi è inutile fare ragionamenti sul suo contenuto.
In ogni caso, la teoria di Magli si basa soprattutto sulla formula 536 dei Testi delle Piramidi, presente solo nella piramide di Pepi I (VI din., 2330-2280 a.C.; quindi lontana circa tre secoli dal regno di Cheope durante il quale non si hanno tracce di questi enunciati religiosi).
Sethe K., Die Altaegyptischen Pyramidentexte Pyramidentexte nach den Papierabdrucken und Photographien des Berliner Museums, 1908
Tuttavia, viene presa in considerazione solo la versione di Faulkner (The Ancient Egyptian Pyramid Text, 1969) che per l’ultima parte della formua (Pyr. 1293a) recita: “Sit on this your iron throne”. Questo ferro, secondo Magli, sarebbe quello meteoritico per la menzione in precedenza delle “porte del cielo”. Altri studiosi, invece, hanno tradotto il termine biA (in questo caso, evidenziato in alto, è biAi) come “rame”, “bronzo” (Sethe 1962, p. 119; Curto 1962, p. 67), genericamente “metallo” (Allen 2005, p. 168) o, come aggettivo “fermo/eterno/brillante” (Speelers 1934, p. 308; Mercer 1952, p. 253). Appare quindi evidente che, per un’interpretazione così dibattuta, non sia sufficiente scegliere solo la versione che fa al proprio caso, soprattutto se non si è filologi.