Archivi del mese: marzo 2019

Un nuovo ambiente reale ridisegna la pianta del tempio di Ramesse II ad Abido

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Source: MoA

Ad Abido, a pochi metri dal più celebre tempio di Osiride di Seti I, il santuario del figlio si ‘allarga’. A ridisegnarne la planimetria è stato il team della New York University Epigraphical Expedition che ha scoperto un nuovo ambiente reale sul lato meridionale.

Plan_Abydos_Temple_Ramses_II_CompleteIl tempio, realizzato da Ramesse II (1279-1212 a.C.) per la triade Osiride-Iside-Horus dopo aver completato quello del padre, è più piccolo e decisamente peggio conservato, ma presenta comunque interessanti rilievi e iscrizioni (come la rappresentazione della onnipresente battaglia di Qadesh o una lista di re oggi al British Museum) che sono studiati dal 2007-8 dalla missione di Sameh Iskander e Ogden Goelet. La documentazione di testi e iconografie che ha portato alla pubblicazione di due volumi (III) si è affiancata anche a un lavoro di scavo quando, di fronte all’ingresso S-O, è stato individuato un palazzo collegato da una passerella in pietra al tempio (nell’immagine a sinistra ho segnalato in rosso l’area). 

La struttura è composta da pareti in mattoni crudi e lastre di calcare, stesso materiale del rivestimento del pavimento. Inoltre, sono stati ritrovati blocchi del soffitto dipinti con stelle, la base di una colonna in arenaria e gradini che recano iscritto il nome del faraone.

La titolatura di Ramesse II è presente anche sulle pietre di fondazione che venivano posizionate ai 4 angoli dell’edificio e che sono state scoperte per la prima volta dalla missione americana.

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Source: MoA

 

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Scoperto il porto da dove partivano le barche che trasportavano l’arenaria di Gebel el-Silsila

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Source: MoA

Spesso parlo delle scoperte effettuate dalla missione svedese a Gebel el-Silsila, esteso sito di cave di arenaria situato tra Edfu e Kom Ombo. Questa volta, però, protagonista del ritrovamento è stata una squadra egiziana che ha individuato il porto principale da cui i blocchi estratti nelle vicine cave partivano per il resto dell’Egitto.

La struttura, estesa 100 metri e distante solo 200 dalla grande cava n° 34, si trova sulla riva orientale del Nilo ed era nascosta dalla vegetazione e uno spesso strato di limo. Una volta ripulita l’area, è stato evidenziato il punto di approdo delle barche con diverse iscrizioni e fori per gli ormeggi.

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Erodoto aveva ragione nel descrivere i battelli del Nilo?

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Ph: Christoph Gerigk/Franck Goddio/Hilti Foundation

Le fonti storiche letterarie – si sa – non possono essere prese come oro colato a causa del loro contenuto contaminato da luoghi comuni, intenti propagandistici o semplicemente da una diversa visione del mondo rispetto a quella nostra attuale. Un chiaro esempio è la descrizione, spesso fantasiosa, che Erodoto fa nelle sue “Storie” dell’Egitto, paese che visitò intorno al 450 a.C. ma che rimase comunque estraneo – o meglio, strano – per la sua formazione culturale. Molte sono le cose raccontate dallo storico di Alicarnasso che non hanno avuto una conferma dall’archeologia, come le “baris”, particolari imbarcazioni fluviali mai ritrovate. Almeno fino a qualche anno fa.

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Ph: Christoph Gerigk/Franck Goddio/Hilti Foundation

Nel 2003, infatti, il team dell’Institut Européen d’Archéologie Sous-Marine diretto da Franck Goddio ha individuato nella baia di Abukir, dove una volta sorgeva la città di Heracleion, un relitto che confermerebbe quanto scritto da Erodoto nel Libro II, 96 1-5:

96 1) I loro battelli mercantili sono costruiti in legno di acacia; un albero somiglia molto al loto di Cirene, eccetto per la gomma che ne sgocciola. Tagliano da questa acacia tavole di circa due cubiti, che mettono insieme come mattoni, costruendo il battello come segue: 2) Collegano le tavole, di due cubiti, con lunghe e fitte costole; e quando hanno costruito in questo modo vi tendono sopra delle traverse. Nessun uso di tavole laterali. Turano le giunture con papiro; 3) apprestano un solo timone, che passa attraverso la carena. Per l’albero adoperano l’acacia e per le vele il papiro. Questi battelli non possono risalire il fiume se non soffia un forte vento, e vengono tirati da terra. Invece quando seguono la corrente, ecco come vanno: 4) c’è un graticcio costruito di tamerici, tenuto insieme da una stuoia di canne, e una pietra forata del peso di circa due talenti. Il graticcio viene gettato, legato a una fune, avanti al battello, così che il fiume lo porti in superficie, e dietro, con un’altra fune, la pietra. 5) La tavola, sotto la spinta della corrente, avanza veloce trascinando la “baris” – tale è il nome che hanno appunto questi battelli -, e la pietra, trascinata dietro e stando sul fondo del fiume, mantiene dritto il corso della navigazione. Gli egiziani hanno una grande quantità di questi battelli, di cui alcuni trasportano molte migliaia di talenti”.

csm_Ship_17_Cover_c6d2a7486dCome detto, la scoperta non è recente e le prime pubblicazioni sulla cosiddetta “Ship 17” risalgono al 2014, ma la notizia è tornata alla ribalta grazie all’uscita del volume (immagine a sinistra) di Alexander Belov, direttore dell’Oxford Centre for Maritime Archaeology e già autore di uno studio sul battello per il suo dottorato.

Quella che, secondo Belov, è proprio una baris risale alla metà del V-metà del IV sec. a.C. ed ha ancora il 70% della chiglia integro, un eccezionale stato di conservazione che ha permesso una comparazione con i dati forniti da Erodoto. La nave presenta un vasto scafo, in origine lungo 27-28 metri, a forma di mezza luna che non ha precedenti archeologici. La tipologia con timone assiale, seppur nota fin dalla VI dinastia in rilievi e modellini, non era mai stata documentata in un vero esemplare. Come nel testo sopra riportato, il fasciame è assemblato trasversalmente da “lunghe e fitte costole” in acacia che raggiungono i 2 metri, simili nel loro incastro a “mattoni”. Lungo l’asse centrale, invece, due fori a poppa servivano per il timone e un gradino sopraelevato per l’albero. Tuttavia, ci sono due differenze tra il relitto e la baris delle Storie: le dimensioni quasi doppie (2 cubiti corrispondono a 1,04 m) e la presenza di travi laterali atte a rinforzare punti particolarmente delicati della chiglia.

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ARCHEOLOGIA INVISIBILE: la nuova mostra del Museo Egizio di Torino racconta la “biografia degli oggetti” grazie alla scienza

Archeologia Invisibile, Museo Egizio di Torino

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Fotogrammetria, tomografia neutronica, indagine multispettrale, spettroscopia Raman, radiografia, TAC, modellazione 3D: astrusi tecnicismi rubati* agli scienziati, paroloni che, di tanto in tanto, leggete singolarmente sul mio blog ma che, tutti insieme, potrebbero spaventare i non addetti ai lavori. Non è questo il caso. Perché la nuova mostra temporanea del Museo Egizio di Torino, “ARCHEOLOGIA INVISIBILE” (13 marzo 2019 – 6 gennaio 2020), è tutto tranne che autoreferenziale, mirata ai soli esperti; al contrario, riesce nel difficile compito di spiegare al grande pubblico, in maniera semplice e pratica,  l’apporto della scienza al campo dell’archeologia. 

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La prima sala della mostra durante l’inaugurazione

Premetto che non è semplice descrivere ciò che ho visto ieri durante l’anteprima stampa dell’inaugurazione perché l’esposizione è realmente innovativa – soprattutto per l’Italia -, e non solo negli strumenti tecnologici adottati. L’attenzione è rivolta verso gli “oggetti”, volutamente pochi per valotizzarli con più spazio e per non caricare il visitatore di troppi dati che dimenticherà appena uscito dall’edificio. Prima dell’ingresso della mostra vera e propria, vengono addirittura fatti parlare in prima persona con discorsi diretti usciti dalla “bocca” di moderni pezzi di vita quotidiana che, in futuro, diventeranno a loro volta reperti archeologici. La ormai anacronistica funzione meramente espositiva dei musei è superata fornendo alle persone tutte quelle informazioni che l’Egizio ha acquisito negli ultimi anni grazie a progetti di studio dei reperti che hanno visto l’apporto di discipline scientifiche quali la fisica, la chimica e/o l’informatica. Informazioni non percepibili ad occhio nudo – ed ecco il significato del titolo – che spiegano la vera storia dei pezzi svelandone l’origine, la composizione, la funzione, gli eventuali rimaneggiamenti. Informazioni nate grazie alla collaborazione con università e istituti di ricerca di tutto il mondo (MIT di Boston, Università di Oxford, Centro Conservazione e Restauro della Venaria Reale, Musei Vaticani, CNR ecc.), già pubblicate sulle principali riviste scientifiche ma ora finalmente divulgate in modo intuitivo per tutti. Una tale collaborazione è esemplificata dalle parole del direttore Christian Greco: “Lo scienziato e l’umanista devono lavorare sempre di più assieme per cercare di dipanare la complessità del mondo contemporaneo”.

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Foto d’epoca della tomba di Nerfertari

Il coordinatore scientifico della mostra, Enrico Ferraris, durante la conferenza stampa si è definito un sarto per aver cucito insieme i contributi dei vari curatori che hanno portato le proprie esperienze e specializzazioni. Il percorso espositivo, infatti, si divide in tre macro-settori, ognuno dedicato alla vita archeologica di un reperto: scoperta, studio e conservazione. Si inizia quindi con la documentazione degli scavi che va dalle belle foto d’epoca – anche se qui proposte in 3D – della Missione Archeologica Italiana in Egitto (1903-1920) ai prodigi della fogrammetria – tecnica utilissima per rilevare velocemente i contesti archeologici e riportarli in modelli digitali – applicata agli scavi di Saqqara.

I sette contenitori di alabastro ancora sigillati dalla tomba di Kha e Merit

Poi si passa alle analisi diagnostiche effettuate, nell’ambito del “TT8 Project”, al corredo funerario della tomba di Kha e Merit, vero fiore all’occhiello del Museo Egizio. Ed ecco che, grazie a strumenti scientifici, si può guardare l’invisibile: XRF e ultravioletti permettono di studiare i pigmenti, le pennellate, le varie mani di pittura sovrapposte; la tomografia neutronica sbircia all’interno di vasi in alabastro sigillati da oltre 3400 anni (foto in alto); radiografie e TAC ‘sbendano’  mummie senza il pericolo di danneggiarle, scoprendo lo stato fisico dei defunti, le tecniche d’imbalsamazione e la presenza di amuleti.

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La radiografia alla mummia di Kha mette in evidenza la presenza di gioielli…

…gioielli poi riprodotti con la stampa 3D

Così, i corpi dell’architetto Kha e della moglie Merit sono affiancati da schermi che mostrano quest’autopsia virtuale che sfoglia, strato dopo strato, la copertura delle mummie. Grazie a questa tecnica è stato perfino possibile ricreare i gioielli dei coniugi, senza toccarli, grazie alla stampa 3D (foto a destra). Non siamo più di fronte alla caccia all’oggetto o agli “unwrapping party” vittoriani, ma a uno studio più etico e rispettoso dell’integrità del reperto. Stesso ragionamento si applica anche alle mummie animali che testimoniano pratiche religiose tipiche soprattutto del Periodo Tardo. Ma accanto a gatti, coccodrilli, ibis e babbuini, non è inusuale incontrare anche falsi, realizzati – come mi racconta Federica Facchetti, curatrice della sala dedicata all’argomento – sia nell’antico Egitto che, a scopo di truffa commerciale, in epoche più vicine a noi. Quella che, ad esempio, sembra una mummia di un feto si è invece rivelata essere il corpo di un rapace, evidentemente meno appetibile di un bambino nel mercato antiquario ottocentesco (foto in basso).

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La mummia di feto è in realtà un falso

Il terzo settore illustra il fondamentale ruolo dell’indagine archeometrica nello studio dei materiali e nella scelta delle tecniche da adottare per conservazione e restauro dei reperti più delicati, come le superfici parietali dipinte (esempio principale è la decorazione della tomba di Iti e Neferu da Gebelein), papiri (e l’unica pergamena conservata all’Egizio) e antichi tessuti che possono essere toccati con mano, ovviamente in riproduzioni moderne.

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L’istallazione finale del sarcofago di Butehamon

SPOILER ALERT: il percorso si conclude con una vera e propria sorpresa. Tutte le esperienze mostrate finora, infatti, vengono riassunte in un caso studio emblematico, quello del sarcofago di Butehamon, nella maniera più scenica e, aggiungerei, didattica possibile. La cassa antropoide dello scriba reale di III Periodo Intermedio (1070-712 a.C.) all’apparenza sembra un oggetto omogeneo, ma in realtà è il frutto dell’assemblamento di pezzi riciclati da almeno cinque sarcofagi più antichi e della sovrapposizione di diverse stesure di pittura ormai non più visibili. Ma tutti questi interventi, riscoperti grazie a indagini diagnostiche non invasive, tornano a palesarsi direttamente su una copia a grandezza naturale, sulla quale vengono proiettate immagini. Così, mentre i due schermi laterali spiegano tutte le fasi di realizzazione dell’oggetto, il sarcofago si trasforma e il nudo legno si ricopre gradualmente di geroglifici, scene, colori. Una scelta museale sicuramente innovativa, quasi spaziale… e non è un caso che la proiezione sia accompagnata dalla colonna sonora del film “Interstellar”.

 

*Cito la divertente provocazione di Andrea Augenti che scrive nel catalogo della mostra (da notare la geniale trovata della sopracopertina opaca che rende quasi invisibili le immagini della copertina): “gli archeologi rubano. […] Rubano agli altri mestieri gli attrezzi e il lessico; rubano persino le leggi che regolano il metodo del loro stesso lavoro!”

 

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Luxor Museum, (Ri)scoperte parti di modellino di barca appartenuto a Tutankhamon

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Source: Lost Treasurs of Egypt, ep.1 (National Geographic)

Lo scorso 4 marzo, in contemporanea in diversi paesi tra cui l’Italia, National Geographic ha lanciato una serie di documentari che illustrano le ultime novità delle missioni archeologiche in Egitto finanziate dalla National Geographic Society.  Proprio nel primo episodio, dedicato in particolare a Tutankhamon, si è parlato di una scoperta, o per meglio dire di una riscoperta riguardante il faraone bambino.

Durante le operazioni di trasferimento verso il nuovo Grand Egyptian Museum di alcuni reperti conservati nel Luxor Museum, il direttore di quest’ultimo, Mohamed Atwa (foto in basso a sinistra), e i suoi collaboratori hanno notato una vecchia scatola di legno impolverata di cui non si avevano dati. Aprendola, è arrivata una vera sorpresa, a conferma che non si finisce mai di ‘scavare’ nemmeno nei depositi museali. Sopra un foglio di giornale del 5 novembre 1933, infatti, si trovavano alcuni pezzi – creduti perduti – di uno dei 18 modellini d’imbarcazioni scoperti nella KV62: un albero, corde e sartiame vario e una testa osiriaca con ancora tracce di doratura.

Più precisamente, è stata trovata una chiara corrispondenza con la barca che ho indicato con la freccia rossa nella una foto (colorata) di Burton della cosiddetta Camera del Tesoro, in primo piano nell’immagine in basso a sinistra dai magazzini del GEM. Si tratta del reperto che Carter aveva registrato con il numero 321 e che, dopo essere stato portato al Cairo, era stato inventariato con la sigla JE 61330.

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