Nemmeno un mese fa vi facevo una summa dei risultati delle ultime prospezioni geofisiche nell’area della Tomba di Tutankhamon, ma pare che serva già un aggiornamento. Infatti, indiscrezioni riportate negli ultimi giorni da alcuni giornali egiziani online (link 1, 2, 3,4) parlano della ripresa della ricerca nella Valle dei Re per confermare o smentire le anomalie (camere ancora sconosciute?) individuate nei pressi della KV62 dalla missione italiana del prof. Porcelli.
Nella più totale segretezza e senza i soliti proclami mediatici a cui siamo ormai abituati, sembra che tra domenica e martedì siano stati effettuati nuovi esami con georadar (foto in basso) i cui dati dovrebbero essere processati in circa due mesi. Il nuovo team incaricato sarebbe diretto da Mamdouh el-Damaty, ministro delle Antichità all’inizio della vicenda e grande sostenitore delle tesi di Nicholas Reeves, e comprenderebbe ricercatori della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Ain Shams e tecnici della società inglese Terravision Center che aveva già collaborato con il team italiano.
Niente è stato ancora confermato ufficialmente, quindi prendete tutto con il beneficio del dubbio; in ogni caso, vi avvertirò appena avrò novità.
Gli archeologi polacchi dell’Istituto di Egittologia dell’Università di Varsavia hanno scoperto una trentina di mummie di oltre 2000 anni a ovest del complesso funerario di Djoser a Saqqara. In realtà, il ritrovamento risale all’ultima missione del settembre 2018, ma non era ancora stata annunciato.
L’area di scavo è collocata tra il muro di cinta occidentale e il grande fossato che circonda il complesso (immagine in basso), in una zona in cui si trovano tombe di funzionari di Antico Regno. Tuttavia, lo stesso luogo è stato sfruttato in epoche successive per sepolture molto più povere consistenti in corpi con mummificazione semplice in sarcofagi in legno o coperture in cartonnage, posti in fosse nella sabbia. Per questo motivo, lo stato di conservazione è quasi sempre cattivo e spesso delle bare sono rimaste solo tracce.
Particolare è il sarcofago in legno della Sepoltura 732 (foto in alto) che è stato depredato già in antichità da ladri che hanno asportato la maschera funeraria. La decorazione, secondo il direttore della missione Kamil Kuraszkiewicz, sottolinea la scarsa qualità dell’oggetto il cui artefice era evidentemente analfabeta in quanto l’iscrizione geroglifica non ha un significato compiuto. Inusuale è anche la scelta di utilizzare il blu nel disegnare i due Anubi che si trovano nella parte dei piedi.
Nuova alternativa per i turisti che visiteranno l’Egitto e in particolare il Fayyum. Stamattina, alla presenza del ministro delle Antichità Khaled el-Enany e del segretario generale dello SCA Mostafa Waziry, è stata aperta per la prima volta al pubblico la piramide di El-Lahun (spesso riportata come Illahun), la sepoltura monumentale del faraone Sesostri II (1895-1878 a.C.). La piramide, l’unica del Medio Regno ad essere accessibile, si trova nell’estremo est del governatorato del Fayyum. La struttura era composta da un nucleo di mattoni crudi, in parte collassato, posizionato su uno sperone di roccia naturale e dal rivestimento in pietra calcarea che è stato asportato già da Ramesse II. Io stesso anni fa avevo potuto visitare solo i dintorni e affacciarmi appena sul pozzo d’ingresso – piuttosto ripido – che diversamente dal solito si trova sul lato sud e non su quello nord. Inoltre, sono stati presentati anche diversi ritrovamenti effettuati durante i lavori di restauro dell’area, come mummie, maschere funerarie, ushabti, amuleti e altri oggetti appartenenti a corredi più tardi (foto e video in basso).
Tutti quelli che erano preoccupati per un possibile smantellamento del Museo Egizio del Cairo possono tirare un sospiro di sollievo. Infatti, nonostante la costruzione del Grand Egyptian Museum e del National Museum of Egyptian Civilization e la conseguente perdita di numerose antichità, l’edificio storico di Piazza Tahrir continuerà a mantenere il suo ruolo.
La settimana scorsa – alla presenza del ministro delle Antichità Khaled el-Enany, della ministra degli Investimenti Sahar Nasr e dell’ambasciatore dell’Unione Europea al Cairo Ivan Surkoš (foto in basso) – è stato lanciato ufficialmente il progetto che prevede lo sviluppo del “vecchio” Museo Egizio. Grazie a un finanziamento UE di 3,1 milioni di euro e alla consulenza di esperti da Museo Egizio di Torino (capofila del gruppo), British Museum, Louvre, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino e Rijksmuseum van Oudheden di Leida, nei prossimi 36 mesi si creerà un nuovo percorso espositivo.
Chi ha visitato recentemente il museo si è accorto che i cambiamenti sono già in corso d’opera. Ad esempio, lo spostamento dei reperti del corredo di Tutankhamon verso il GEM ha fatto sì che la galleria fosse occupata dagli oggetti della tomba di Yuia e Tuia. Per il futuro, invece, è previsto un ripensamento generale delle sale del piano terra (nn. 43, 48, 47, 46, 51, 49, 50) e della stanza dedicata al tesoro delle tombe reali di Tanis al primo piano.
Inoltre, il gruppo di esperti europei aiuterà i tecnici locali a potenziare la biblioteca, digitalizzare gli archivi e promuovere la comunicazione in Egitto e all’esterno. Infine, non sarà tralasciato il ruolo formativo del museo all’interno della società, coinvogendo scuole e i giovani in generale.
Quando presento sul blog pubblicazioni scientifiche sulle ultime scoperte archeologiche in Egitto, spesso mi chiedete dove poter reperire le stesse informazioni in modo più semplice e soprattutto meno ingessato dal linguaggio tecnico accademico. Infatti, soprattutto nel panorama italiano, non è semplice trovare seri testi divulgativi che si occupino di storia egizia senza sconfinare nei soliti cliché triti e ritriti o, ancor peggio, in strane teorie alternative.
Così colgo con piacere l’occasione di consigliare a tutti gli egittofili, o a chi semplicemente voglia approfondire la propria conoscenza della civiltà faraonica, la nuova opera editoriale di De Agostini – una sicurezza in questo senso – che uscirà in edicola il 3 agosto 2019. “EGITTO” è una collana di 45 volumi illustrati che toccherà tutti gli aspetti tipici della Valle del Nilo, divisi in 7 categorie: Storia, Arte, Viaggio in Egitto, Vita Quotidiana, Scrittura, Scienza e Riscoperta dell’Egitto e Religione. A quest’ultimo argomento – forse il più peculiare – è dedicata la prima uscita che ho potuto consultare in anteprima per parlarvene.
Il volume tratta, come si legge dal sottotitolo, di riti, mummie e magie. Nell’eterogeno pensiero religioso egiziano, i molteplici culti sono presentati insieme a figure sacerdotali, oggetti e simboli relativi. Ho apprezzato soprattutto il fatto che si parli anche della religione popolare, tanto importante quanto sottovalutata rispetto al canone ufficiale dei grandi templi. Una parte rilevante è riservata al concetto di magia nell’antico Egitto (heka) e al potere della parola, mai così forte nelle altre civiltà del passato. Infine, non poteva mancare una lunga panoramica sulla mummificazione, il rituale che più di tutti cattura la curiosità delle persone, raccontata attraverso la sua origine, la sua evoluzione nel corso dei secoli, i significati pratici e simbolici di ogni passaggio.
In generale, “EGITTO” affronta ogni tema con un linguaggio semplice ma non banale, accompagnato da belle foto che riempiono tutte le pagine; inoltre, nei numerosi approfondimenti si trovano parallelismi con altre culture, riferimenti ai tempi odierni, descrizione delle ultime scoperte e curiosità varie.
Senza aspettare agosto, è già possibile abbonarsi online ad “EGITTO” sul sito https://track.adform.net/C/?bn=30776154. Inoltre, inserendo il codice promozionale REGALOEGITTO entro il 31 luglio 2019, riceverete un omaggio in più oltre ai regali riservati agli abbonati.
(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
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Di questa persona, forse l’ultima figura romantica nel mondo dell’egittologia, mi avete chiesto in tanti di parlare, praticamente da quando ho cominciato a scrivere sul blog. Una donna in cui coesistevano in egual misura indiscusse capacità professionali e bizzarre stravaganze new age che incuriosivano colleghi, turisti e giornalisti che la incontravano. Un personaggio che ovviamente non poteva sfuggire ai radar della trasmissione “Freedom” di Giacobbo che le sta dedicando ben due puntate (la scorsa, 11/06/2019, e quella di stasera, 18/06). Così, visto il rinnovato interesse, colgo l’occasione per far luce su alcuni degli aspetti più misteriosi della vita di Dorothy Eady,Bulbul Abdel Meguid, Bentreshyt o, come è più comunemente nota, Omm Sety (anche se potete trovare altre grafie come Omm Seti o Umm Sety), la reincarnazione di una sacerdotessa egizia.
Mummia di Seti I (Source: wikipedia.org)
Dorothy Louise Eady nacque il 16 gennaio 1904 in un sobborgo a sud-est di Londra e probabilmente avrebbe avuto un’anonima vita medio-borghese se all’età di 3 anni non fosse caduta dalle scale. Il medico chiamato a salvarla non potè far altro che appurarne la morte, ma, tornato dopo mezz’ora per preparare la salma, trovò la bambina beatamente seduta sul letto mentre mangiava cioccolata. Da questo momento in poi, la piccola Dorothy cominciò a fare sogni strani in cui vedeva palazzi con grandi colonne e un giardino con una vasca al centro. La situazione divenne preoccupante quando l’anno dopo, durante una visita al British Museum, la bambina entrò nella galleria egizia e cominciò ad abbracciare e baciare i piedi delle statue dicendo di voler “rimanere tra la sua gente”. L’ossessione verso l’antico Egitto crebbe esponenzialmente, tanto da spingere spesso Dorothy a saltare la scuola per recarsi nel museo londinese dove conobbe addirittura il celebre egittologo Ernest Alfred Thompson Wallis Budge, curatore del Dip. di Antichità Egizie e Assire, che le insegnò i rudimenti della scrittura geroglifica. Le “visioni” aumentarono sempre di più, fino ai 15 anni, quando le venne in sogno l’uomo più importante della sua vita, il faraone Seti I, che riconobbe per aver visto alcune foto della sua mummia (immagine a sinistra).
Dopo aver visitato tutte le collezioni egizie del Regno Unito e cominciato a raccogliere personalmente le antichità meno costose disponibili sul mercato antiquario, a 27 anni si trasferì a Londra per lavorare in una rivista egiziana e qui incontrò Iman Abdel Meguid, uno studente che diventerà suo marito. Così, per sposare Iman, riuscì finalmente a coronare il sogno di tornare a “casa”, nel 1933, arrivando al Cairo e assumendo il nome arabo di Bulbul Abdel Meguid. Ma il matrimonio, nonostante un figlio chiamato non a caso Sety, durò poco a causa delle stranezze della donna mal viste dai suoceri e da una proposta di lavoro che portò il marito in Iraq. Infatti, strani fenomeni di trance, scrittura automatica ed esperienze di uscita dal corpo erano ormai all’ordine del giorno, soprattutto dopo che Hor-Ra, un antico spirito egizio, le avrebbe occupato i sonni per 12 mesi consecutivi, raccontandole la sua vita passata.
Tempio di Seti I, Abido
Omm Sety sarebbe stata la reincarnazione di Bentreshyt (“Arpa della Gioia”), una giovane nata da un soldato e da una venditrice di frutta. Il padre l’abbandonò sui gradini del Tempio di Seti I ad Abido (immagine in alto), dove il sacerdote Antef la raccolse e la crebbe a sua volta come sacerdotessa di Iside. Un giorno, mentre cantava nel giardino del santuario, colpì con la sua incantevole voce il faraone che se ne innamorò. Così i due divennero amanti e Bentreshit rimase incinta nonostante il voto di castità. Il finale della storia, come spesso succede nei ricordi di vite passate, è tragico perché Antef si accorse del pancione e la spinse al suicidio dopo non essere riuscito ad estorcerle il nome del suo illustre compagno.
Labib Habachi, Omm Sety e Hānī al-Zaynī (Source: calisphere.org)
Una volta libera dagli impedimenti coniugali, Bulbul (letteralmente “Usignolo”) si trasferì a Nazlat es-Simman, villaggio a due passi dalla piana di Giza, e riuscì perfino a ottenenere un impiego, prima donna in assoluto, come disegnatrice e ispettrice per il Dipartimento delle Antichità egiziane. Essendo dipendente del dipartimento, era libera di entrare nel sito archeologico anche dopo la chiusura, effettuare i suoi riti giornalieri nei templi dell’area (ormai era diventata politeista convinta), fare offerte alla Grande Sfinge e passare notti all’interno della Piramide di Cheope. Quando perse l’affidamento del figlio, potè anche partecipare attivamente a diverse missioni archeologiche, collaborando con alcuni tra i più importanti egittologi locali: Selim Hassan, lo scopritore della tomba intatta della regina Khentkaus (Omm Sety compare nei ringraziamenti nei suoi volumi “Excavations at Gîza”), Ahmed Fakhry, direttore degli scavi nella necropoli di Dahshur e della piramide di Djedkara a Saqqara, e Labib Habachi (a sinistra nella foto in alto). In generale, si occupava di disegno tecnico dei reperti e di editing delle pubblicazioni scientifiche in inglese, di cui probabilmente era spesso la ghost writer.
Source: abydosarchive.org
La sua prima visita nell’amata Abido risale al 1952, quando passò tutta la prima notte a bruciare incenso nel tempio di Seti I. Tuttavia, è solo il 3 marzo 1956 che si trasferì definitivamente per disegnare i rilievi, catalogare i blocchi in magazzino e copiare le iscrizioni tra le rovine. Qui lavorò ufficialmente fino al 1964, per poi, dopo un breve periodo nella sede centrale del Dipartimento al Cairo, tornare come consulente e guida (a destra, il suo report mensile delle attività svolte nell’agosto 1968). Ormai anziana, Omm Sety si ritirò a vita privata solo nel 1972 a causa di un attacco cardiaco, ma continuò comunque ad accompagnare i visitatori del sito fino alla morte, il 21 aprile 1981.
Ad Abido, Omm Sety divenne molto popolare intrattenendo con i suoi curiosi aneddoti turisti e colleghi e mescolandosi, grazie a un tenore di vita molto spartano, con gli abitanti del luogo che la temevano e rispettavano. Lo stesso nome che la contraddistingue maggiormente le venne dato proprio ad Abito per sottolineare – come spesso si fa nel mondo islamico – la sua maternità (= “Madre di Sety”). Inoltre, la vicinanza con gli abitanti del villaggio le permise di condurre valide ricerche etnografiche per l’American Research Center in Egypt che mettevano in relazione gli antichi culti egizi con le tradizioni musulmane e copte contemporanee.
Omm Sety e la sua gatta (che ovviamente si chiamava Bastet)
La fama mondiale crebbe grazie a diversi articoli di giornali e a due documentari girati nel 1980, poco prima della morte: “Omm Sety and Her Egypt” per la BBC ed “Egypt: Quest for Eternity” per National Geographic (in basso). Ma la sua aurea mistica si deve soprattutto alle pubblicazioni dell’amico Hanny El Zeini che, in particolare nel libro “Omm Sety’s Egypt”, riporta diversi racconti incredibili e tutte le scoperte archeologiche che sarebbero state effettuate grazie ai suoi ‘ricordi’ della vita passata. El Zeini afferma di aver chiesto al capo ispettore di Abido se fossero vere tutte le storie che circolavano attorno a Omm Sety ricevendo come risposta che la donna era stata la protagonista materiale del ritrovamento dei giardini del tempio, nell’area del “Palazzo”, e che aveva dato un valido aiuto anche nell’individuazione della galleria del settore settentrionale del santuario (l’ingresso all’Osireion).
Ma è possibile che Omm Sety abbia veramente indicato dove scavare perché aveva vissuto in prima persona quei luoghi? O che fosse a conoscenza dell’ubicazione di importanti siti non ancora scoperti grazie ai suggerimenti di antichi personaggi apparsi in sogno? In effetti, Omm Sety diceva di avere spesso visite da Seti (tornato dall’Amduat grazie – ironia della sorte – proprio a “un permesso speciale”) che in un primo momento, nonostante i trascorsi amorosi, si sarebbe rivelato rispettoso del suo status di donna sposata ma che poi, dopo il divorzio, le avrebbe proposto un matrimonio nell’aldilà. Così come erano frequenti i colloqui con il grande Ramesse II, ricordato invece come un ragazzino irrequieto e rumoroso.
In realtà, la quasi totalità delle previsioni di Omm Sety non è mai stata verificata. In “Abydos: Holy City of Ancient Egypt” (pp. 176-178), scrisse che nel 1958 sarebbe caduta dal soffitto della Camera delle barche solari del tempio di Seti e che si sarebbe ritrovata in un ambiente colmo di casse, tavole d’offerta, teli di lino, statue d’oro con cartigli della XXVI dinastia; tuttavia, non riuscì più a ritrovare l’accesso a questa fantomatica stanza del tesoro. Era convinta anche che sotto l’edificio ci fosse una biblioteca con papiri dall’inestimabile valore storico e religioso: anche in questo caso, zero riscontri. Disse la sua perfino sulla tomba di Nefertiti che collocava nella Valle dei Re, vicino la tomba di Tutankhamon, grazie a una dritta di Seti I, nonostante questi non volesse che si trovasse perché odiava Akhenaton in quanto iconoclasta e deportatore di masse. Lo stesso Nicholas Reeves la cita nell’articolo in cui presenta l’ormai celebre teoria sulle camere nascoste nella KV62 (ma sappiamo benissimo come sia finita la questione). Altre rivelazioni, invece, sconfinano nella pura fantarcheologia, come la netta retrodatazione dell’Osireion di Abido – non più quindi cenotafio di Seti I – e della Grande Sfinge di Giza, che sarebbe stata l’effigie del dio Horus e non di Chefren.
Se poi andiamo nel particolare, la presunta scoperta del tunnel nord imputata ai ricordi di Omm Sety (e segnalata da Freedom come indizio della veridicità delle parole della donna) non è altro che la risultante dell’intuizione del celebre archeologo britannico Flinders Petrie che nel 1902 notò una depressione scavando con Caufeild il muro di recinzione del tempio di Seti I. Nel 1903, Margaret Murray, individuò l’anticamera dell’Osireion e la fine del corridoio d’accesso di cui comunque tracciò l’ipotetico andamento nella sua pubblicazione del 1904, ricongiungendosi a ciò che era stato indagato l’anno prima (immagini in basso). L’Osireion vero e proprio, invece, fu scavato da Edouard Naville tra 1912 e 1914 e poi da Henri Frankfort nel 1925.
Murray M., “The Osireion at Abydos”, 1904, tv. XV
Murray M., “The Osireion at Abydos”, 1904, tv. XVI
Un’altra grave svista della trasmissione è stata datare al 3000 a.C. i geroglifici presenti nel corridoio e considerarli tra i primi della storia egizia. Le prime attestazioni di scrittura geroglifica sono state trovate effettivamente ad Abido, ma più ad ovest, nella necropoli di Umm el-Qaab e in particolare nella tomba U-j del re Scorpione I (3200 a.C. circa). I testi che si trovano nell’Osireion, invece, corrispondono al Libro delle Porte, gruppo di formule funerarie che comparvero solo alla fine della XVIII dinastia (1300 a.C. circa), e al Libro delle Caverne, testo di età ramesside che qui ha il suo primo esempio; nello specifico – e sarebbe bastato leggere i cartigli inquadrati – ciò che è scritto alle pareti del corridoio è da collocare sotto il faraone Merenptah (1213-1203 a.C.).
Frame tratto dalla puntata di Freedom del 18/06/2019, rielaborato da M. Mancini con cartiglio di Merenptah dal Tempio di Luxor
A detta di chi l’ha conosciuta, Omm Sety non fingeva ed era fermamente convinta di quello che diceva. Molti psicologi e altri esperti hanno provato a spiegare le sue visioni con la “sindrome della falsa memoria”, estraneazione dalla realtà, danni cerebrali subiti per la caduta a 3 anni, ma credo che a posteriori, senza una vera visita medica, sia inutile parlarne. Più importante è invece sottolineare professionalità e preparazione della donna che erano confermate da altri eminenti egittologi, ma che rischiano di passare in secondo piano a causa del folklore della sua vita. Nonostante non abbia seguito una normale carriera accademica, infatti, Omm Sety comiciò a studiare storia e lingua egizia fin da piccola e poi si formò sul campo grazie a decenni di missioni archeologiche, proprio come aveva fatto Howard Carter.
È vero che – come dice l’egittologo Kenneth Kitchen – Omm Sety potrebbe essere arrivata ad alcune conclusioni esatte perché passava tutto il suo tempo nell’area archeologica di Abido, osservando, disegnando, copiando e studiando, cosa che il 99% degli altri ricercatori non potrebbe mai fare. Ma in generale, non c’è comunque alcun documento, articolo o appunto scritto che provi che lei sapesse in anticipo dove scavare. Abbiamo solo i suoi racconti a posteriori, oltre a dicerie, voci di persone a lei vicine e anonime citazioni che non hanno alcun valore scientifico. Non ci sono nemmeno conferme da parte dei suoi familiari di tutto ciò che Omm Sety raccontò sulla sua infanzia.
Resta quindi uno dei tanti esempi di persone che, forse per fuggire dalle insoddisfazioni della vita reale, immaginano di avere avuto un trascorso illustre. Quasi mai, infatti, si sente parlare di reincarnazioni di gente comune e Omm Sety non fa eccezione perché, nonostante nella scorsa puntata di Freedom si sia provato a sottolineare le umili origini di Bentreshyt, questa sarebbe stata comunque l’amante dell’uomo più potente del suo tempo. Inoltre, va aggiunto che l’antico Egitto, per il suo fascino esotico, è sempre stato terreno fertile per correnti filosofiche esoteriche e per società segrete iniziatiche che della reincarnazione hanno fatto l’elemento fondante. Curiosamente ci fu anche una concittadina e quasi coetanea di Omm Sety, la scrittrice Joan Grant, che assicurava di ricordare almeno 40 vite passate tra cui quella di Sekhet-a-Ra, sacedotessa e regina vissuta durante la I dinastia e sepolta, anch’essa, ad Abido. Questa storia, a parer suo non inventata, le servì da spunto per realizzare il suo romanzo più famoso, “Il Faraone alato” (1937).
Il tempio di Seti I con i luoghi delle “scoperte” di Omm Sety
Quando si parla di Tutankhamon – è inevitabile – l’attenzione mediatica è sempre grande. Non è un caso quindi che la vendita di una testa del giovane faraone abbia subito scatenato veementi proteste da parte delle autorità egiziane.
Il tutto è nato dalla pubblicazione da parte di Christie’s del catalogo di 104 antichità, molte delle quali egizie, che saranno messe all’asta il prossimo 3 luglio a Londra.
Oltre a questi reperti, per il giorno dopo è prevista la vendita eccezionale di un frammento, alto 28,5 cm, di una statua in quarzite marrone che mostra la testa di Tutankhamon (1333-1323 a.C.) nella forma divinizzata di Amon. Il re, infatti, è rappresentato con la tipica corona del dio, sormontata da due piume che si conservano ancora alla base. Tale scelta non è casuale, ma rispecchia la volontà politica del faraone di restaurare il vecchio credo legato ad Amon-Ra dopo la breve parentesi di riforma religiosa di Akhenaton (1351-1333), rigettata anche dal cambiamento del nome che in origine era Tutankhaton. Nonostante ciò, la scultura mostra ancora gli evidenti influssi dell’arte amarniana nei tratti del viso.
Diverse statue simili sono state ritrovate nel complesso templare di Karnak a Luxor (un esempio dal Metropolitan Museum di New York: https://www.metmuseum.org/toah/works-of-art/07.228.34/), come chiara volontà di mostrare il ritorno alla tradizione nel luogo che più di tutti era stato osteggiato da Akhenaton. Proprio questo particolare ha spinto le più alte cariche del Ministero egiziano delle Antichità ad attivarsi per bloccare la vendita che dovrebbe raggiungere almeno i 4 milioni di sterline (circa 4,5 milioni di euro). Infatti, secondo dichiarazioni rilasciate dal celebre archeologo Zahi Hawass alla ABC News, il frammento sarebbe stato rubato proprio da Karnak negli anni ’70.
Mostafa Waziry, segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità, ha aggiunto che se Christie’s non fornirà un’adeguata documentazione che attesti una legale esportazione dall’Egitto, il pezzo dovrà essere restituito all’Egitto. Nel paese nordafricano, il patrimonio archeologico è tutelato dalla legge n° 117 del 1983, inasprita ulteriormente nel 2017 per cercare di arginare scavi abusivi e il conseguente mercato nero cresciuti a dismisura dopo la rivoluzione del 2011. Esiste perfino un dipartimento del Ministero delle Antichità preposto alla lotta al contrabbando, il cui capo, Shaaban Abdel-Gawad, si sta preparando a contattare l’Interpol e a intraprendere tutte le azioni legali del caso. Anche il Ministro egiziano degli Esteri è stato allertato nel caso servisse un intervento nei confronti del suo omologo britannico.
Christie’s ha risposto alle accuse per mezzo di una portavoce che, in una dichiarazione alla CNN ha affermato che “gli oggetti antichi, per loro natura, non possono essere tracciati per millenni”, aggiungendo inoltre che “è estremamente importante stabilire la proprietà recente e il diritto legale alla vendita, come abbiamo chiaramente fatto. Non proporremmo alcun oggetto su cui ci fossero dubbi per il possesso o l’esportazione”.
In tal senso, si sa che la testa, già nota agli esperti ed esposta in alcune mostre in Spagna e Germania, fa parte della Collezione Resandro, una delle più famose raccolte private di antichità egizie, già in parte piazzata dalla stessa casa d’asta nel 2016 per 3 milioni di sterline. L’attuale proprietario avrebbe acquistato la testa nel 1985 da Heinz Herzer, un mercante di Monaco di Baviera. Ancor prima, l’austriaco Joseph Messina l’avrebbe acquisita nel 1973-74 dal principe tedesco Wilhelm von Thurn und Taxis che l’avrebbe posseduta nella sua collezione privata dagli anni ’60.
Ma intanto, mentre si procede con le indagini per stabilire l’origine del pezzo e verificare l’attendibilità delle documentazioni presentate, il ministro egiziano delle Antichità Khaled el-Enany ha già chiesto a Christie’s, tramite l’ambasciata egiziana a Londra e l’UNESCO, di bloccare la vendita.
Aggiornamento del 5 luglio:
Nonostante l’opposizione ufficiale delle autorità egiziane e la presenza di uno sparuto gruppo di dimostranti fuori la sede londinese, Christie’s ha deciso comunque di non ritirare dalla vedita la testa in diorite di Tutankhamon che è stata battuta per 4 milioni di sterline, poco meno di 4,5 milioni di euro.
Considerato il pezzo più pregiato dell’asta straordinaria di ieri, il lotto n° 110 ha raggiunto velocemente tale cifra con pochi rilanci da un prezzo base di 3 milioni. Tuttavvia l’acquirente, ancora sconosciuto, dovrà sborsare in totale 4.746.250 sterline (quasi 5,3 milioni di euro) che includono anche commissioni e spese varie.
Nella stessa seduta, è stata venduta anche una testa frammentaria in granito di Amenofi III, nonno di Tutankhamon, per 550.000 sterline.
Finalmente risponderò alla domanda più annosa della storia dell’egittologia: come sono state costruite le piramidi?
Semplice; i blocchi erano trainati da mammut.
Almeno questa è la risposta tratta dal film “10.000 AC”, pellicola di avventura storica – o meglio, preistorica – che presenta un passato decisamente alternativo. In questa reinterpretazione fantastica di un periodo così remoto, Roland Emmerich torna a parlare anche dell’origine della civiltà egizia con un altro luogo comune fantarcheologico. Infatti, se in Stargate lo sprint evolutivo alla società preistorica era stato fornito da un’entità aliena, 14 anni dopo (2008) il regista e sceneggiatore collega lo sviluppo tecnologico – non ai livelli di navicelle spaziali e viaggi interdimesionali, ma comunque spropositato per 12000 anni fa – ad Atlantide.
La storia si svolge dal periodo esplicato dal titolo stesso del film, tra la tribù degli Yagahl, cacciatori primitivi che vivono in remota regione montuosa. Tra questi, il protagonista è il giovane D’Leh (Steven Strait; immagine a sinistra) che, riuscendo fortunosamente ad uccidere un mammut, riceve le insegne del potere. Tuttavia, la tranquillità del gruppo viene sconvolta dall’attacco di misteriosi guerrieri a cavallo – dagli evidenti tratti somatici arabeggianti – che catturano alcuni mastodonti e rapiscono anche diversi membri della tribù, tra cui la ragazza dagli occhi blu Evolet (Camilla Belle). Questo è l’evento scatenante dell’avventura e da qui in poi si assiste all’inseguimento di D’Leh che cercherà di salvare la sua amata attraverso terre sconosciute.
Balzano subito all’occhio i primi anacronismi e incongruenze geografiche. Si vedono armi in ferro quando saremmo in pieno Mesolitico e cavalcature che anticipano la domesticazione del cavallo di 6/7000 anni e di ancor di più l’utilizzo dell’animale in battaglia; inoltre, i mammut – se si esclude un unico caso – erano già estinti e gli occhi azzurri comparvero a causa di una mutazione genetica verificatasi solo 7000 anni fa circa. Non è ben chiaro nemmeno dove sia la terra di origine di D’Leh, anche perché il guerriero durante il suo viaggio incontra prima una foresta pluviale, poi savane con precoci tracce di agricoltura e infine il deserto che costeggia il “grande serpente” Nilo.
Si viene a sapere, infatti, che i predoni altro non sono che Egiziani inviati a procacciare schiavi e grandi animali da traino da impiegare nella costruzione delle piramidi, anche dette “montagne degli dèi”. D’Leh incontra diverse tribù che hanno subito la stessa sorte e che si alleano con lui seguendo una profezia che lo vede come liberatore perché risparmiato dallo smilodonte “Denti a Lancia”.
In tutto questo l’Egitto compare solo dopo un’ora di girato, attraverso un mega cantiere con i già citati mammut da soma e centinaia di migliaia di schiavi che lavorano alla costruzione di due delle tre piramidi di Giza.In generale, troviamo la fiera delle tesi alternative di Graham Hancock, Robert Bauval e tutti gli altri scrittori di fantarcheologia di cui mi occupo nella rubrica “bufale eGGizie“: le piramidi sono allineate con la costellazione di Orione, sono state costruite 12.000 anni fa e la Grande Sfinge appare con la testa di leone (immagine in basso).
Un simile grado evolutivo, con vaste città piene di templi con corti e piloni tipici del Nuovo Regno, ovviamente stona con l’effettiva realtà dell’Egitto del Mesolitico che era caratterizzato da diverse culture locali semi-sedentarie che vivevano delle risorse trovate lungo le rive del Nilo, nel Fayyum e nel deserto. Nella finzione del film, invece, la società è retta dal malvagio Onnipotente, un altissimo uomo nascosto da veli e venerato come un dio. Le sue origini sono spiegate da una mappa disegnata su papiro che, oltre a delineare con precisione tutti i continenti comprese le Americhe, pone al centro dell’Oceano Atlantico una grande isola da cui “gli abitanti volarono via quando fu sommersa dalle acque” (immagine in basso). Tale posizione non è casuale e fa riferimento al mito originario di Atlantide che, descritta per la prima volta da Platone nel Timeo (360 a.C.), viene collocata oltre le Colonne d’Ercole.
Il resto non ve lo racconto anche perché il film termina con uno scontatissimo quanto frettoloso lieto fine.
Il team di archeologi egiziani che lavora a Tell Abqain, governatorato di Buharya, ha individuato due magazzini per lo stoccaggio di alimenti databili al regno di Ramesse II (1279-1212 a.C.). Il sito si trova nella città di Housh Eissa, nel Delta nord-occidentale, e corrisponde a una fortezza fatta costruire dal celebre faraone di XIX dinastia per proteggere il confine est dagli attacchi dei Libici. Non a caso, oltre ai due magazzini, sono stati scavati anche un tratto delle mura esterne, torri di avvistamento e un finto cortile di accesso che sarebbe servito a ingannare eventuali invasori.
In ogni caso, le due strutture in mattoni crudi erano suddivise in piccole celle come un alveare. Separati da un’area aperta murata, i magazzini erano protetti da due ambienti adibiti alle guardie. All’interno sono stati ritrovati diversi contenitori ceramici e resti di ossa di animali e pesci. Inoltre, alcuni forni di argilla adiacenti alle strutture potrebbero essere stati utilizzati per tostare il grano, così da eliminare parassiti e umidità e, di conseguenza, prolungare la conservazione dei cereali. Tra i ritrovamenti ci sono anche diversi amuleti protettivi (foto in basso).
Ultimamente, a causa di alcuni articoli diventati abbastanza virali sul web, sono tornate alla ribalta le celeberrime camere nascoste nella Tomba di Tutankhamon. Sapete bene che la questione è stata definitivamente chiusa nel maggio del 2018 con la terza serie di scansioni con georadar, ma la notizia riportata nei succitati articoli è un’altra: la possibile presenza di possibili vuoti nei pressi della KV62.
In realtà, anche in questo caso non c’è niente di nuovo perché il rilevamento di anomalie geofisiche nelle immediate vicinanze della tomba di Tutankhamon risale al 2017 ed è il frutto del lavoro dello stesso team italiano che ha bocciato la tesi di Nicholas Reeves. Diretto dal prof. Franco Porcelli (Politecnico di Torino), in collaborazione con esperti di Università di Torino, 3DGeoimaging di Torino, Geostudi Astier di Livorno, l’inglese Terravision e, per la consulenza egittologica, Centro Archeologico Italiano al Cairo (Istituto Italiano di Cultura), il “Progetto VdR Luxor”, mirato all’intera mappatura geofisica della Valle dei Re, era partito proprio dall’indagine della tomba più famosa d’Egitto. In quest’ottica, era stata usata la tomografia di resistività elettrica (ERT) sulla superficie esterna come metodo diagnostico complementare al georadar nella camera funeraria ed erano stati acquisiti dati interessanti.
Io ve ne avevo già parlato l’anno scorso (potete comunque leggere l’articolo scientifico pubblicato sul Journal of Cultural Heritage) e poi ho avuto la fortuna di approfondire il discorso direttamente con Porcelli durante l’incontro che ho mediato alla Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto. Ma, vista la recente attenzione ri-scoppiata e la gentilezza del professore che mi ha inviato l’ultima pubblicazione del suo team, vale la pena far chiarezza una volta per tutte.
Fischanger F. et al., Geophysical anomalies detected by electrical resistivity tomography in the area surrounding Tutankhamun’s tomb, in JCH 36 (2019), fig. 2, p. 65
La ricerca con ERT è stata effettuata nel maggio del 2017 in un’area che comprende il piazzale di fronte gli ingressi delle tombe di Tutankhamon e di Ramesse V e Ramesse VI (KV9), la collina in cui sono state scavate le due sepolture (foto in alto) e parte del canyon che porta alla tomba di Merenptah (KV8). In un complesso mix di depositi alluvionali naturali e rimaneggiamenti antropici dovuti a secoli di scavi, sono emerse due anomalie che potrebbero avere importanti risvolti archeologici (immagine in basso). L’Anomalia 1, di circa 5 x 8 metri, si trova a una profondità di 6 metri sotto la collina, a 12 metri dal muro nord della camera funeraria di Tut. Le dimensioni e i valori di resistività portano a pensare che si tratti di un vuoto di origine umana in un’area mai interessata da scavi archeologici, vicino alla KV62 ma – importante sottolinearlo – non direttamente connesso. L’Anomalia 2, invece, è più difficile da inquadrare: ha una forma di ellisse allungata di 15 x 4 m a una profondità di 5 metri sotto il piazzale ai piedi della collina, in una zona quindi già scavata. Questi esami ovviamente non sono sufficienti a tirare conclusioni definitive, per questo la squadra è tornata a Luxor nell’autunno del 2018 per nuove prospezioni.
Chiamato a dare un’opinione definitiva dopo le discordanti campagne giapponesi e americane, il team italiano ha realizzato nel febbraio 2018 una serie di scansioni con tre tipologie di frequenza, così da poter avere un numero maggiore di dati da incrociare: basse (15-200 MHz), medie (600-900 MHz) e alte (1500-3000 MHz). Dopo la calibrazione degli strumenti su vuoti noti (Annesso e Tesoro), si è passati alle misurazioni verso le pareti nord e ovest della camera funeraria che, secondo Reeves, avrebbero nascosto l’accesso a ulteriori vani. Le autorità egiziane non hanno permesso che i georadar fossero poggiati direttamente sulle superfici dipinte, quindi sono stati posizionati a 5-10 cm dai muri. I risultati li conoscete già, ma entriamo nel dettaglio.
Sambuelli et al. 2019, Fig. 3
Le misurazioni fatte ad alte frequenze non hanno rilevato discontinuità sul piano verticale tra la roccia naturale e le ipotetiche porte tamponate in muratura. Quelle a media e bassa frequenza, invece, hanno avuto una risposta omogenea per 3 o 4 metri di profondità. Tradotto: non ci sono stanze né altri tipi di vuoti. Le uniche anomalie riscontrate sono state una frattura naturale (C nell’immagine in basso) due metri dietro la parete nord e un antico appianamento della stessa (A) che era già conosciuto dagli egittologi.
Ma allora cosa aveva visto Watanabe nel novembre del 2015? Non dovevano esserci una camera e un corridoio, con addirittura tracce di oggetti in legno e metallo? A quanto pare, i risultati della prima scansione sono stati fuorviati da “segnali fantasma”. Per prima cosa, lo spazio tra antenna e muro ha abbassato l’accuratezza di misurazione della posizione. Ma la vera causa dell’errore starebbe nelle diverse proprietà elettromagnetiche dell’intonaco dipinto rispetto a quelle della roccia calcarea. Contenente umidità e materiale organico (paglia), il supporto delle pitture è molto probabilmente in grado di condurre elettricità provocando così il fenomemo fisico della guida d’onda. Infatti, solo una parte delle onde elettromagnetiche emesse dallo scanner ha attraversato la roccia; molte altre sono scivolate lungo l’intonaco e, viste anche le ridotte dimensioni della camera funeraria (6 x 4 x 3 m), sono rimbalzate sulla parete opposta o sul grande sarcofago in quarzite portando all’antenna dello strumento un risultato ovviamente sballato.