antropologia/paleopatologia

Nuovo studio sulle mani mozzate di Avaris

Source: Österreichisches Archäologisches Institut, Kairo

Uno dei primi articoli che ho scritto, quando ancora nemmeno esisteva questo blog, riguardava una scoperta decisamente “creepy” effettuata nel 2011 nella capitale degli Hykos Avaris: mani mozzate sepolte nel cortile di un palazzo. Il ritrovamento della missione austriaca a Tell el-Dab’a, Delta nord-orientale, diretta da Manfred Bietak e Irene Forstner-Müller , era stato tanto macabro quanto importante perché andava a confermare per la prima volta una pratica fino a quel momento conosciuta solo da fonti scritte o iconografiche. Il taglio degli arti dei nemici sconfitti e la seguente offerta di questi trofei al faraone vittorioso sono infatti raccontati da papiri, autobiografie in tombe di generali e rilievi templari dal Nuovo Regno.

Ora uno studio bioarcheologico, recentemente pubblicato su Nature, fornisce nuove informazioni.

Le mani erano deposte in tre fosse scavate di fronte alla sala del trono di un palazzo realizzato durante la XV dinastia (1640-1530 a.C.) e appartenevano a un minimo di 12 o a un massimo di 18 individui. Il riconoscimento non è stato semplice perché le mani complete erano 11 e, a causa del cattivo stato di conservazione dato dall’umidità del terreno, il resto delle ossa disarticolate non erano riconducibili a un numero preciso. Per lo stesso motivo, non è stato possibile effettuare esami genetici, ma l’analisi osteologica ha portato a identificare 11 maschi adulti e una possibile donna.

Non è chiaro se il taglio sia stato effettuato prima o dopo la morte dei mal capitati perché mancano i segni dell’incisione per via della certosina asportazione delle ossa dell’avambraccio, evidentemente effettuata con un’incisione sull’articolazione radio-carpica. Delle 11 mani complete, 8 erano disposte sul palmo e 3 sul dorso, 6 con le dita allargate, 4 chiuse e 1 non determinabile.

Più che a una punizione, vista anche la posizione delle fosse, il taglio sarebbe da ricondurre a una cerimonia pubblica di origine asiatica, introdotta in Egitto dagli Hyksos e ripresa circa 50-80 anni dopo dal faraone Ahmose, il conquistatore di Avaris e unificatore del Paese, come dimostrano i rilievi nel suo tempio funerario ad Abido e le autobiografie di Ahmose figlio di Ibana e Ahmose figlio di Pennekhbet a El-Kab.

L’articolo su Nature: https://go.nature.com/3zwvjK0

Source: Österreichisches Archäologisches Institut, Kairo
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Identificato il primo caso di bendaggio medicale in una mummia

https://bit.ly/35R9Fof; C: ©SMB, Agyptisches Museum und Papyrussammlung, Foto: Sandra Steiß

Di Flavia Bonaccorsi Micoevich

Ancora importanti informazioni egittologiche grazie all’applicazione della tomografia computerizzata nell’analisi dei corpi imbalsamati. Come nel caso della mummificazione indiretta di un feto di cui si era parlato lo scorso mese, si tratta di bambini e, nuovamente, di un unicum scientifico.

Albert Zink, direttore dell’Istituto per gli studi sulle mummie di Bolzano (celebre per lo studio e la conservazione del corpo di Ötzi), è tornato ad offrirci sorprendenti risultati diagnostici per mezzo della TAC che già nel 2012 gli aveva permesso di rintracciare sul corpo di Ramesse III la mortale ferita alla gola, causa inequivocabile della sua morte.
Questa volta il suo studio si è concentrato sulle mummie di 21 bambini, ben conservate, risalenti al periodo tolemaico e al periodo romano, riscontrando la morte per setticemia causata da infezioni. In particolare, il secondo caso analizzato ha rivelato un particolare inaspettato e finora inedito: una ferita fasciata sotto gli strati di lino dell’imbalsamazione.

Il corpo in questione, trovato nel Faiyum, ad Hawara, presso la “tomba di Alina”, appartiene a una bimba con età stimata tra i due anni e mezzo e i quattro, vissuta tra il I e il II secolo d.C. L’analisi tomografica ha mostrato un rigonfiamento della parte inferiore della piccola gamba sinistra e pus essiccato nei tessuti molli in concomitanza con quella che è stata identificata come una ferita, proprio in corrispondenza con il bendaggio “anomalo” (immagine in alto). La presenza del pus si è rivelata la chiave per riconoscere l’antica medicazione: secondo lo stesso Zink, è molto probabile che una diagnosi simile non sia mai stata effettettuata prima di oggi per via dei “limiti” dei sistemi d’indagine che, in assenza di materiale purulento visibile, potrebbero aver portato i ricercatori a confondere un vero e proprio medicamento con un semplice bendaggio più spesso del solito.

L’importanza della scoperta è evidente perché fornisce un esempio di messa in pratica di quelle tecniche che, nei papiri medici, sono dettagliatamente illustrate proprio per curare lesioni cutanee infette. Inoltre, per il team di Zink è plausibile che l’infezione della ferita sia continuata anche dopo la morte della bambina e che il bendaggio sia stato applicato dagli imbalsamatori nel tentativo di preservare al meglio il corpo della piccola per l’aldilà.

Occorrerebbero ulteriori analisi per poter verificare l’eventuale presenza di unguenti, balsami o natron utilizzati per placare l’infezione, ma ciò comporterebbe la necessità di sbendare la mummia – pratica che sappiamo bene non essere più privilegiata – oppure di effettuare un prelievo di campione dalla zona interessata. Per questo, pare che il team stia ancora valutando la seconda opzione per preservare il corpo al meglio. Resta comunque un significativo passo in avanti nella comprensione della vasta pratica medica egizia, che siamo certi che ci offrirà molte altre soprese.

L’articolo originale sull’ultimo numero dell’International Journal of Paleopathology: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1879981721000942?via%3Dihub

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L’inusuale (e indiretta) mummificazione di un feto

Credits: M. Ożarek-Szilka / Affidea

Di Flavia Bonaccorsi Micoevich

Il 2021 è stato un anno molto proficuo per la ricerca egittologica con numerose e importanti scoperte. Tra le più emozionanti dobbiamo considerare quella che, ad oggi, risulta un unicum: la prima mummia di una donna incinta.

Come abbiamo già visto per l’analisi del corpo di Amenofi I, la tomografia computerizzata risulta un mezzo fondamentale di indagine diagnostica per le mummie egizie, offrendo informazioni che non ledono in alcun modo la loro integrità o quella dei loro sarcofagi, e realizzando vere e proprie autopsie virtuali. Ma tali informazioni possono sorprendentemente ribaltare situazioni date per certe e questo è proprio il particolare caso della nostra mummia.

Il sarcofago del sacerdote Hor-Djehuty – il cui nome è riportato anche nel cartonnage interno – arrivò nel Museo Nazionale di Varsavia (dove tutt’oggi si trova) nel 1917, presumibilmente dalla necropoli tebana. Ma sarà solo ben 99 anni dopo, nel 2016, che la mummia al suo interno verrà analizzata, lasciando i ricercatori assolutamente stupiti.

Lo studio successivo (i cui risultati sono stati pubblicati lo scorso aprile), svolto dal Warsaw Mummy Project e dalla Polish Academy of Sciences, non solo ha rivelato che il sesso del defunto è femminile, ma che ha anche attestato che la donna era al settimo mese di gravidanza, diventando il primo esempio di mummia incinta finora noto.

Le analisi hanno fatto emergere che la mummificazione riservatale è di alta qualità e le uniche deturpazioni che riporta il bendaggio possono essere collegate a tentativi di furto degli amuleti di cui era corredata oppure al trasferimento nel sarcofago di Hor-Djehuty (del quale corpo si sono perse le tracce). Non abbiamo, quindi, alcuna informazione identitaria della donna ad eccezione dell’età approssimativa di circa 20-30 anni, che visse durante il I sec. a.C. e che non riporta alcun segno di morte violenta.

Saranno necessarie ulteriori analisi, ma è molto probabile che il suo decesso sia stato provocato proprio dalla gravidanza che stava portando avanti, fattore non anomalo considerando il tasso di mortalità dell’epoca per insofferenza fetale o infezioni contratte dalle gestanti.

A garantire la conservazione del feto è stato il suo sviluppo raggiunto durante il primo mese del terzo trimestre e la mummificazione al natron – carbonato decaidrato di sodio – che ha alterato notevolmente il pH dell’utero della donna rendendolo molto più acido; ciò ha permesso una mineralizzazione delle piccole ossa (si vede abbastanza chiaramente il cranio di circa 25cm), l’essiccamento di parte dei tessuti (come per mani e piedi) e la produzione, tra i vari prodotti chimici, di acido formico il quale potrebbe aver svolto un ruolo importante, considerando le sue proprietà antibatteriche e di agente conservante.

Restano aperti gli interrogativi sulla decisione presa dagli addetti alla mummificazione di lasciare il futuro nascituro all’interno del corpo di sua madre. Purtroppo, i papiri medici ginecologici non forniscono informazioni dettagliate sul parto né tanto meno sugli interventi da eseguire a seguito di complicazioni. Una prima ipotesi proposta è che il feto non sia stato rimosso dalla madre per garantirgli un aldilà che, altrimenti, non avrebbe potuto avere perché non era di fatto nato né aveva ricevuto un nome.

Quello che sappiamo per certo è che in antico Egitto il feto veniva trattato con grande rispetto e considerazione, come ci testimoniamo i feti trovati nei loro sarcofagi nella tomba di Tutankhamon o ancora il commovente caso del piccolo sarcofago antropomorfo W1013 (Egypt Centre, Università del Galles) contenente un feto di soli quattro mesi deposto insieme alla sua placenta. Possiamo timidamente ipotizzare che al “nostro” feto non sia stato riservato lo stesso trattamento perché non fu mai partorito, ma solo ulteriori esami o futuri ritrovamenti potrebbero dissipare tali quesiti.

Resta indubbiamente affascinante l’importanza che veniva data alla formazione di una nuova vita durante le ere faraoniche e possiamo solo fantasticare su come la donna misteriosa dello studio polacco possa aver affrontato i mesi di gravidanza fino al momento del suo tragico epilogo.

Fonti:

https://www.academia.edu/42783213/PALEO_IMAGING_La_radiologia_tra_innovazione_tecnologica_e_archeologia

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0305440321001746?via%3Dihub#abs0010

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Un trattamento ginecologico di quasi 4000 anni

Ph. Patricia Mora Riudavets

Ultimamente la missione spagnola a Qubbet el-Hawa, Necropoli dei Nobili ad Assuan Ovest, sta facendo parlare di sé con scoperte curiose e inusuali. Dopo il deposito con 11 mummie di coccodrillo, è il turno di quello che potrebbe essere un vero e proprio primato della medicina: il più antico caso di trattamento ginecologico individuato in un contesto archeologico.

La scoperta della “paziente”, in realtà, risale al 2016 (ne ho parlato qui), quando il team di Alejandro Jiménez Serrano (Universidad de Jaén) trovò il sarcofago di Sat-tjeni, prominente nobildonna vissuta nella seconda metà della XII dinastia e già nota da fonti epigrafiche. Sat-tjeni V, infatti, era la sposa del governatore di Elefantina Heqaib II e madre di altri due nomarchi sotto il regno di Amenemhat III (1853-1809 a.C.), Heqaib III e Ameny-Seneb, nelle cui tombe è presente il nome della donna.

All’interno della bella cassa parallelepipeda dipinta in legno di cedro del Libano, il corpo della donna, morta intorno ai 30 anni, era in stato scheletrico con qualche traccia di bende e della maschera funeraria in cartonnage. I suoi resti sono stati studiati da antropologi dell’Università di Granada che hanno pubblicato i risultati delle loro ricerche sull’ultimo numero di Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde.

Tra i dati più interessanti c’è una lesione traumatica al bacino che provocava forti dolori a Sattjeni, oltre ad averne pregiudicato la possibilità di avere figli. Più che come rimedio definitivo alla frattura, sarebbe un palliativo la ciotola trovata tra le sue gambe (foto a sinistra). Il contenitore di ceramica, infatti, presenta evidenti segni di bruciature compatibili con le fumigature che avrebbero mitigato la sofferenza della donna anche nell’aldilà.

Secondo i ricercatori spagnoli, sarebbe quindi la prima traccia archeologica di una pratica già conosciuta su papiri medici in cui si consiglia l’uso del fumo per favorire la fertilità e risolvere problemi ginecologici. Nel coevo Papiro di Kahun, ad esempio, si prescrive di esporre la “parte in questione” al fumo della carne arrostita o di un mix di incenso, grasso, birra dolce e datteri (pubblicato in Griffith F. Ll., The Petrie Papyri: hieratic papyri from Kahun and Gurob ; principally of the Middle Kingdom I: Text, London 1897, pp. 6 e 9). Il papiro, scoperto a Kahun da Petrie nel 1889, contiene una serie di rimedi risalenti al 1800 a.C. circa per problemi femminili e riguardanti fertilità, maternità e contraccezione.

http://www.ujaen.es/investiga/qubbetelhawa/index.php

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Scoperta la causa di morte della Mummia Urlante

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Source: Dr. Zahi Hawass Facebook

Tra le olre 50 mummie scoperte nel 1881 nella cachette reale di Deir el-Bahari (DB320), due in particolare colpiscono per le loro fattezze raccapriccianti. In entrambi i casi, i volti sono deformati da un urlo reso eterno dal processo d’imbalsamazione. Ma se per l’individuo maschile, il cosiddetto “Sconosciuto E”, sono già stati fatti esami ed è stata proposta una teoria che lo identificherebbe come Pentaur, figlio di Ramesse III coinvolto nella famosa “congiura dell’harem”, della “Sconosciuta A” fino ad ora si conosceva ben poco.

A differenza del presunto Pentaur, la donna ha beneficiato di una buona mummificazione, con bende di lino puro su cui sono scritti in ieratico il titolo di figlia e sorella reale e il nome Meritamon che, però, appartenendo a più principesse, non ne permette il riconoscimento sicuro.

Così, nell’ambito del progetto di studio delle mummie del Museo Egizio del Cairo, il celebre Zahi Hawass e Sahar Saleem, professore di Radiologia presso la Cairo University, hanno analizzato la “Mummia urlante” tramite radiografie e TAC, ricavando nuovi dati interessanti. Intanto l’età della morte è collocata tra i 50 e i 60 anni; poi è stato evidenziato il metodo di mummificazione che è consistito nell’eviscerazione, la sostituzione degli organi interni con impacchi, resine e spezie profumate e la mancata asportazione del cervello, ancora presente essicato sul lato destro del cranio. Quest’ultima pratica si adatterebbe di più, secondo Hawass, alla Meritamon figlia di Seqenenra Ta’o, faraone della fine della XVII dinastia. La prof.ssa Marilina Betrò (Università di Pisa), grazie allo studio incrociato di documenti editi ed inediti, già nel 2007 ipotizzava che la mummia appartenesse alla regina Ahmes-Meritamon, figlia di Ta’o e sorella e moglie di Kamose e che la tomba DB 358, dove è stata sepolta l’omonima moglie di Amenofi I, fosse in origine destinata a lei.

Ma il risultato più importante riguarda la causa di morte e il conseguente motivo dell’urlo. La donna è forse deceduta sul colpo a causa di un infarto; è stata infatti rilevata una grave forma di aterosclerosi con l’avanzata calcificazione delle pareti delle arterie coronarie destra e sinistra, iliache, del collo, degli arti inferiori e dell’aorta addominale. La mummificazione sarebbe iniziata quando il corpo era ancora contratto per il rigor mortis. Per questo la donna ha le gambe accavallate e leggermente flesse, la testa reclinata verso destra e la mandibola abbassata.

Tuttavia, i risultati dello studio sono stati messi in dubbio da altri ricercatori: https://gizmodo.com/how-did-this-screaming-mummy-really-die-1844454580

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Analizzati gli scheletri del sarcofago nero di Alessandria: non solo acqua di fogna ma anche oro

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Source: MoA

Ricorderete sicuramente il clamore (immotivato) provocato dalla scoperta e dalla relativa apertura di un sarcofago in granito nero ad Alessandria. Chi si aspettava il corpo di Alessandro Magno o un’improbabile maledizione si era dovuto ‘accontentare’ di tre scheletri immersi in moderni liquami.

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Source: MoA

Oggi sono stati finalmente annunciati i risultati dell’esame preliminare sui resti ossei, effettuato dal team di Zeinab Hashish, direttore del dipartimento di Antropologia Fisica del Ministero delle Antichità. Analizzando crani, bacini e ossa lunghe, si è arrivati al genere e all’età dei tre individui deposti, probabilmente in due fasi distinte, nel sarcofago: la prima (foto a sinistra) era una donna morta intorno ai 20-25 anni e alta 1,60-1,64 m; il secondo (foto al centro) un uomo di 35-39 anni, alto 1,60-1,66 m; il terzo (foto a destra) un uomo di 40-44 anni, alto 1,79-1,85 m. In particolare, il più anziano dei tre presenta sulla parte destra del cranio un foro dai bordi arrotondati che indicano che l’uomo è sopravvissuto a lungo alla lesione in gran parte rimarginata. Non il buco di una freccia, come un po’ frettolosamente gli archeologi egiziani avevano dichiarato al sollevamento del pesante coperchio, ma forse le tracce di una trapanazione, pratica chirurgica nota fin dalla preistoria ma piuttosto rara in Egitto.

Inoltre, ripulendo l’interno della bara dal misto di acqua di fogna e resti organici putrefatti, sono spuntate alcune decorazioni in foglia d’oro di circa 5×3 cm (foto in basso).  Per il resto, nei prossimi giorni si procederà a ulteriori test sul liquido rossastro raccolto e a TAC, datazione al Carbonio 14 e analisi del DNA sulle ossa.

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Source: MoA

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Analisi su una mummia di Torino rivelano che l’imbalsamazione era praticata già 5600 anni fa

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Foto: torino.repubblica.it

Quando visitate il Museo Egizio di Torino, dopo esser saliti al secondo piano, la prima cosa che incontrate è la mummia ritratta in foto (non quella sulla sinistra che è il sottoscritto). Si tratta del corpo di un uomo, morto 5600 anni fa durante il periodo Naqada I, portato da Gebelein nella città sabauda da Schiaparelli nel 1901. In questo caso, così come per le altre mummie predinastiche (ad esempio “Ginger” del British Museum), di solito si parla di mummificazione naturale: il cadavere, infatti, si sarebbe mantenuto casualmente grazie al clima arido del deserto e all’effetto della sabbia a diretto contatto con i tessuti molli.

Questo almeno è ciò che si pensava finora perché recenti esami, effettuati proprio sul ‘paziente’ di Torino, confermerebbero il sospetto che processi intenzionali d’imbalsamazione fossero utilizzati in Egitto già 1000 anni prima della data tradizionalmente accettata (IV dinastia, 2600 a.C. circa). Ad effettuare lo studio sono stati Stephen Buckley, chimico della University of York, Jana Jones, egittologa della Macquarie University di Sidney, e altri esperti da Oxford, Warwick, Marsiglia, Tübingen, Trento, Pisa e Torino. Gli stessi ricercatori avevano avanzato un’ipotesi simile nel 2014, lavorando su campioni prelevati da resti umani del Bolton Museum provenienti da Mostagedda, ma questa volta hanno potuto effettuare il check-up completo di una mummia perfettamente conservata.

Il Carbonio-14 ha fornito una datazione collocabile tra il 3700 e il 3500 a.C., mentre l’osservazione al microscopio elettronico e diverse analisi chimico-fisiche hanno rilevato un composto speciale che impregnava il lino in cui era avvolto il corpo. In particolare, grazie alla gascromotografia-spettrometria di massa, è stato possibile risalire alla ricetta scelta per proteggere il morto dalla decomposizione:

  • olio vegetale, probabilmente di sesamo;
  • estratti di piante aromatiche (es. balsamo di radice di giunchi);
  • gomma naturale, forse dagli alberi di acacia;
  • resina di conifere.

La resina, forse di pino, oltre ad avere chiare proprietà antibatteriche, testimonia così antichissimi scambi commerciali con il Levante, l’area di approvvigionamento più vicina per quel materiale. Ovviamente siamo lontani dal processo completo d’imbalsamazione che prevedeva l’asportazione degli organi interni e l’essiccazione del corpo nel natron, ma gli ingredienti riscontrati e il loro dosaggio risultano molto simili a ciò che si vedrà solo 2500 anni dopo.

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Ringrazio molto Federica Ugliano, egittologa Post-Doc dell’Università di Pisa e tra gli autori della pubblicazione, per le informazioni fornite:

Jones J. et al., A prehistoric Egyptian mummy: evidence for an ‘embalming recipe’ and the evolution of early formative funerary treatments, in Journal of Archaeological Science 2018

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Sorpresa a Sidney: una mummia nel sarcofago che doveva essere vuoto

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Source: Nicholson Museum

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Source: Nicholson Museum

Sarà la vicinanza con la Pasqua, ma in questi giorni i giornali di tutto il mondo stanno rilanciando notizie su ‘sorprese scartate’ in varie collezioni egizie. In particolare, dall’Australia ne arriva una veramente inaspettata. Gli studiosi della University of Sidney, infatti, di certo non pensavano di trovare qualcosa in uno dei sarcofagi egizi conservati nei magazzini del Nicholson Museum. Dopo oltre 150 anni, in occasione dell’allestimento del nuovo museo universitario, la cassa antropoide è stata studiata per la prima volta e il team diretto da Jamie Fraser si è accorto che non era vuota come preventivato: al suo interno, terra e resti umani fortemente disturbati (immagine in alto), forse per l’intervento di un ladro in cerca di amuleti.

I frammenti di mummia appartengono con tutta probabilità a Mer-Neith-it-es, sacerdotessa di Sekhmet durante la XXVI din. (664-525 a.C.) il cui nome compare sul coperchio del sarcofago (foto a sinistra). Lo scavo microstratigrafico del contenuto al momento ha portato solo all’individuazione dei piedi della defunta, ma la TAC ha fornito molte informazioni in più (immagine in basso). Infatti, John Magnussen, radiologo della Macquarie University che ha scansionato il reperto, ha affermato che le ossa indicano un individuo di oltre 30 anni e che è visibile anche il riempimento della calotta cranica con della resina a sostituzione del cervello estratto.

http://sydney.edu.au/museums/publications/muse/Muse-March2018.pdf

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Source: Macquarie University

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I più antichi tatuaggi figurativi su una mummia egizia

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Source: British Museum

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Source: British Museum

Ginger è il primo individuo tatuato al mondo. O meglio, è colui che ha sulla pelle i più antichi segni figurativi finora individuati. Il vero primato, infatti, spetta per poco al nostro Ötzi (3370-3100 a.C.) che però ha solo punti, linee e crocette. La scoperta è stata recentemente pubblicata sul Journal of Archaeological Science, dopo che la mummia del cosiddetto Uomo A di Gebelein (detto appunto Ginger per il colore rossastro dei capelli) è stata sottoposta a nuovi esami.

Il corpo appartiene a ragazzo che morì, tra i 18 e i 21 anni, a causa di una pugnalata alla schiena, nel periodo Naqada II (tra il 3351 e il 3017 a.C.). Il cadavere si mummificò naturalmente per il contatto diretto con la sabbia quando fu sepolto in posizione fetale, semplicemente avvolto in un lenzuolo e stuoie, nella località a 30 km a sud di Luxor. La mummia è esposta dal 1900 nel British Museum (EA32751), ma solo ora, grazie agli infrarossi, si è capito che quella macchia scura indistinta sul braccio destro corrisponde, in realtà, a due animali cornuti: un uro (un grande toro selvatico ormai estinto: Bos taurus primigenius) e una capra berbera (Ammotragus lervia). Senza addentrarmi in difficili valutazioni di tipo ideologico, entrambi gli animali sono tipici dell’arte predinastica. Il pigmento, probabilmente fuliggine, è stato inserito in profondità nel derma con un ago.

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Source: British Museum

Praticamente coeva di Ginger è la mummia della Donna di Gebelein su cui sono stati ritrovati altri tatuaggi, ma di più difficile interpretazione. Sulla spalla sinistra, infatti, ci sono 4 simboli a forma di “S” (foto in alto), mentre, sul braccio destro, un motivo lineare (foto in basso), forse un bastone o comunque un oggetto rituale, che si riscontra sulle ceramiche dell’epoca.

http://www.britishmuseum.org/pdf/Earliesttattoos.pdf

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Source: British Museum

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Cold Case: Ramesse III è stato sgozzato (e forse abbiamo il colpevole)

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L’esposizione temporanea al Museo Egizio del Cairo di alcuni reperti, di solito chiusi nei depositi, ha riacceso i riflettori su una mummia particolare che, per aspetto e tecniche d’imbalsamazione, si distingue da tutte le altre: l’“Unknown Man E”, soprannominato la “Mummia urlante”. Questo misterioso individuo è legato a un controverso caso di cronaca nera, riaperto dopo 3000 anni e forse risolto. Per questo, ripropongo un vecchio articolo scritto nel 2012 per l’Archoblog di VOLO, in cui parlo della vicenda del cosiddetto “complotto dell’harem” e del tentativo, a quanto pare riuscito, di uccisione del faraone Ramesse III (1186-1154 a.C.).

I fatti erano già noti grazie al “Papiro giuridico di Torino” (qui la scheda del Museo Egizio), nel quale si racconta del tentativo di congiura ordito da una delle spose di Ramesse III, Tiye, coadiuvata da numerosi altri membri della corte. Il piano consisteva nel colpire il re proprio nell’harem, per poi sostituire il legittimo erede al trono, Ramessu-Hekamaat-Meriamun (il futuro Ramesse IV), con il figlio di Tiye Pentaur. Il complotto venne scoperto e i colpevoli puniti con la pena capitale, ma un particolare ha sempre destato sospetti: il faraone, durante la descrizione del processo, è definito “Dio Grande” (nTr aA), epiteto di solito riservato ai faraoni divinizzati dopo la morte. Che quindi sia stato ucciso durante il tentativo di golpe?

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Ora, uno studio pubblicato sul British Medical Journal sembra dirimere ogni dubbio. Un’equipe di ricercatori, composta da Albert Zink, paleopatologo dell’EURAC di Bolzano (centro che ha studiato il nostro Ötzi), Carsten Push, esperto di genetica molecolare dell’Università di Tubinga, e Zahi Hawass (in questo caso non servono presentazioni), sembra aver individuato la causa della morte di Ramesse III. Grazie alle immagini della TAC, si è visto che, sotto le bende, si trova un profondo taglio alla gola che, recidendo trachea, esofago e ogni vaso sanguigno fino alle vertebre, ha causato il decesso istantaneo. Successivamente, durante la mummificazione, è stato inserito nella ferita un amuleto a forma di udjat (indicato dalla freccia nella foto) per permetterne la rimarginazione nell’Aldilà.

Altre informazioni sono arrivate dalle analisi del DNA che hanno collegato Ramesse III al misterioso “Unknown Man E”, la cui mummia (foto a sinistra) fu scoperta da Maspero nella caschette di Deir el-Bahari nel 1881. Questa mummia era stata imbalsamata con un procedimento rudimentale e, contro ogni tradizione, avvolta solo da pelle di capra. Sembra quindi che il ragazzo, morto intorno ai 18-20 anni, abbia ricevuto un trattamento volutamente inefficace e impuro che comprendeva la semplice disidratazione nel natron e il versamento di resina nella bocca aperta; inoltre, mani e piedi erano legati con lacci di cuoio. Il torace gonfio e la pelle del collo compressa farebbero pensare a un’impiccagione o comunque allo strangolamento, possibile punizione per aver partecipato al complotto. Già da tempo si pensava che la mummia appartenesse a Pentaur e la codifica del genoma ha confermato la parentela con il faraone, ma per la certezza matematica servirebbe il corpo della madre Tiye che, però, non è mai stato ritrovato.

http://www.bmj.com/content/345/bmj.e8268

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