bufale eGGizie

Bufale eGGizie*: la tomba farlocca di Beni Suef

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

Questa mattina, su alcuni giornali online egiziani e sui social di Mostafa Waziry (nel video in basso), segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità, è girata la notizia della scoperta di una tomba risalente… al massimo a un anno fa! Già dalle prime foto pubblicate, infatti, all’occhio di chi sia un minimo avvezzo all’arte egizia emerge subito che la sepoltura individuata a Beni Suef, località a 115 km a sud del Cairo, sia una palese copia, e pure fatta male. Le autorità locali hanno giustamente dichiarato che si tratta di una riproduzione moderna, realizzata qualche mese fa con lo scopo di ingannare ingenui turisti e ancora più sprovveduti collezionisti di reperti archeologici.

Nella stanza sotterranea si ammira il trionfo del gesso placcato, tra finti lingotti d’oro, statuette di divinità e faraoni più o meno ispirate a opere realmente esistenti (s’intravedono il Ramesse II di Torino, la Tauret da Karnak, l’Amenirdis in alabastro, modellini di Medio Regno), un sarcofago da B-movie anni ’70 e tutta una serie di cianfrusaglie da suq che, ahimè, infestano anche la mia libreria. Alle pareti, invece, su pannelli di compensato, ci sono pitture ancor meno riuscite che scimmiottano scene da papiri e pareti di tombe (menzione d’onore per chi ha voluto mettere insieme i cartigli di Tutankhamon e Ramesse III; immagine in basso a sinistra).

In ogni caso, tutti gli oggetti del “corredo” sono stati distrutti ed è in corso un’indagine per risalire agli autori. Non è comunque la prima volta che si verifica una cosa del genere. Ricorderete infatti un video che circolava qualche anno fa su FaceBook e che mostrava un’altra tomba egizia traboccante di oggetti d’oro, fake ovviamente (ne avevo parlato qui).

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Bufale eGGizie*: il faraone Menes fu ucciso dalla puntura di una vespa

Source: raiplay.it

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

Ieri sera, durante la puntata dellEredità, quiz televisivo in onda su Rai 1, è stata fatta una curiosa domanda riguardante l’antico Egitto: “A lungo si è creduto che, circa 5000 anni fa, il faraone Menes fosse morto per una reazione allergica a cosa?”. La risposta esatta, data solo al terzo tentativo, è stata “puntura di vespa”.

Se fosse stato vero, sarebbe il primo esempio documentato nella storia di shock anafilattico. Tuttavia, il conduttore Flavio Insinna ha giustamente specificato che oggi tale teoria è stata rigettata. Ma da dove nasce?

Intanto occorre presentare brevissimamente la figura di Menes. Menes o Meni è un faraone del protodinastico, identificato dalla maggior parte degli studiosi con il Narmer della celebre paletta conservata al Cairo. Sarebbe quindi, seppur con qualche dubbio, il primo re della I Dinastia e, per tradizione, l’unificatore dell’Alto e Basso Egitto intorno al 3000 a.C. Per alcuni egittologi anche il re Aḥa sarebbe da far coincidere con Menes/Narmer, rendendo quindi evidente come siano poche le certezze per una fase così primordiale della formazione dello stato egiziano.

Eppure qualcuno, ormai quasi un secolo fa, era molto più sicuro. Il tenente colonnello Laurence Austine Waddell (1854–1938) fu un chirurgo ed esploratore scozzese che studiò da autodidatta sumero, sanscrito e tibetano e che, occupandosi anche di archeologia senza averne i titoli, è considerabile un precursore della fantarcheologia. Le sue pubblicazioni, infatti, sono sicuramente figlie del loro tempo, essendo pregne di diffusionismo, imperialismo e razzismo verso le culture orientali. Ma si spingono ben oltre, verso un pan-sumerismo che vedeva la civiltà sumera, definita Ariana, come origine della egizia e di quella della Valle dell’Indo, e poi ancora di quelle classiche e perfino dell’antica Britannia. In quest’ottica, Menes sarebbe stato il figlio del primo sovrano sumero, Sargon il Grande, e, dopo aver viaggiato in India, si sarebbe recato in Egitto per fondare la civiltà nilotica. Per arrivare a questa conclusione Waddell si basò, come era di consuetudine tra XIX secolo e inizi del Novecento, su casuali somiglianze onomastiche.

Waddell, “Egyptian Civilization”, p. 8

Se già così la faccenda sembra piuttosto ridicola, nel volume del 1930 Egyptian Civilization: its Sumerian Origin and Real Chronology, and Sumerian Origin of Egyptian Hieroglyphs, l’autore parlò della morte di Menes… che sarebbe avvenuta in Irlanda a causa della puntura di un insetto! Ecco infatti come traduce il testo in quello che definisce “geroglifico transizionale egiziano-sumero” su due etichette in legno scoperte da Flinders Petrie nella supposta Tomba di Narmer (B19) a Umm el-Qa’ab, necropoli di Abido:

“Il re Manash (o Minash), Paraone di Mushsir (Egitto), La Terra delle Due Corone, Colui che è morto ad Ovest della gente del Falco (-del Sole), Aha Manash (o Minash) delle Acque Basse (o del Levante o Orientali) e del Ponente (o Alte o Occidentali) e delle loro Terre e Oceani, il Sovrano, il Re delle Terre di Mushrim (le due Terre d’Egitto), figlio del grande Sha-Gana (o Sha-Gunu) della gente del Falco (-del Sole), il Faraone, il defunto, il Comandante in capo delle Navi. Il Comandante in capo delle Navi (Minash) ha compiuto un viaggio completo verso la Fine delle Terre di Ponente, andando in nave. Egli ha completato l’ispezione delle Terre Occidentali. Egli stabilì (lì) una proprietà (o possedimento) nelle Terre di Urani. Nel Lago della Cima, il fato prese (lui) a causa di un calabrone (o una vespa), il Re delle Due Corone, Manshu. Questa tavoletta incisa su legno appeso è dedicata (alla sua memoria)”.

Quindi Menes, dopo aver unito le Due Terre, avrebbe cominciato a rivolgersi verso Ovest, attraversando le Colonne d’Ercole e raggiungendo la lontana Urani/Irlanda. Tuttavia, questo remoto paese sarebbe diventato la sua ultima tappa a causa di vespe che Waddell era convinto di vedere nella documentazione di Petrie (The royal tombs of the first dynasty – Part II, London 1901, III A.5-6):

La fatale vespa (Waddell, “Egyptian Civilization”, p. 64)

Queste etichette erano piccole placche rettangolari o quadrate in avorio, osso, legno o pietra che, grazie a un foro, venivano legate a oggetti come vasi, vestiti o effetti personali a scopo amministrativo, per indicare cioè tipologia, quantità e provenienze della merce. Le prime sono state trovate sempre nel cimitero di Umm el-Qa’ab, in particolare nella tomba U-j del Re Scorpione, e rappresentano i più antichi documenti iscritti in proto-geroglifico (3320-3150 a.C.). Se all’inizio racavano solo uno o comunque pochi segni, con la I Dinastia le etichette crebbero di dimensione e acquisirono funzioni astratte. Le scene, infatti, potrebbero essere la narrazione di eventi, feste o rituali significativi verificatisi durante il regno del faraone, corrispondendo quindi a una dichiarazione del suo controllo ideologico e politico sul Paese.

Nello specifico, con Aḥa si assiste a una suddivisione in tre o quattro registri e alla presenza di iconografie che si ripetono, con l’indicazione del prodotto registrato nell’ultima riga. Proprio a questo gruppo appartengono gli oggetti (mal)interpretati da Waddell che, fra l’altro, aggiunge qualche ala, zampa e pungiglione di troppo nei suoi rilievi per far quadrare la teoria. Le due etichette in legno, conservate presso il British Museum e il Penn Museum, sono incise sostanzialmente con gli stessi simboli che includono il serekh con il nome di Aḥa, un santuario (forse il Tempio di Neith a Sais), un altro edificio religioso, una fila di barche e toponimi. Infine, in basso si trova la tipologia di olio a cui l’etichetta si riferiva (sṯỉ-Ḥr), insieme alla sua quantità. Quindi, i grassi bombi disegnati da Waddell altro non sono che numerali, forse 300 nel primo caso e 100 nel secondo, corredati di tratti inventati.

Etichetta in legno, EA35518 – © The Trustees of the British Museum

Quindi come morì Menes? Non si sa. La pur mitica ricostruzione di Manetone, secondo cui il faraone sarebbe stato ucciso da un ippopotamo, appare comunque più plausibile di uno shock anafilattico a 4500 km da casa.

Per approfondire:

  • Jiménez Serrano A., Royal Festivals in the Late Predynastic Period and the First Dynasty, Oxford 2002.
  • Mawdsley L., “Two labels of Aha: Evidence of a pre-mortuary administrative function for First Dynasty potmarks?”, in Cahiers Caribeens d’Egyptologie 15 (2011), 51-68.
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Bufale eGGizie*: esperimenti sulla ghiandola pituitaria nell’antico Egitto

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

Ormai non ci si può stupire più di niente. Se le fake news dilagano tra giornali e tv, rendendo spesso difficile valutare l’attendibilità di alcune notizie, assurdità diffuse in internet, che una volta avrebbero strappato solo una risata, trovano oggi dignità in strette cerchie di persone che, tuttavia, si allargano sempre di più. Esemplari sono le varie teorie cospirazionistiche basate su idiozie come terra piatta, rettiliani, Nuovo Ordine Mondiale, scie chimiche, 5G. Succede quindi che un divinità egizia in forma di rana diventi simbolo dell’alt-right (ne ho parlato qui) o che una scherzosa reinterpretazione di una pittura di Nuovo Regno venga presa sul serio.

L’immagine di un egizio che sembra infilare un bastoncino nell’occhio di un altro uomo in realtà gira già da parecchio come meme, in relazione a improbabili tamponi covid che sarebbero stati usati anche nell’antichità. Ma come sempre accade, seppur sia palesemente una trovata goliardica fondata sulla somiglianza di gesti che tra loro c’entrano poco, qualcuno ha creduto nella sua veridicità.

Ultimamente però c’è stata un’evoluzione. Cospirazionisti no-vax hanno addotto il meme a prova “inconfutabile” di fantomatici esperimenti bioingegneristici compiuti ai danni della popolazione inconsapevole. I tamponi infilati nel naso e nella gola per verificare la presenza del coronavirus, infatti, sarebbero invece un tentativo di ripetere una millenaria tecnica di tortura in voga tra gli Egizi. Andando così a danneggiare la ghiandola pituitaria, o ipofisi, si intaccherebbe la corretta produzione di diversi ormoni con un conseguente stato di infertilità, crescità rallentata, affaticamento, vertigini, nausea a vita.

Ovviamente non sono qui per spiegare quanto tutto ciò sia scientificamente assurdo (chiedete a un medico), ma vorrei fare una riflessione prima di andare ad analizzare nello specifico la scena. Che senso ha depotenziare uno schiavo, cioè una tua “proprietà” che dovrebbe invece lavorare al meglio per te? Tanto varrebbe eliminarlo definitivamente a questo punto. Insomma, una punizione più masochista che sadica.

Il disegno in cui l’aguzzino tormenterebbe il naso del povero schiavo (per la questione schiavi vi rimando a un vecchio articolo) è una copia moderna su papiro di una scena dipinta sulla parete nord della camera funeraria della tomba di Ipuy (TT217), scultore di Deir el-Medina vissuto durante il regno di Ramesse II (1279-1212 a.C.).
Nel registro inferiore del muro, sono rappresentati alcuni carpentieri che costruiscono un naos e un catafalco per il tempio funerario di Amenofi I.
Purtroppo l’intonaco è danneggiato proprio nella parte che c’interessa (immagini in basso), ma è comunque visibile uno degli artigiani che si sta occupando del catafalco voltarsi verso un altro uomo, forse un medico, che lo trucca con un bastoncino. Il kohl, infatti, oltre ad essere un cosmetico, serviva a prevenire le infezioni dell’occhio. In alto si vede proprio il tipico doppio tubetto per il kohl, insieme a una cassetta che forse conteneva le materie prime in polvere.

Quindi niente a che vedere con torture, ipofisi o esperimenti bioingegneristici.

L’attuale stato delle pitture (https://bit.ly/2Koe07H) e la ricostruzione della scena di Norman de Garis Davies (“Two Ramesside tombs at Thebes”, New York 1927, pp 66-70, pll. XXXVII-XXXVIII).

[Ringrazio Melissa e Matteo per avermi segnalato il post]

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Elon Musk, piramidi, alieni e il declino del giornalismo

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Venerdì scorso, l’istrionico miliardario Elon Musk ha pubblicato uno dei suoi – almeno in apparenza – sconclusionati tweet in cui afferma che le piramidi sarebbero state costruite degli alieni. Subito dopo ha aggiunto un altro messaggio che fa riferimento a Ramesse II; forse meno eclatante, ma ci servirà comunque più tardi per parlare di giornalismo e comprensione del testo:

A prima vista, soprattutto conoscendo il personaggio e le sue provocazioni, il tweet sembrerebbe una trollata, probabilmente pensata per creare scalpore (obiettivo più che centrato) e conseguente attenzione mediatica sull’ultima impresa della SpaceX, l’azienda aerospaziale di Musk.

A distanza di ore però, forse spinto dalle migliaia di reazioni di protesta, il geniale imprenditore ha aggiunto due ulteriori tweet in cui ha linkato la pagina wikipedia dedicata alla Piramide di Cheope e un articolo della BBC in cui l’egittologa Joyce Tyldesley racconta come sono state effettivamente costruite le piramidi. Tra le risposte critiche spicca soprattutto la presa di posizione ufficiale dell’Egitto che, tramite il famoso archeologo Zahi Hawass e l’ex ministra del Turismo (oggi della Cooperazione Internazionale) Rania al-Mashat, ha bollato le parole di Musk come una “totale allucinazione” e lo ha invitato a vedere di persona le evidenze archeologiche.

Come detto, non è la prima volta che Musk ‘cinguetta’ le sue controverse opinioni: nei mesi scorsi si era schierato con Trump minimizzando la pericolosità del Covid-19 e ritenendo fascisti i provvedimenti di lock-down; a maggio, invece, aveva fatto infuriare gli azionisti della sua stessa azienda, la Tesla, dichiarando che le azioni valessero troppo; senza contare poi la scelta del nome X Æ A X-II per il figlio.

E ogni volta la stampa ne approfitta per pubblicare articoli dal contenuto piuttosto scarno ma dal facile guadagno di click. Niente di nuovo: tra giornalismo tradizionale su carta stampata e quello online passa un abisso e anche i siti di testate serie sono costretti a rincorrere il pubblico proponendo pezzi di gossip e video di gattini rubati da YouTube. Questo tipo di comunicazione, tra clickbaiting e mancanza di tempo (e voglia) per verificare e approfondire le notizie, crea spesso disinformazione e veicola dannose fake news. Ovviamente, visti gli attuali 550 mila like, 88 mila condivisioni e quasi 27 mila commenti, tutti i quotidiani italiani hanno ripreso il tweet di Musk, ma in un caso particolare, come vedremo, è stato oltrepassato ogni limite di decenza.

 

Prima, però, vorrei tornare sul secondo tweet e soffermarmi sul corretto uso del virgolettato. Il messaggio, che in realtà non è chiarissimo, è stato tradotto dal Fatto Quotidiano, la Repubblica, il Messaggero, il Mattino, il Giornale e Sky TG24 “Ramesse II era un alieno”. L’ipotesi è legittima, vista la rapida successione con il primo tweet; il problema è che quasi tutti i giornali appena citati l’hanno segnalata come citazione. Pur ammesso che Musk intedesse proprio quello e non volesse scrivere la solita frase randomica, è comunque sbagliato riportare tra virgolette la traduzione di un testo che non esiste. Il messaggio originale infatti recita “Ramses II was 😎” e sì, è sicuramente interpretabile come “Ramesse II (lo) era, (un alieno)”, ma alcune testate straniere, come il Daily Star e lo Spiegel, considerano semplicente l’effettivo significato dell’emoji con gli occhiali da sole: “Ramses era cool/figo”.

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Se questi ed altri giornali si sono giustamente limitati a riportare i fatti (e, un po’ meno correttamente, a copiarsi a vicenda nel chiamare Hawass “Zari”), la Stampa è andata oltre. Tralasciando il refuso nel titolo e che SpaceX non sia l’astronave ma l’azienda che l’ha sviluppata, l’articolo, a firma di Vittorio Sabadin, è un insieme di tesi cospirazionistiche, ipotesi fantarcheologiche e offese alla categoria degli egittologi. Un pezzo che non si può nemmeno definire clickbait perché le parti più estreme sono nel corpo del testo, fra l’altro consultabile dai soli abbonati.

Il giornalista va in difesa di Elon Musk prendendolo sul serio perché “ci sono ottime ragioni di pensare che una civiltà superiore abbia costruito le piramidi”. Le ragioni consistono nella solita sfiducia nelle capacità umane e nella mancanza di contestualizzazione dei dati storici. Secondo Sabadin, l’Egittologia non saprebbe rispondere a diverse domande: Com’è possibile che le piramidi siano state costruite senza mezzi adeguati? Per quale motivo? Perché quelle di Giza sono più grandi delle successive? Perché non sono stati trovati corpi al loro interno? Perché non sono iscritte? Perché i geroglifici, come le altre conoscenze scientifiche, sono apparsi all’improvviso? Se solo si fosse documentato su pubblicazioni del settore oltre che su blog di ufologia e su datati best seller di fantarcheologia (i cui autori sono stati costretti più volte a ritrattare le loro tesi di fronte a dati inconfutabili), Sabadin avrebbe letto di tutti quei lunghi processi evolutivi che hanno portato ai tratti caratteristici della civiltà egizia. Avrebbe saputo che i geroglifici non sono spuntati dal nulla, ma sono nati, come altre forme di scrittura, per questioni di controllo amministrativo: lo testimoniano le etichette con proto-geroglifici della tomba U-j di Umm el-Qa’ab (3320-3150 a.C.). Avrebbe visto i tanti tentativi che, da Djoser fino a Snefru, hanno permesso di arrivare alla forma classica piramidale ancor prima di Cheope. Avrebbe scoperto i motivi economici e ideologici che spiegano le minori dimensioni delle piramidi di V e VI dinastia. Sarebbe venuto a conoscenza delle evidenze archeologiche che illustrano come erano spostati i pesanti blocchi all’epoca. E così via. Poi, delle prove schiaccianti che legano Cheope alla Grande Piramide ho già parlato e non vorrei ripetermi per l’ennesima volta.

In realtà, tesi sugli antichi astronauti ci sono sempre state, anche se non mi sarei mai aspettato di trovarle riportate così acriticamente su un quotidiano di questo livello (e siamo troppo lontani dal 1 Aprile). D’altronde, già nel 1935 l’ufficiale britannico Noel Wheeler coniava la parola “pyramidiot” per definire i ciechi seguaci di certe ipotesi alternative. Proprio perché abituato, non mi sarei arrabbiato così tanto se il giornalista non avesse buttato fango sul nostro lavoro, rappresentando gli egittologi da un lato come una loggia massonica che tiene per sé chissà quale verità, dall’altro come pavidi bugiardi attaccati al posto di lavoro: “In pubblico ogni egittologo che tiene alla sua carriera non ha dubbi sul fatto che le tre piramidi di Giza siano state costruite da Cheope, Chefren e Micerino intorno al 2.500 a.C.. In privato molti cominciano ad ammettere che quella egizia è forse stata una civiltà «imitativa», che ha copiato da altri cose che non sapeva fare.”

Gli egittologi non hanno un editore che detta loro la linea da tenere. Studiano, raccolgono e analizzano dati, formulano ipotesi e le pubblicano, venendo poi valutati per i risultati raggiunti e per il metodo adottato. Sabadin è liberissimo di esprimere la sua opionione, anche se non supportata da prove, di ritenere più logico che “le tre piramidi di Giza siano state costruite da una civiltà superiore in un’epoca molto più antica”; ma, invece di mettere in dubbio la professionalità di seri studiosi sulla base di baggianate, forse farebbe bene a parlare con qualcuno di loro. Ne trova un bel po’ a soli 2,5 km dalla sede del giornale in cui lavora.

 

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Bufale eGGizie*: la misteriosa tomba piena di oggetti d’oro

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(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

 

Con gli anni ho imparato a non dare tutto per scontato. Molti concetti che ritengo ovvi, per molti altri possono non essere così semplici. Non è solo una questione di cultura generale o di conoscenza dello specifico argomento (in questo caso, l’egittologia), ma anche di processi mentali e collegamenti che magari funzionano solo nella mia testa. Nonostante ciò, però, non ho mai voluto eccedere in semplificazioni e spiegazioni perché mi piacerebbe che i miei lettori approfondissero ciò che trovano sul blog altrove o chiedendomi informazioni con domande dirette. Ed è per questo che, ad esempio, non sto a scrivere in ogni articolo – e non lo farò nemmeno ora – cosa sia un ushabti.

08c20101-0285-4e8f-a421-9d28ca671b2aTuttavia, per l’ennesima volta mi è stato inviato un video che circola ormai da anni sui social, ma che ho sempre ignorato bollandolo come una palese buffonata. Nel filmato si vede quella che dovrebbe essere una tomba egizia stracolma di oggetti d’oro, la cui ricchezza farebbe impallidire perfino il corredo di Tutankhamon… se fossero veri. Si tratta infatti di un mucchio di paccottiglia mal assortita da suq, di souvenir per turisti che riproducono, più o meno bene, reperti realmente esistenti o addirittura pacchiane reinterpretazioni inventate. Come detto, però, ciò che per me è un palese fake per molti è la testimonianza di un’eccezionale scoperta, quindi vale la pena occuparsene.

Che poi, a guardar bene, ci sono diverse versioni del documento con gli oggetti disposti in due modi. Ad esempio, le due grandi statue che nel primo video sono in piedi al centro della camera funeraria, nel secondo sono a terra parzialmente coperte dalla sabbia; il sarcofago di destra, invece, è avvolto da un telo solo in un caso .

Video 1:

Video 2:

La più vecchia variante del video a cui sono riuscito a risalire è stata pubblicata il 21 settembre 2014 sulla pagina Facebook di un uomo palestinese; non è un caso che la “scoperta” sia spesso collocata in Palestina.

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Tra le altre fantastasiose ubicazioni della tomba che, di volta in volta, compaiono in post o articoli web c’è addirittura la Turchia in riferimento a una farneticante storia che vedrebbe Nefertiti fuggita in Anatolia nel 10.000 a.C. Ma i presumibilmente veri luogo e data del filmato sono palesati all’inizio del video 1 in cui si vedono una banconota da 5 sterline egiziane e un foglio su cui è scritto in arabo “giovedì 21 novembre 2013” e il nome “Farid”.

Tornando agli oggetti, facendo finta che non bastino la loro rozza fattura plasticosa e i geroglifici senza senso, abbiamo un insieme incoerente sia dal punto di vista temporale che funzionale. Appaiono infatti alcuni reperti, come statuette votive di divinità o sculture reali a grandezza naturale, che dovrebbero appartenere a un contesto templare e non funerario. Poi ci sono copie di pezzi che risalgono a periodi molto lontani tra loro. Nella prima foto in alto s’intravede il cartiglio di Amenofi III (1388-1351 a.C.), ma al tempo stesso ci sono ushabti e figurine di gatti tipicamente tardi (712-332); un modellino della statua in trono di Ramesse II (1279-1213) del Museo Egizio di Torino (imm. in basso a destra) è insieme a una testa amarniana (in basso al centro); il vaso in alabastro per unguenti di Tutankhamon (1333-1323; imm. in basso a sinistra) figura con un’improbabile versione tridimensionale di una scena dipinta nella tomba tebana di Sennedjem (prima del XIV secolo a.C.) che rappresenta Anubi chinato sulla mummia del funzionario (seconda foto in alto). L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma credo che questi esempi siano più che sufficienti a definire con certezza falsi sia la tomba che tutto il suo contenuto.

Più difficile è invece capire il motivo per cui sia stato girato il video. Credo sia imbrobabile che si tratti del set di un film; più verosimile è un tentativo di truffa. A volte, infatti, mi arrivano mail e messaggi privati su Facebook di cittadini egiziani che cercano di piazzarmi antichità – il più delle volte finte – allegando foto e video. Anche questo, quindi, potrebbe essere qualcosa del genere, soprattutto perché il foglio e la banconota all’inizio sembrano un espediente per dare maggiore credibilità al ritrovamento.

 

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Bufale eGGizie*: le sirene nell’antico Egitto

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Source: nuwaupianism.com

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

Bufala veloce veloce che sfrutta il clamore mediatico scoppiato alla notizia della scelta di un’attrice di colore (Halle Bailey) per il ruolo di Ariel nel nuovo reboot in live action de “La Sirenetta”. Beh, secondo alcuni le sirene esisterebbero (o sarebbero esistite) e gli antichi Egizi lo avrebbero saputo. Il tutto parte da un documentario, “Mermaids: The Body Found”, andato in onda nel 2012 su Animal Planet e – manco a dirlo – su Discovery Channel. La trasmissione racconta la ricerca di presunti scienziati che alla fine scoprono una di queste creature fantastiche, anche grazie alle tracce provenienti dal passato. Tra quest’ultime, spicchano disegni ritrovati in una caverna in Egitto che mostrerebbero strane figure umane con coda di pesce.

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Source: wikipedia.org

Peccato che tutta l’operazione sia palesemente un mockumentary, cioè un falso documentario – come è perfino riportato nei titoli di coda – che usa attori, fatti inventati e ricostruzioni digitali a mero scopo d’intrattenimento. Il problema è che l’ammissione è volutamente ambigua per fare più audience e che la gente spesso è poca attenta; per questo, a volte bisogna specificare anche l’ovvio. I dipinti rupestri mostrati non sono altro che alterazioni di quelli realmente esistenti nella cosiddetta “Caverna dei nuotatori” a Gilf Kebir (immagine a sinistra), sito neolitico di 10.000 anni del Deserto Occidentale al confine con la Libia.

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L’immagine all’inizio dell’articolo, invece, si liquida veramente in due secondi perché è un classico utilizzo pareidolico dei geroglifici da parte di chi non conosce la lingua egizia e si basa solo su somiglianze iconografiche (recentemente, ad esempio, è tornata alla ribalta la questione di rilievi egiziani che rappresenterebbero spermatozoi). La figura al centro, quindi, non è una sinuosa sirena ma un povero uomo legato – o, più precisamente, incaprettato – che corrisponde a una variante del segno A13 della lista di Gardiner, determinativo di parole come “nemico”, “ribelle”, “prigioniero” ecc.

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Bufale eGGizie*: Omm Sety, la reincarnazione di una sacerdotessa egizia

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(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

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Di questa persona, forse l’ultima figura romantica nel mondo dell’egittologia, mi avete chiesto in tanti di parlare, praticamente da quando ho cominciato a scrivere sul blog. Una donna in cui coesistevano in egual misura indiscusse capacità professionali e bizzarre stravaganze new age che incuriosivano colleghi, turisti e giornalisti che la incontravano. Un personaggio che ovviamente non poteva sfuggire ai radar della trasmissione “Freedom” di Giacobbo che le sta dedicando ben due puntate (la scorsa, 11/06/2019, e quella di stasera, 18/06). Così, visto il rinnovato interesse, colgo l’occasione per far luce su alcuni degli aspetti più misteriosi della vita di Dorothy Eady, Bulbul Abdel Meguid, Bentreshyt o, come è più comunemente nota, Omm Sety (anche se potete trovare altre grafie come Omm Seti o Umm Sety), la reincarnazione di una sacerdotessa egizia.

220px-Pharaoh_Seti_I_-_His_mummy_-_by_Emil_Brugsch_(1842-1930)

Mummia di Seti I (Source: wikipedia.org)

Dorothy Louise Eady nacque il 16 gennaio 1904 in un sobborgo a sud-est di Londra e probabilmente avrebbe avuto un’anonima vita medio-borghese se all’età di 3 anni non fosse caduta dalle scale. Il medico chiamato a salvarla non potè far altro che appurarne la morte, ma, tornato dopo mezz’ora per preparare la salma, trovò la bambina beatamente seduta sul letto mentre mangiava cioccolata. Da questo momento in poi, la piccola Dorothy cominciò a fare sogni strani in cui vedeva palazzi con grandi colonne e un giardino con una vasca al centro. La situazione divenne preoccupante quando l’anno dopo, durante una visita al British Museum, la bambina entrò nella galleria egizia e cominciò ad abbracciare e baciare i piedi delle statue dicendo di voler “rimanere tra la sua gente”. L’ossessione verso l’antico Egitto crebbe esponenzialmente, tanto da spingere spesso Dorothy a saltare la scuola per recarsi nel museo londinese dove conobbe addirittura il celebre egittologo Ernest Alfred Thompson Wallis Budge, curatore del Dip. di Antichità Egizie e Assire, che le insegnò i rudimenti della scrittura geroglifica. Le “visioni” aumentarono sempre di più, fino ai 15 anni, quando le venne in sogno l’uomo più importante della sua vita, il faraone Seti Iche riconobbe per aver visto alcune foto della sua mummia (immagine a sinistra).

Dopo aver visitato tutte le collezioni egizie del Regno Unito e cominciato a raccogliere personalmente le antichità meno costose disponibili sul mercato antiquario, a 27 anni si trasferì a Londra per lavorare in una rivista egiziana e qui incontrò Iman Abdel Meguid, uno studente che diventerà suo marito. Così, per sposare Iman, riuscì finalmente a coronare il sogno di tornare a “casa”, nel 1933, arrivando al Cairo e assumendo il nome arabo di Bulbul Abdel Meguid. Ma il matrimonio, nonostante un figlio chiamato non a caso Sety, durò poco a causa delle stranezze della donna mal viste dai suoceri e da una proposta di lavoro che portò il marito in Iraq. Infatti, strani fenomeni di trance, scrittura automatica ed esperienze di uscita dal corpo erano ormai all’ordine del giorno, soprattutto dopo che Hor-Ra, un antico spirito egizio, le avrebbe occupato i sonni per 12 mesi consecutivi, raccontandole la sua vita passata.

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Tempio di Seti I, Abido

Omm Sety sarebbe stata la reincarnazione di Bentreshyt (“Arpa della Gioia”), una giovane nata da un soldato e da una venditrice di frutta. Il padre l’abbandonò sui gradini del Tempio di Seti I ad Abido (immagine in alto), dove il sacerdote Antef la raccolse e la crebbe a sua volta come sacerdotessa di Iside. Un giorno, mentre cantava nel giardino del santuario, colpì con la sua incantevole voce il faraone che se ne innamorò. Così i due divennero amanti e Bentreshit rimase incinta nonostante il voto di castità. Il finale della storia, come spesso succede nei ricordi di vite passate, è tragico perché Antef si accorse del pancione e la spinse al suicidio dopo non essere riuscito ad estorcerle il nome del suo illustre compagno.

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Labib Habachi, Omm Sety e Hānī al-Zaynī (Source: calisphere.org)

Una volta libera dagli impedimenti coniugali, Bulbul (letteralmente “Usignolo”) si trasferì a Nazlat es-Simman, villaggio a due passi dalla piana di Giza, e riuscì perfino a ottenenere un impiego, prima donna in assoluto, come disegnatrice e ispettrice per il Dipartimento delle Antichità egiziane. Essendo dipendente del dipartimento, era libera di entrare nel sito archeologico anche dopo la chiusura, effettuare i suoi riti giornalieri nei templi dell’area (ormai era diventata politeista convinta), fare offerte alla Grande Sfinge e passare notti all’interno della Piramide di Cheope. Quando perse l’affidamento del figlio, potè anche partecipare attivamente a diverse missioni archeologiche, collaborando con alcuni tra i più importanti egittologi locali: Selim Hassan, lo scopritore della tomba intatta della regina Khentkaus (Omm Sety compare nei ringraziamenti nei suoi volumi “Excavations at Gîza”), Ahmed Fakhry, direttore degli scavi nella necropoli di Dahshur e della piramide di Djedkara a Saqqara, e Labib Habachi (a sinistra nella foto in alto). In generale, si occupava di disegno tecnico dei reperti e di editing delle pubblicazioni scientifiche in inglese, di cui probabilmente era spesso la ghost writer.

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Source: abydosarchive.org

La sua prima visita nell’amata Abido risale al 1952, quando passò tutta la prima notte a bruciare incenso nel tempio di Seti I. Tuttavia, è solo il 3 marzo 1956 che si trasferì definitivamente per disegnare i rilievi, catalogare i blocchi in magazzino e copiare le iscrizioni tra le rovine. Qui lavorò ufficialmente fino al 1964, per poi, dopo un breve periodo nella sede centrale del Dipartimento al Cairo, tornare come consulente e guida (a destra, il suo report mensile delle attività svolte nell’agosto 1968). Ormai anziana, Omm Sety si ritirò a vita privata solo nel 1972 a causa di un attacco cardiaco, ma continuò comunque ad accompagnare i visitatori del sito fino alla morte, il 21 aprile 1981.

Ad Abido, Omm Sety divenne molto popolare intrattenendo con i suoi curiosi aneddoti turisti e colleghi e mescolandosi, grazie a un tenore di vita molto spartano, con gli abitanti del luogo che la temevano e rispettavano. Lo stesso nome che la contraddistingue maggiormente le venne dato proprio ad Abito per sottolineare – come spesso si fa nel mondo islamico – la sua maternità (= “Madre di Sety”). Inoltre, la vicinanza con gli abitanti del villaggio le permise di condurre valide ricerche etnografiche per l’American Research Center in Egypt che mettevano in relazione gli antichi culti egizi con le tradizioni musulmane e copte contemporanee.

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Omm Sety e la sua gatta (che ovviamente si chiamava Bastet)

La fama mondiale crebbe grazie a diversi articoli di giornali e a due documentari girati nel 1980, poco prima della morte: “Omm Sety and Her Egypt” per la BBC ed “Egypt: Quest for Eternity” per National Geographic (in basso). Ma la sua aurea mistica si deve soprattutto alle pubblicazioni dell’amico Hanny El Zeini che, in particolare nel libro “Omm Sety’s Egypt”, riporta diversi racconti incredibili e tutte le scoperte archeologiche che sarebbero state effettuate grazie ai suoi ‘ricordi’ della vita passata. El Zeini afferma di aver chiesto al capo ispettore di Abido se fossero vere tutte le storie che circolavano attorno a Omm Sety ricevendo come risposta che la donna era stata la protagonista materiale del ritrovamento dei giardini del tempio, nell’area del “Palazzo”, e che aveva dato un valido aiuto anche nell’individuazione della galleria del settore settentrionale del santuario (l’ingresso all’Osireion).

Ma è possibile che Omm Sety abbia veramente indicato dove scavare perché aveva vissuto in prima persona quei luoghi? O che fosse a conoscenza dell’ubicazione di importanti siti non ancora scoperti grazie ai suggerimenti di antichi personaggi apparsi in sogno? In effetti, Omm Sety diceva di avere spesso visite da Seti (tornato dall’Amduat grazie – ironia della sorte – proprio a “un permesso speciale”) che in un primo momento, nonostante i trascorsi amorosi, si sarebbe rivelato rispettoso del suo status di donna sposata ma che poi, dopo il divorzio, le avrebbe proposto un matrimonio nell’aldilà. Così come erano frequenti i colloqui con il grande Ramesse II, ricordato invece come un ragazzino irrequieto e rumoroso.

In realtà, la quasi totalità delle previsioni di Omm Sety non è mai stata verificata. In “Abydos: Holy City of Ancient Egypt” (pp. 176-178), scrisse che nel 1958 sarebbe caduta dal soffitto della Camera delle barche solari del tempio di Seti e che si sarebbe ritrovata in un ambiente colmo di casse, tavole d’offerta, teli di lino, statue d’oro con cartigli della XXVI dinastia; tuttavia, non riuscì più a ritrovare l’accesso a questa fantomatica stanza del tesoro. Era convinta anche che sotto l’edificio ci fosse una biblioteca con papiri dall’inestimabile valore storico e religioso: anche in questo caso, zero riscontri. Disse la sua perfino sulla tomba di Nefertiti che collocava nella Valle dei Re, vicino la tomba di Tutankhamon, grazie a una dritta di Seti I, nonostante questi non volesse che si trovasse perché odiava Akhenaton in quanto iconoclasta e deportatore di masse. Lo stesso Nicholas Reeves la cita nell’articolo in cui presenta l’ormai celebre teoria sulle camere nascoste nella KV62 (ma sappiamo benissimo come sia finita la questione). Altre rivelazioni, invece, sconfinano nella pura fantarcheologia, come la netta retrodatazione dell’Osireion di Abido – non più quindi cenotafio di Seti I – e della Grande Sfinge di Giza, che sarebbe stata l’effigie del dio Horus e non di Chefren.

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Se poi andiamo nel particolare, la presunta scoperta del tunnel nord imputata ai ricordi di Omm Sety (e segnalata da Freedom come indizio della veridicità delle parole della donna) non è altro che la risultante dell’intuizione del celebre archeologo britannico Flinders Petrie che nel 1902 notò una depressione scavando con Caufeild il muro di recinzione del tempio di Seti I. Nel 1903, Margaret Murray, individuò l’anticamera dell’Osireion e la fine del corridoio d’accesso di cui comunque tracciò l’ipotetico andamento nella sua pubblicazione del 1904, ricongiungendosi a ciò che era stato indagato l’anno prima (immagini in basso). L’Osireion vero e proprio, invece, fu scavato da Edouard Naville tra 1912 e 1914 e poi da Henri Frankfort nel 1925.

Un’altra grave svista della trasmissione è stata datare al 3000 a.C. i geroglifici presenti nel corridoio e considerarli tra i primi della storia egizia. Le prime attestazioni di scrittura geroglifica sono state trovate effettivamente ad Abido, ma più ad ovest, nella necropoli di Umm el-Qaab e in particolare nella tomba U-j del re Scorpione I (3200 a.C. circa). I testi che si trovano nell’Osireion, invece, corrispondono al Libro delle Porte, gruppo di formule funerarie che comparvero solo alla fine della XVIII dinastia (1300 a.C. circa), e al Libro delle Caverne, testo di età ramesside che qui ha il suo primo esempio; nello specifico – e sarebbe bastato leggere i cartigli inquadrati – ciò che è scritto alle pareti del corridoio è da collocare sotto il faraone Merenptah (1213-1203 a.C.).

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Frame tratto dalla puntata di Freedom del 18/06/2019, rielaborato da M. Mancini con cartiglio di Merenptah dal Tempio di Luxor

A detta di chi l’ha conosciuta, Omm Sety non fingeva ed era fermamente convinta di quello che diceva. Molti psicologi e altri esperti hanno provato a spiegare le sue visioni con la “sindrome della falsa memoria”, estraneazione dalla realtà, danni cerebrali subiti per la caduta a 3 anni, ma credo che a posteriori, senza una vera visita medica, sia inutile parlarne. Più importante è invece sottolineare professionalità e preparazione della donna che erano confermate da altri eminenti egittologi, ma che rischiano di passare in secondo piano a causa del folklore della sua vita. Nonostante non abbia seguito una normale carriera accademica, infatti, Omm Sety comiciò a studiare storia e lingua egizia fin da piccola e poi si formò sul campo grazie a decenni di missioni archeologiche, proprio come aveva fatto Howard Carter. 

È vero che – come dice l’egittologo Kenneth Kitchen – Omm Sety potrebbe essere arrivata ad alcune conclusioni esatte perché passava tutto il suo tempo nell’area archeologica di Abido, osservando, disegnando, copiando e studiando, cosa che il 99% degli altri ricercatori non potrebbe mai fare. Ma in generale, non c’è comunque alcun documento, articolo o appunto scritto che provi che lei sapesse in anticipo dove scavare. Abbiamo solo i suoi racconti a posteriori, oltre a dicerie, voci di persone a lei vicine e anonime citazioni che non hanno alcun valore scientifico. Non ci sono nemmeno conferme da parte dei suoi familiari di tutto ciò che Omm Sety raccontò sulla sua infanzia.

Resta quindi uno dei tanti esempi di persone che, forse per fuggire dalle insoddisfazioni della vita reale, immaginano di avere avuto un trascorso illustre. Quasi mai, infatti, si sente parlare di reincarnazioni di gente comune e Omm Sety non fa eccezione perché, nonostante nella scorsa puntata di Freedom si sia provato a sottolineare le umili origini di Bentreshyt, questa sarebbe stata comunque l’amante dell’uomo più potente del suo tempo. Inoltre, va aggiunto che l’antico Egitto, per il suo fascino esotico, è sempre stato terreno fertile per correnti filosofiche esoteriche e per società segrete iniziatiche che della reincarnazione hanno fatto l’elemento fondante. Curiosamente ci fu anche una concittadina e quasi coetanea di Omm Sety, la scrittrice Joan Grant, che assicurava di ricordare almeno 40 vite passate tra cui quella di Sekhet-a-Ra, sacedotessa e regina vissuta durante la I dinastia e sepolta, anch’essa, ad Abido. Questa storia, a parer suo non inventata, le servì da spunto per realizzare il suo romanzo più famoso, “Il Faraone alato” (1937).

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Il tempio di Seti I con i luoghi delle “scoperte” di Omm Sety

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Bufale eGGizie*: i faraoni giganti

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Source: wikipedia.org

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

Una delle iconografie più diffuse nell’antico Egitto è quella che vede il faraone stagliarsi enorme sopra nemici sopraffatti o sudditi offerenti. Questa taglia XL del re, resa sulle pareti di templi e tombe, è considerata da alcuni come la prova principe dell’esistenza di giganti nell’antichità. I mitici Nephilim biblici avrebbero popolato l’Egitto e, grazie alla loro stazza, permesso la costruzione delle piramidi e degli altri imponenti monumenti. So che è assurdo, ma bufale del genere girano da sempre, come quella dei cosiddetti “giganti del Wisconsin” finita addirittura sul New York Times nel 1912. Erano altri tempi; ma anche ultimamente il discorso è stato ritirato fuori. Non è un caso che oggi a Palermo, nel grande calderone di assurde tesi complottistiche presentate durante il convegno dei terrapiattisti italiani, siano stati citati anche i giganti d’Egitto.

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Source: teachmiddleeast.lib.uchicago.edu

Tornando a noi, scene come quella di Ramesse III contro i Popoli del Mare (tempio di Medinet Habu; immagine in alto) si spiegano semplicemente con il concetto di proporzioni gerarchiche. La produzione figurativa egizia non è realistica non perché non si fosse in grado di ricreare così come è la natura – e basta vedere gli ostraka da Deir el-Medina per rendersene conto -, ma perché l’arte era funzionale al veicolare determinati messaggi. In questo caso, la convenzione stilistica vuol evidenziare la gerarchia dei personaggi rappresentati, dal più grande al più piccolo secondo il rango. Già nella Paletta di Narmer (particolare in alto al post), si vede che l’altezza del faraone è il doppio di quella dei funzionari che lo inquadrano, a loro volta più alti dei portatori degli stendardi. Non fa eccezione l’arte privata come, ad esempio, i rilievi della mastaba di Mereruka a Saqqara (VI dinastia) in cui le dimensioni del defunto sono decisamente titaniche se confrontate con quelle della moglie e del figlio maggiore ai suoi piedi (foto in basso).

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Davies, The tomb of Rekh-Mi-Rē’ at Thebes, New York 1943, pl. LV (particolare)

Discorso a parte va fatto, invece, per le rappresentazioni pittoriche delle statue, a volte apparentemente indistinguibili dalle persone in carne e ossa se non fosse per il basamento sempre presente. Non considerando questo particolare, nel caso di sculture colossali, si potrebbe cadere nell’errore di vederci dei mostri. Ecco perché la persona da cui ho preso l’immagine qui in basso ha aggiunto una didascalia che recita: “ragazzo massaggia i piedi del re gigante”… non servono commenti.

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Source: The Theban Royal Mummy Project

Infine, altro pretesto per parlare di giganti è quello delle dimensioni ‘sproporzionate’ di alcuni sarcofagi. Nella foto a sinistra, ad esempio, è ritratto l’enorme sarcofago della regina Ahmose-Nefertari, moglie di Ahmose (1543-1518). Date le sue misure (3,80 m), fu sfruttato dai sacerdoti che nascosero le mummie reali nella cachette di Deir el-Bahari (DB320) per conservare, oltre ai resti della regina, anche il sarcofago di Ramesse III. In effetti, è proprio questa la spiegazione: alcuni sarcofagi antropoidi sono così grandi perché, come delle matrioske, dovevano contenere altre bare gradualmente più piccole. Per fare l’esempio più celebre, la mummia Tutankhamon era deposta in un sarcofago antropoide in oro massiccio, a sua volta contenuto in uno ligneo ricoperto d’oro, ancora in un altro dello stesso tipo e, infine, in una grande cassa parallelepipeda in quarzite.

Tuttavia, esiste un caso -spesso citato dalla fantarcheologia- in cui le tombe effettivamente non sono state concepite per umani, ma comunque nemmeno per giganti. Nel Serapeo di Saqqara, 24 sarcofagi in granito (foto in basso) misurano 4 m di lunghezza, 2,30 m di larghezza e 3,30 m di altezza e pesano fino a 70 tonnellate perché destinati alle mummie dei tori Api, manifestazioni viventi del dio Ptah.

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Moderna protesi ortopetica nel ginocchio di una mummia rivelerebbe un’operazione chirurgica di 3000 anni fa (bufale eGGizie*)

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Source: RC Egyptian Museum

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

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Non è tra gli OOPart (Out Of Place ARTifacts, “reperti fuori posto”) classici della fantaegittologia, ma sicuramente una delle ‘prove’ più utilizzate nel web per testimoniare il presunto avanzato livello tecnologico della civiltà faraonica: una moderna protesi ortopetica impiantata nella gamba di una mummia di 3000 anni.

La sconvolgente “verità che l’archeologia ufficiale vi nasconde” viene dal Rosicrucian Egyptian Museum (San Jose, California), la più grande collezione egizia degli Stati Uniti occidentali ed emanazione dell’Antico e Mistico Ordine della Rosacroce. L’AMORC è un mix di misticismo e massoneria ideato nel 1915 dall’americano Harvey Spencer Lewis che lo credeva erede del primo Ordine Rosa-Croce ‘fondato’ da Thutmosi III. In una simile ideologia, un museo egizio appare decisamente funzionale e già negli anni ’30 Lewis cominciò a raccogliere reperti dalla Valle del Nilo. Qualche decennio più tardi, nel 1971, il museo acquistò  per circa 16,000 $ da Neiman Marcus – una catena di grande distribuzione del lusso – due sarcofagi ancora sigillati.

Con sorpresa ci si accorse che uno dei due feretri (inv. RC-1777), appartenuto al sacerdote di XXVI dinastia (572-525 a.C.) Usermontu, conteneva ancora una mummia (RC.1779) che, tuttavia, dall’analisi della tecnica d’imbalsamazione sembra più antica e risalire al Nuovo Regno. Quindi, non si sa quando, il corpo è stato ribendato e messo in un altro sarcofago. I misteri sarebbero finiti qui se nel 1995 non fossero stati effettuati esami ai raggi X alle mummie del museo e non fosse emerso qualcosa di strano proprio in quella di “Usermontu”.

team-of-experts-mummyLo studio, diretto da Charles Wilfred Griggs – egittologo e professore di scrittura antica presso la mormonica Brigham Young University (il quarto da destra nella foto) -, rilevò la presenza di un oggetto metallico all’interno del ginocchio sinistro della mummia: un perno di 23 cm a forma di vite che sembrava collegare le due parti della gamba. Richard Jackson – chirurgo ortopetico e membro del team di ricerca (il secondo da destra) – disse che era incredibilmente simile a una moderna protesi; per questo Griggs inizialmente pensò a un intervento non più antico di 100 anni, magari atto a tenere attaccata la gamba per un’eventuale vendita nel mercato antiquario («Somebody got an ancient mummy and put a modern pin in it to hold the leg together»). Ma quando l’anno dopo ebbe il permesso di sbendare il ginocchio, inserire una sonda e prelevare campioni del metallo (ferro) e dell’osso, vide che la zona era ancora coperta da resina e tessuto originari.

 

2cs88irLo stesso Jackson influenzò con il suo entusiasmo il giudizio di Griggs (forse già sensibile a idee ‘alternative’ a causa del suo credo) e diede il via alle speculazioni fantarcheologiche: si sarebbe di fronte alle prove di un’operazione chirurgica effettuata sul paziente ancora in vita! Il medico, infatti, disse che il perno, dalle incredibili proprietà biomeccaniche, era inserito tramite una vite nel femore e, dopo aver attraversato l’articolazione del ginocchio, s’innestava con tre flange zigrinate nella tibia, proprio come si fa oggi per stabilizzare la rotazione dell’osso. Questi accorgimenti avrebbero evitato che la protesi si muovesse provocando lancinanti dolori all’uomo e, di fatto, l’impossibilità a camminare.

Peccato che, anche in questo modo, la deambulazione sarebbe stata come minimo improbabile. Cercate voi di fare un passo con una spranga rigida di ferro che vi blocca la parte più mobile della gamba! Fra l’altro, mancano anche alcune ossa. Seppur sia già noto che la più antica protesi ortopetica finora scoperta è egiziana, non è questo il caso di parlare di miracolo della medicina. Appare evidente quindi che l’intervento avesse un altro scopo, seppur importantissimo dal punto di vista ideologico.

L’operazione è avvenuta post mortem, durante il processo di mummificazione. L’individuo avrebbe subito l’amputazione dell’arto, cosa che poi probabilmente lo ha ucciso, e i sacerdoti imbalsamatori avrebbero risolto il problema almeno per l’aldilà. Nell’ideologia religiosa egizia, infatti, l’integrità del corpo era fondamentale per la ‘rinascita’ e la vita dopo la morte. L’archetipo di questa concezione coincide con il mito della ricomposizione da parte di Iside del cadavere di Osiride smembrato da Seth e si concretizza nella pratica stessa della mummificazione. Anche i testi funerari – fin dall’Antico Regno con i Testi delle Piramidi – sono pieni di formule magiche che salvaguardano la sanità del fisico dai pericoli della Duat o di riferimenti a pene che comprendono decapitazioni e amputazioni varie che avrebbero portato all’annullamento definitivo del defunto.

In conclusione, la “protesi” nella mummia non è la prova di un’eccezionale operazione chirurgica effettuata millenni fa ma un semplice accorgimento simbolico che avrebbe garantito un corretto passaggio verso la vita ultraterrena.

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Camere segrete, troni di ferro e proto-geroglifici: i misteri della Piramide di Cheope secondo Freedom (bufale eGGizie*)

Souce: facebook.com/freedomrete4/

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

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Devo ammetterlo: mi ero illuso, credevo che qualcosa fosse cambiato e invece…

La prima puntata della nuova avventura televisiva di Roberto Giacobbo, “Freedom – Oltre il confine”, non mi era dispiaciuta, anzi avevo apprezzato le belle immagini della tomba di Mehu – aperta al pubblico solo lo scorso settembre dopo quasi 80 anni dalla scoperta – e lo stile narrativo, volutamente amichevole e autoironico (ormai celebri sono i “permessi speciali” e le raccomandazioni fatte ai cameraman), che in alcuni casi preferisco a quello più ‘epico’ di Alberto Angela. Precisazione: il mio giudizio si limita al servizio sull’antico Egitto, l’unico che ho visto.

Tuttavia, giovedì scorso si è tornati nel classico solco del mistero che, con la scusa di voler sentire tutte le campane (cosa in genere buona e giusta), mette sullo stesso piano la cosiddetta ‘archeologia ufficiale’ e la fantarcheologia. Lungi da me pensare che ci siano verità dogmaticamente intoccabili, ma, se si vuole proporre teorie alternative, bisognerebbe avere alle spalle una solida preparazione, un metodo scientifico e argomentazioni che non si limitino a coincidenze numeriche, vaghe somiglianze o interpretazioni personali. Citando un altro Angela, il padre Piero, “Bisogna avere sempre una mente aperta, ma non così aperta che il cervello caschi per terra”.

Tornando alla seconda puntata di Freedom, l’argomento trattato si prestava particolarmente a speculazioni pseudostoriche di cui ho già parlato in questa rubrica: la piramide di Cheope. Perché nonostante il villaggio e i cimiteri degli operai, i graffiti nelle camere di scarico e la recente scoperta
dei papiri dello Wadi el-Jarf (erroneamente attribuita – questa volta per colpa del social media manager della trasmissione – a Zahi Hawass; immagine a sinistra), viene sempre riproposta la panzana dell’origine più antica della Grande Piramide. Opera di una civiltà di oltre 10.000 anni fa, il monumento sarebbe stato al massimo modificato da Khufu. A tal proposito, Giacobbo si domanda come sia stato possibile passare repentinamente attraverso i sistemi costruttivi così diversi della ‘Piramide a gradoni’ di Djoser, di quelle per l’appunto di Giza e degli esempi meno monumentali della V dinastia. Peccato che non si faccia riferimento alle fasi intermedie di Snefru (‘Piramide romboidale’, ‘Piramide rossa’ di Dashur) e all’evoluzione, durata comunque secoli, sia del pensiero religioso che del tessuto socio-economico dell’Egitto, non più in grado di supportare, alla fine dell’Antico Regno, opere come quelle della IV dinastia. In sostanza, non c’è stata nessuna perdita improvvisa di conoscenza tecnologica.

Altro indizio per una presunta retrodatazione della piramide sarebbe la presenza di proto-geroglifici – mille anni più antichi di Cheope – in fondo a un condotto esplorato da un robot. Così come la Camera del Re (dove si trova il sarcofago in granito), anche la sottostante Camera della Regina ha due lunghi tunnel dalla sezione quadrata di circa 20 x 20 cm che salgono con pendenza variabile verso l’esterno. Dopo essere stati individuati nel 1872 dagli scozzesi Waynman Dixon e James Grant (in origine, infatti, le aperture erano nascoste dal rivestimento della stanza), si è cercato di indagarli a più riprese, anche con mezzi altamente tecnologici. In particolare, per il condotto meridionale sono stati adottati ben 4 robot cingolati: nel 1992 Upuaut aveva prodotto scarsi risultati; nel 1993 Upuaut 2 era riuscito a salire per circa 63 metri fino a incontrare una lastra di calcare con due maniglie di bronzo; nel 2002 la National Geographic Society aveva inviato, con diretta TV, un Pyramid Rover in grado di forare la ‘porta’ e vedere con una microcamera che oltre l’ostacolo si trovava un piccolo segmento e una chiusura analoga; infine, nel 2009, il progetto Djedi, ideato dall’ingegnere Rob Richardson della University of Leeds, adottò una snake-camera snodabile così da documentare anche le pareti laterali del vano scoperto in precedenza.

Source: newscientist.com

Ed effettivamente una sorpresa in quest’ultimo caso ci fu quando si notarono segni dipinti in rosso sulla pietra (immagine a sinistra). Segni che, senza aspettare la prima pubblicazione scientifica del team (Hawass Z. et alii, First report: video survey of the southern shaft of the Queen’s Chamber in the Great Pyramid, in ASAE vol. 84, 2010), erano stati definiti proto-geroglifici.

Le più antiche testimonianze conosciute di scrittura egizia vengono dalla tomba U-j di Umm el-Qa’ab (3320-3150 a.C.), nei pressi di Abido. In questa sepoltura, forse appartenuta al re Scorpione I, sono stati scoperti vasi con segni d’inchiostro, impronte di sigillo e soprattutto etichette d’osso e avorio che recano toponimi interpretati come un’embrionale suddivisione amministrativa del territorio alla fine del Predinastico. Non sarà stato il 3500 a.C. come detto in trasmissione, ma comunque una simile datazione dei segni nel condotto, se fosse stata confermata, avrebbe sconvolto tutte le nostre credenze sul monumento e sull’intera storia dell’antico Egitto.

Source: Djedi Project
Source: Luxor Times

In realtà, anche se le immagini girate dalla microcamera (vedi in alto) non sono chiarissime, bastano comunque per confermare la datazione ‘ufficiale’. Nella piramide, infatti, ci sono molti segni simili, fra l’altro vergati analogalmente in inchiostro rosso, come l’iscrizione con il cartiglio stesso di Cheope nella cosiddetta Camera di Campbell (foto a destra). Si tratta di semplici appunti lasciati dagli operai con numeri, date e nomi delle diverse squadre di lavoratori (qui un articolo di approfondimento). D’altronde, chiunque sia stato in un cantiere sa benissimo che le pareti di tutti gli edifici, sotto la vernice o la carta da parati, sono piene di scritte e numeri lasciati da muratori ed elettricisti per facilitarsi il lavoro.

E quindi, come interpretare i segni in ocra rossa del condotto meridionale se non proto-geroglifici? Hawass e i co-autori del report scrivono che si tratta di cifre in ieratico, la forma di scrittura corsiva dell’egiziano antico. Luca Miatello, ricercatore indipendente, rincara la dose leggendo “121”, tesi condivisa da James Allen, celebre egittologo americano ed esperto in lingua che tutti gli studenti conosceranno per aver imparato i geroglifici sul suo libro “Middle Egyptian: An Introduction to the Language and Culture of Hieroglyphs”. Mi chiedo solo perché, nella sbandierata volontà di dar voce a tutti, non sia stato interpellato sulla questione proprio Hawass, direttore del Progetto Djedi, che ha accompagnato Giacobbo nella visita della piramide. Il vero quesito è la funzione sconosciuta di questi canali, detti impropriamente “d’areazione”, che da alcuni vengono indicati come passaggi simbolici per l’anima del faraone verso le stelle circumpolari.

Infine, non poteva mancare il riferimento allo studio che negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione dei media: lo Scan Pyramids Project. Ne ho parlato ampliamente sul blog, quindi dico solo che una squadra internazionale di scienziati ha effettuato indagini non invasive con l’utilizzo di particelle muoniche individuando due anomalie nella Piramide di Cheope (immagine in alto). In particolare, sarebbe stato rilevato un ampio vuoto sopra la Grande Galleria, interpretato troppo frettolamente come “stanza segreta”. Ormai dovremmo aver imparato la lezione dalla lunghissima vicenda delle camere nascoste nella tomba di Tutankhamon e quindi sarebbe opportuna maggior cautela nei proclami aspettando ulteriori esami (che fra l’altro sono stati annunciati in esclusiva durante la puntata dallo scettico Hawass che ha parlato di due nuovi gruppi di studiosi, giapponesi e americani, attesi a Giza per l’inizio del 2019). Appare quindi come minimo prematura l’ipotesi di Giulio Magli, docente di matematica e archeoastronomia presso il Politecnico di Milano, che basandosi sulla lettura dei Testi delle Piramidi ha parlato della presenza nella camera di un trono di ferro meteoritico. Interpretare alla lettera le fonti scritte è sempre sbagliato, a maggior ragione quando non ne si conosce il contesto. Quel vuoto, per quello che sappiamo ora, potrebbe avere semplicemente una funzione strutturale o pratica nel realizzare la galleria sottostante, quindi è inutile fare ragionamenti sul suo contenuto.

In ogni caso, la teoria di Magli si basa soprattutto sulla formula 536 dei Testi delle Piramidi, presente solo nella piramide di Pepi I (VI din., 2330-2280 a.C.; quindi lontana circa tre secoli dal regno di Cheope durante il quale non si hanno tracce di questi enunciati religiosi).

Sethe K., Die Altaegyptischen Pyramidentexte Pyramidentexte nach den Papierabdrucken und Photographien des Berliner Museums, 1908

Tuttavia, viene presa in considerazione solo la versione di Faulkner (The Ancient Egyptian Pyramid Text, 1969) che per l’ultima parte della formua (Pyr. 1293a) recita: “Sit on this your iron throne”. Questo ferro, secondo Magli, sarebbe quello meteoritico per la menzione in precedenza delle “porte del cielo”. Altri studiosi, invece, hanno tradotto il termine biA (in questo caso, evidenziato in alto, è biAi) come “rame”, “bronzo” (Sethe 1962, p. 119; Curto 1962, p. 67), genericamente “metallo” (Allen 2005, p. 168) o, come aggettivo “fermo/eterno/brillante” (Speelers 1934, p. 308; Mercer 1952, p. 253). Appare quindi evidente che, per un’interpretazione così dibattuta, non sia sufficiente scegliere solo la versione che fa al proprio caso, soprattutto se non si è filologi.

Per una trattazione più ampia dell’argomento e per i riferimenti bibliografici precedenti, rimando all’articolo di Lalouette: Le «firmament du cuivre»: contribution à l’étude du mot biA.

 

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