Egitto di Provincia

“Egitto di Provincia”: Museo d’Antichità J.J. Winckelmann, Trieste

La prima sala della collezione egizia

Qualche giorno fa, invitato a Trieste dal Centro Culturale Egittologico Claudia Dolzani per tenere una conferenza, ho approfittato dell’occasione per visitare la città per la prima volta. Tra le tappe scelte nel mio breve soggiorno nel capoluogo del Friuli-Venezia-Giulia, non poteva mancare il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann che conserva una delle collezioni egizie “minori” più importanti d’Italia.

Quella del già Civico Museo di Storia ed Arte è infatti, insieme a quella della Pilotta a Parma, la raccolta egizia più cospicua esaminata per questa rubrica. Con circa 1500 reperti e 4 stanze dedicate, è in effetti difficile accomunarla ad altre in cui gli oggetti egizi si limitano a poco più di una vetrina. Prima di passare all’Egitto, però, vale la pena fare una brevissima panoramica sulla storia del museo che, per le sue peculiarità, può essere considerato un punto di riferimento per la cittadinanza. Infatti, grazie alla gratuità e alla bellezza degli spazi aperti (Orto Lapidario e Giardino del Capitano), il Museo Winckelmann è un piacevole luogo dove passare il tempo libero. La sua origine risale all’8 giugno 1843 quando, in occasione del 75° anniversario della morte di Johann Joachim Winckelmann, fu aperto ufficialmente al pubblico l’Orto Lapidario in cui si trova il cenotafio del celebre studioso tedesco, padre del neoclassicismo, assassinato proprio a Trieste. Il Museo vero e proprio, invece, fu inaugurato nel 1873 dopo che il Comune ebbe acquistato una collezione di ben 25.500 antichità aquileiesi del farmacista triestino Vincenzo Zandonati.

Già nell’Orto Lapidario s’incontrano, in un certo senso, tracce di Egitto, con piccole are romane dalla zona di Aquileia dedicate a divinità egiziane come Iside e Anubi (immagine in alto a sinistra). Altre testimonianze della diffusione dei culti egizi nel mondo classico sono invece rintracciabili in una testa del dio Serapide e un rilievo di una sacerdotessa isiaca esposti nel mausoleo di Winckelmann, oltre a piccoli oggetti, come bronzetti di Iside-Fortuna, nelle sale romane (foto in alto).

La Collezione egizia è composta da reperti donati, dal 1873 ai primi decenni del XX secolo, da cittadini triestini che si erano recati in Egitto per lavoro o per un semplice viaggio di piacere. Il porto franco di Trieste, grazie al suo sistema fiscale privilegiato e al ruolo del Lloyd Triestino, era infatti uno dei principali scali commerciali europei del XIX secolo e, per questo, era costantemente inserito nelle rotte mercantili e turistiche da e verso il Mediterraneo Orientale. Se Livorno divenne la porta d’accesso continentale alle grandi collezioni museali raccolte durante l’Età dei Consoli, Trieste vide soprattutto l’afflusso di piccoli nuclei di antichità acquistate come souvenir da privati colpiti dalla diffusa egittomania (per maggiori informazioni sui donatori, rimando all’estratto del catalogo linkato in basso). Alcuni reperti e mummie esposti, però, fanno parte del patrimonio del Museo Civico di Storia Naturale e sono in deposito permanente presso il Museo Winckelmann.

Si parte dalla sala più grande (foto in alto) intitolata a Claudia Dolzani, studiosa triestina che per prima si adoperò allo studio e allestimento della raccolta. Alle pareti ci sono chiare didascalie ed esaustivi pannelli cronologici, oltre a tavole inerenti all’antico Egitto tratte dalla prima edizione italiana completa (1830-1834) degli studi di storia dell’arte di Winckelmann. Entrando nella sala, l’occhio è subito catturato dai tre sarcofagi, due in pietra (Suty-Nakht, XIX din.; Aset-reshty, XXVI din.) e uno in legno (Pa-di-amon, XXI din.) con all’interno una mummia non pertinente aggiunta in antichità o nel XIX secolo. Di quest’ultimo è apprezzabile la spiegazione di ogni singola scena dipinta sulla cassa e sul coperchio.

Il resto degli oggetti, di taglia molto più piccola, è disposto in vetrine tematiche. D’altronde, per contesti così eterogenei e provenienti dal mondo dell’antiquaria, è probabilmente l’unico modo di esposizione. Abbiamo quindi gruppi tipologici – come parti di sarcofago, stele, ushabti (tra cui ne spiccano tre di Seti I), canopi, amuleti – o divisi per i macroargomenti divinità – dove abbondano, come sempre, bronzetti di Osiride e Iside – e animali – in cui ogni divinità zoomorfa è rappresentata dai relativi amuleti e mummie (gatto, falco e coccodrilli) -. Restano alcuni reperti “sfusi” come falsi ottocenteschi, un pyramidion di epoca tolemaica (di cui è stata effettuata anche una copia presente in sala), quattro fogli di papiro con il Libro dei Morti dello scriba Amenhotep (XVIII din.) e una rara statuetta incompiuta di un sovrano tolemaico inginocchiato dietro una stele. Ogni insieme è ampiamente spiegato nelle didascalie, togliendo un po’ spazio alle informazioni relative ai singoli pezzi. Nel complesso si ha quindi un esaustivo catalogo didattico delle più comuni espressioni della cultura materiale egizia.

Dopo un ambiente di passaggio, dove è esposto solo un rilievo con Nereidi ed erote su un delfino del V sec. d.C., si entra in una piccola sala in cui è ricostruito il contesto funerario del sacerdote Pa-sen-en-hor (Tebe, XXI-XXII din.), di cui si mostra la mummia, il sarcofago antropoide in legno e la copertura in cartonnage (foto in alto). Qui l’illuminazione si attiva solo al passaggio del visitatore risparmiando stress superfluo alle variopinte pitture dei reperti.

L’ultima sala è dedicata ai periodi più tardi della storia egizia, tra cartonnage tolemaici, terrecotte greco-romane e copte e ceramiche islamiche. Infine, accanto a un sarcofago di sacerdotessa di fine XXI dinastia (X sec. a.C.) con all’interno la mummia di un anziano di Epoca greco-romana, ci sono un’istallazione video in cui viene mostrata la ricostruzione facciale dei tre individui imbalsamati presenti nella Collezione (foto in alto a destra) e un pannello che illustra i risultati degli esami archeoantropologici.

In realtà, continuando la visita nei piani superiori si trovano altri reperti egizi. Nello specifico, un bel mobiletto d’epoca contiene selci e altri strumenti in pietra predinastici raccolti in Egitto o ricevuti in dono da Carlo Marchesetti, direttore del Civico Museo di Storia Naturale dal 1876 al 1921 ed esperto di archeologia preistorica, mentre nella Sala della scrittura nell’antichità sono esposti un ushabti e un frammento di sarcofago a rappresentanza del sistema geroglifico.

Il sito del museo: https://museoantichitawinckelmann.it/visita/antico-egitto/

Un estratto del catalogo: https://www.archeocartafvg.it/wp-content/uploads/Estratto-COLLEZIONE_EGIZIA.pdf

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“Egitto di Provincia”: il Museo Orientale del Santuario della Madonna dell’Oriente, Tagliacozzo (AQ)

Source: commons.wikimedia.org

Torno dopo anni a parlare di una delle tante piccole collezioni egizie disseminate nel nostro territorio; e lo faccio giocando in casa, spostandomi di nemmeno 15 km dalla città in cui sono nato.

Incastonato tra le montagne marsicane, nel cuore dell’Abruzzo, il santuario della Madonna dell’Oriente (Tagliacozzo, AQ) deve il suo nome a un’icona del XIII secolo, forse copia di un originale più antico, che secondo la tradizione sarebbe stata portata da Costantinopoli da due soldati locali, salvata dalla furia iconoclasta dell’imperatore Leone III (717-741). La pala raffigura Maria col Bambino in uno stile effettivamente bizantino, ma l’impianto attuale della chiesa è seicentesco, seppur sia stata ricostruito completamente dopo il catastrofico terremoto della Marsica del 1915.

Però, in questo caso vorrei concentrarmi sul piccolo museo che si trova nei locali annessi al convento: il Museo Orientale. Nato nel 1965 sotto la direzione di padre Tommaso Casale, il museo ospita diversi ex-voto, che vanno dal XVII al XX secolo, e reperti archeologici provenienti soprattutto da Egitto e Vicino Oriente. L’idea fondante della raccolta era proprio quella di esporre oggetti originari da paesi in cui sarebbe vissuta la Madonna. Il primo impulso arrivò grazie alle donazioni di un personaggio di cui avevo già scritto sul blog, occupandomi della collezione del convento di San Giuliano all’Aquila. Lo stesso padre Gabriele Giamberardini che aveva lasciato tante antichità nel seminario aquilano in cui aveva studiato, era infatti fortemente legato anche alla Madonna dell’Oriente, dove invece era solito effettuare ritiri spirituali; decise quindi di donare al santuario di Tagliacozzo tre dozzine di reperti acquistati durante il suo soggiorno in Egitto. Il suo esempio fu poi seguito nel1980 da padre Claudio Bottini, professore dello Studio Biblico Francescano di Gerusalemme, che inviò ceramiche dalla Palestina.

Il francescano Giamberadini visse in Egitto dal 1950 e il 1969, ricoprendo diversi incarichi, tra cui quelli di insegnante nel seminario S. Cirillo di Giza, prefetto degli studi della Missione in Alto Egitto, direttore del Centro di Studi Orientali Cristiani del Cairo, direttore del periodico “La Voce del Nilo”, ecc. In quel periodo, precedente alla Legge 117/1983 sulla protezione delle antichità egiziane, era ancora possibile esportare dal Paese reperti archeologici; per questo, oggi 36 pezzi della sua raccolta pesonale sono esposti in due delle vetrine del museo.

Come tante collezioni simili, il gruppo è composto da qualche falso e da oggetti di piccole dimensioni, più semplici da trasportare ed economici da acquistare, provenienti soprattutto da contesti funerari e cultuali di Epoca Tarda. Non mancano però reperti più antichi come un vasetto in alabastro di Antico Regno, una statuetta in legno di Medio Regno e diversi scarabei in steatite – il gruppo più numeroso – databili tra II Periodo Intermedio e Nuovo Regno. Alcuni di questi recano il cartiglio di faraoni della XVIII dinastia, come Hatshepsut, Thutmosi III e Thutmosi IV. Vanno poi aggiunti pezzi risalenti al periodo greco-romano e ovviamente, contestualmente alla vocazione e all’interesse di Giamberardini per la storia del cristianesimo, ostraka iscritti in copto e un’ampolla di San Mena.

Per chi si trovasse in zona e volesse visitare la collezione, il museo è aperto su prenotazione chiamando il numero del santuario: 0863610257. Colgo l’occasione per ringraziare l’attuale rettore del santuario, padre Vasile Retegan, per la disponibilità e la gentilezza.

Il nucleo di antichità egizie è pubblicato in : CIAMPINI E. M., DI PAOLO S. 1998, “La collezione egizia Giamberardini in un museo dell’Aquilano”, in Liber annuus 48 (1998), pp. 495-512.

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“Egitto di Provincia”: il Gayer-Anderson Museum del Cairo

Torno a parlare di una collezione egizia “minore” a distanza di 2 anni e mezzo dall’ultima volta e non poteva esserci occasione migliore per occuparmi di un museo che si trova proprio in Egitto e che ho visitato all’inizio del mese.

Del Cairo tutti conoscono lo storico Museo Egizio di Piazza Tahrir e forse anche i due nuovi musei archeologici, il Grand Egyptian Museum di Giza e il Museo Nazionale della Civiltà Egiziana a Fustat, che sono ancora in fase di costruzione. Molti meno, invece, hanno sentito parlare di un vero e proprio gioiello nascosto tra i fatiscenti palazzi della parte vecchia della città, un edificio rimarchevole più per la sua bellezza architettonica che per l’importanza delle antichità che contiene: il Gayer-Anderson-Museum.

Probabilmente il nome non sarà nuovo agli amanti dell’Egitto antico perché è legato a uno dei reperti più famosi del British Museum, il “gatto Gayer-Anderson“. La statuetta di bronzo fu donata al museo londinese nel 1939 dal maggiore, medico dell’esercito britannico e collezionista Robert Grenville Gayer-Anderson (1881-1945) che era arrivato in Egitto nel 1907. Qui, dopo una prestigiosa carriera che lo portò a ricoprire importanti cariche militari e amministrative, fino ad ottenere addirittura il titolo onorifico di Pascià, Gayer-Anderson si ritirò a vita privata nel 1923 per didicarsi a tempo pieno alle sue vere passioni. Cominciò infatti a raccogliere, studiare e vendere antichità egizie, mobili orientali e altri oggetti da Turchia, Siria, India, Iran, Cina e Italia. Scriveva articoli per riviste egittologiche, organizzava mostre al Cairo e intratteneva rapporti con musei di tutto il mondo, come il già citato British Museum o il Fitzwilliam Museum di Cambridge a cui donò oltre 7500 pezzi. Non è un caso che, in due quadri nella sua abitazione, sia rappresentato mentre maneggia un ushabti o caricaturizzato con le fattezze della sfinge (foto in basso)

Tra il 1932 e il 1943, il Maggiore ebbe il permesso di risiededere nelle confinanti Beit Amna bint Salim (1540) e Beit el-Kretilya (1632), due dei pochissimi esempi di edilizia privata ottomana sopravvissuti alle demolizioni nelle adiacenze della monumentale moschea di Ibn Tulun. La bellezza del luogo, con tendaggi, mobili d’epoca ed elegantissimi intarsi in legno, è sottolineata anche dalla scelta di utilizzare i due palazzi come location per il film “007 – La Spia che mi amava“. Alla sua morte nel 1945, Gayer-Anderson lasciò in eredità la sua abitazione, insieme a tutto il contenuto, al governo egiziano che poi ne ha fatto una casa-museo.

I reperti egizi sono sparsi un po’ ovunque, tra stampe d’inzio ‘900, vasi cinesi e tappeti persiani. Vediamo capitelli hathorici da Dendera in giardino e porzioni di rilievi da Luxor o modellini di Medio Regno inseriti nelle pareti. Ma il principale luogo deputato all’antico Egitto, almeno fino a non molto tempo fa, è la “Stanza del Museo”, dove Gayer-Anderson esponeva gli oggetti che collezionava. Qui, tra ceramiche e vassoi metallici di epoca islamica, spicca la riproduzione del celebre gatto donato al British, mentre alle sue spalle c’è un’altra copia, quella del busto di Nefertiti oggi a Berlino; pochi altri reperti egizi sono esposti nella sala, come un sarcofago in cartonnage di XXI dinastia messo in un angolo (foto in basso a destra).

Il grosso della collezione egizia è stato disposto meno di 20 anni fa in due vetrine nella piccola “Sala dell’Antico Egitto” o “Sala faraonica”. Appare subito evidente l’interesse di Gayer-Anderson per gli oggetti di piccole dimensioni di ogni epoca: canopi, porzioni di rilievi, stele, frammenti di sarcofagi, maschere funerarie, scarabei, statuette e diverse figurine in terracotta di Arpocrate e Bes risalenti al periodo greco-romano. Decine di braccia, orecchie, piedi, corna, urei e barbe, invece, potrebbero essere i “pezzi di ricambio” che il collezionista usava per restaurare e rendere più appetibili le statuette in legno.

Per approfondire

  • Ikram S., “A Pasha’s Pleasures: R.G. Gayer-Anderson And His Pharaonic Collection In Cairo”, in D’Auria S. (ed.), Offerings to the Discerning Eye. An Egyptological Medley in Honor of Jack A. Josephson, Leiden-Boston 2010, pp. 177-186.
  • Warner N., Guide to the Gayer-Anderson Museum, Cairo 2003.
  • La visita virtuale: https://mpembed.com/show/?m=LCyv1zFUxiq&mpu=497
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“Egitto di Provincia”: i musei archeologici nazionali di Tarquinia, Cerveteri e Vulci

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Source: infoviterbo.it

Questa volta, più che occuparmi di un singolo museo, parlerò di un’intera area geografica e delle sue principali raccolte archeologiche in cui sono presenti anche reperti egizi: l’Etruria Meridionale. Tale scelta è dovuta dall’origine comune degli oggetti in questione, tutti provenienti dalle necropoli dell’Alto Lazio, tra le provincie di Viterbo e Roma. Come già spiegato in precedenza, infatti, non è così strano trovare scarabei, amuleti o altri pezzi faraonici nelle tombe etrusche, anzi. Nel cosiddetto “periodo orientalizzante” (VIII-VI sec. a.C.), le civiltà italiche cominciarono a diventare sempre più strutturate con l’avvento di nuovi classi sociali elitarie che, per ostentare ricchezza e potere, acquistavano veri e propri status symbol portati dall’Oriente dai mercanti greci e fenici.

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Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia

davNello splendido scenario del quattrocentesco Palazzo Vitelleschi (foto in alto), è esposta una delle più importanti raccolte di antichità etrusche al mondo. Il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia è stato fondato nel 1924 con la fusione di due collezioni ottocentesche, la comunale e quella privata dei conti Bruschi-Falgari, e poi è cresciuto grazie al frutto degli scavi archeologici nelle numerose aree sepolcrali della città, tra cui spicca la Necropoli dei Monterossi che è patrimonio UNESCO. Per quanto ci riguarda, esiste una stanza completamente dedicata ai rapporti dell’antica Tarch(u)na con il bacino del Mediterraneo. Qui si possono ammirare gli oggetti orientali comparsi nella città-Stato già alla fine dell’VIII secolo quando, con la cosiddetta “Età dei Principi”, anche Tarquinia completò il suo sviluppo urbano e intraprese floridi scambi commerciali con Greci e Levantini. In cambio di legno, metalli e derrate alimentari, arrivavano beni di lusso come le uova di struzzo (foto in basso a destra dalla “Tomba del Pettorale d’Oro”, necropoli dei Monterozzi, metà del VII sec.). Tra gli onnipresenti scarabei e piccoli amuleti, l’oggetto egizio più rappresentativo è la “Situla di Bocchoris”, contenitore rituale per l’acqua realizzato in faience e recante il cartiglio del faraone della XXIV dinastia (720-715 a.C.): il re Bakenrenef è condotto prima per mano da Horus e Thot (foto a sinistra) e poi è rappresentato tra Neith e ancora Horus, mentre nel registro inferiore prigionieri nubiani sono legati in un palmeto pieno di scimmie. Il vaso è stato scoperto in una tomba chiamata per l’appunto di Bocchoris anche se apparteneva a una donna morta intorno al 700-690. In ciò che rimaneva del corredo, si trovavano anche due pendenti in forma di Bes incastonati nell’argento e 45 amuleti in faience usati per una collana (foto in basso a sinistra).

http://www.tarquinia-cerveteri.it/museo-e-necropoli-di-tarquinia/museo

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Museo Nazionale Cerite

Anche la ‘location’ del museo di Cerveteri non è male: la rocca trecentesca dei principidav Ruspoli. La collezione qui è decisamente più piccola, ma può fregiarsi di capolavori dalla fama internazionale come il cratere e lakylix di Eufronio, finiti illegalmente negli USA e, dopo un contenzioso di decenni, restituiti all’Italia rispettivamente dal Metropolitan Museum di New York e dal J.P. Getty Museum di Malibu. Tuttavia, il simbolo scelto per il museo ceretano è un unguentario in faience in forma di riccio (foto a destra). Scoperto nella Tomba 20 (VI sec.) della Necropoli di Monte Abatone, questo piccolo contenitore spiega alla perfezione come il fenomeno dell’orientalizzante non comprendesse solo il commercio di oggetti realizzati in Egitto, Anatolia, Levante e Mesopotamia ma anche la loro imitazione. Il riccio, infatti, non viene dalla Valle del Nilo, ma è stato importato dall’isola di Rodi.

http://www.tarquinia-cerveteri.it/museo-e-necropoli-di-cerveteri/museo

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Museo Archeologico Nazionale di Vulci

digInfine, una breve menzione va fatta anche per il Museo Archeologico Nazionale di Vulci che si trova nel Castello dell’Abbadia, edificio dall’origine benedettina diventato dal XII secolo un palazzo fortificato a riparo dello strategico “Ponte del Diavolo” (III sec. a.C.). Nel 1975, lo Stato ha deciso di utilizzarlo per conservare i reperti provenienti dagli scavi dell’area urbana di Vulci e delle sue necropoli, ma l’attuale percorso espositivo risale solo al 2016. Nella sala dedicata alla “città dei morti”, è stato ricreato il corredo della Tomba G della Necropoli di Marrucatello (fine VIII sec.). L’oro e gli oggetti d’importazione come l’ambra collocano chiaramente la defunta nell’emergente aristocrazia; non mancano piccoli reperti egiziani come uno scarabeo in faience blu incastonato in un anello d’argento e due pendenti che rappresentano Horus in forma di falco e un’egida con la testa di Hathor.

http://www.archeologialazio.beniculturali.it/it/278/museo-archeologico-nazionale-di-vulci

 

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“Egitto di Provincia”: la collezione dell’Accademia dei Concordi di Rovigo (mostra “EGITTO RITROVATO. La Collezione Valsè Pantellini”, 14 aprile – 1 luglio 2018)

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È passato un anno esatto dall’ultimo articolo per “Egitto di Provincia”. Troppo. Per questo, trovandomi nei paraggi, non potevo non cogliere l’occasione di andare a Rovigo per vedere “EGITTO RITROVATO. La Collezione Valsè Pantellini”, mostra che si adatta alla perfezione allo spirito di questa rubrica. L’esposizione, infatti, è incentrata su una delle tante raccolte egizie formatesi nel XIX secolo grazie alle donazioni di ricchi viaggiatori e collezionisti colpiti dalla civiltà faraonica. E non è un caso che la curatela sia stata affidata, sotto il coordinamento del prof. Emanuele Ciampini (Università “Ca’ Foscari di Venezia) e della dott.ssa Paola Zanovello (Università di Padova), al team di EgittoVeneto, gruppo di ricercatori che da anni si occupa dello studio e della valorizzazione delle piccole collezioni egizie della regione.

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Source: egittoveneto.veneto.eu

Nella mostra, che si tiene dal 14 aprile al 1 luglio a Palazzo Roncale, è esposta una selezione degli oggetti di solito conservati dall’altro lato della strada, presso l’Accademia dei Concordi. Questo secolare istituto è sempre stato il fulcro della cultura della città, raccogliendo letterati, musicisti, filosofi e studiosi rodigini. Grazie alle donazioni dei soci, nella prima metà dell’800, qui si formò la Pinacoteca che, oltre ovviamente ai dipinti, comprende anche reperti archeologici tra cui spiccano quelli inviati dall’Egitto da Giuseppe Valsè Pantellini (1826-1890; foto a sinistra). Esiliato per la partecipazione ai moti insurrezionali del ’48, l’imprenditore si rifugiò al Cairo dove, tra 1878 e 1879, accolse la richiesta dell’allora presidente dell’Accademia Lorenzoni di inviare oggetti per la creazione di un museo egizio a Rovigo. L’egittomania in Europa era ormai galoppante e già erano nate le più importanti raccolte come quelle di Torino, Parigi, Londra, Berlino ecc. Così Valsè Pantellini spedì in Italia 5 casse di reperti, comprese le due mummie diventate protagoniste della mostra e di cui parlerò meglio dopo: Meryt e Baby. Altre antichità egizie vennero poi donate da Eugenio Piva, Lodovico Bassani e dalla famiglia Silvestri, ma è impossibile avere dati sull’origine dei pezzi, come d’altronde succede quasi sempre per le collezioni d’antiquariato senza contesto di scavo. In totale, con circa 500 unità, quella di Rovigo è la collezione egizia più grande del Veneto.

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Passando al percorso di visita della mostra, il piano terra è dedicato ai più piccoli con le illustrazioni di Sara Michieli che edulcorano l’aspetto delle due mummie con una forma pre-imbalsamazione (immagine a destra). Poi si va, saltando il piano nobile del palazzo, al secondo piano dove sono esposti gli oggetti. Premetto che non è possibile scattare foto e le immagini qui postate mi sono state gentilmente fornite dall’ufficio stampa gestito dallo Studio ESSECI.

La prima sala è dedicata agli elementi architettonici di Antico Regno con frammenti di pilastri iscritti provenienti da mastabe di V dinastia, ma anche con reperti più recenti come stele funerarie di Medio e Nuovo Regno e di Epoca Tolemaica. Nella seconda stanza, invece, si trovano tutti gli oggetti tipici di un corredo funerario egizio: amuleti, bronzetti, statuette in legno, collane, canopi, ushabti (particolare rarissimo quello dei ‘servitori’ di XXV din. con cesto portato sulla testa) e frammenti di sarcofago.

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Ma l’aspetto della mostra che ha avuto maggior riscontro mediatico è la possibilità di assistere in diretta al trattamento delle mummie da parte di Cinzia Oliva, restauratrice del Museo Egizio di Torino, e di altri esperti come gli investigatori della Polizia Scientifica del Triveneto. Affacciandosi nel laboratorio, infatti, a seconda dei giorni (vi consiglio quindi di controllare il calendario degli eventi sul sito web), si ha l’occasione di vedere con i propri occhi tutti i procedimenti volti allo studio e alla conservazione di Meryt, nome fittizio dato a una sconosciuta donna adulta, e di Baby, misterioso involucro di bende di lino che si pensava contenesse il corpo di un neonato (l’ipotesi è stata confermata dalla TAC effettuata il 15 giugno). Quest’ultimo/a era un regalo – e ancora presenta i nastri di cuoio – di Valsè Pantellini per l’amico Minelli che, a quanto pare, non gradì il ‘pacco’ e non lo scartò nemmeno.

Ad esempio, io ho avuto la fortuna di capitare durante le ultime misurazione dei medici dell’Università di Padova prima della spedizione dei due ‘pazienti’ all’Ospedale di Rovigo. Inoltre, era presente anche Claudia Gambino (Università Ca’ Foscari e EgittoVeneto) che ringrazio per la gentilezza con cui ha tolto ogni mia curiosità, mentre rimando voi tutti al sito della mostra e alla pagina Facebook del Progetto EgittoVeneto per ogni futuro aggiornamento sulle analisi effettuate ai corpi imbalsamati che saranno esposti al pubblico l’ultimo weekend di giugno al termine del restauro.

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“L’Egitto di Provincia”: la Centrale Montemartini di Roma (e Archeoracconto)

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Come spesso succede per questa rubrica, torno a parlare di Roma, città ovviamente ricchissima di musei e da sempre legata all’Egitto. Appartenente al polo espositivo dei Musei Capitolini e -neanche a farlo apposta- a una fermata di metro dalla Piramide Cestia, la Centrale Montemartini è un ottimo esempio di come si possa riconvertire al meglio, per scopi culturali, vecchie aree industriali dismesse, perché già la sede stessa diventa scopo di visita. Infatti, l’ex Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini, attiva dal 1912 al 1963, non è solo un semplice contenitore ma un piacevole connubio tra archeologia classica e industriale, in cui statue e mosaici si integrano alla perfezione con tubi, caldaie e gigantesche turbine. La seconda vita della struttura iniziò nel 1995, quando fu scelta per ospitare temporaneamente alcune sculture dei settori chiusi per restauro di Palazzo dei Conservatori  in Campidoglio; dieci anni dopo, completati i lavori, la Centrale è diventata sede museale permanente con i pezzi rimasti e altri aggiunti.

Tra questi, spicca un ritratto ellenistico (foto in alto) che, sul sito web ufficiale, viene annoverato tra i capolavori del museo. Scoperta nel 1886 in Via Labicana, la testa apparterrebbe a una principessa tolemaica acconciata come Iside, identificata da alcuni con la celebre Cleopatra VII. Egittizzante, invece, è uno splendido mosaico con scena nilotica (foto in basso) scoperto nel 1882 in Via Nazionale. La composizione musiva risale alla seconda metà del I sec. a.C., periodo in cui si diffusero a Roma rappresentazioni del genere; in particolare, ritrarrebbe sacerdoti intenti in un rito religioso in onore di Sobek.

Poi, se si escludono un busto di Antinoo -l’amante dell’imperatore Adriano divinizzato dopo essere affogato nel Nilo- e un’urna con due teste di Giove-Ammone, non ci sono altri reperti riconducibili all’Egitto. Infatti, il motivo per cui sono tornato a visitare questo stupendo museo non è stato per cercare una collezione egizia minore ma per partecipare ad #ArcheoRacconto, progetto ideato dalle amiche Stefania Berutti (Memorie dal Mediterraneo) e Marina Lo Blundo (Generazione di Archeologi) che prevede la visita di un’esposizione e la creazione di racconti, ovviamente a tema storico-archeologico, ispirati all’esperienza (per maggiori info vi rimando alla loro pagina Facebook). Nel secondo volume, quello appunto nato dalla visita alla Centrale Montemartini, c’è anche il mio racconto che riguarda la nostra Cleopatra VII e le sue disavventure con i Romani. Potete leggerlo, insieme a tutti gli altri lavori, scaricando gratuitamente l’ebook al link seguente:

http://www.memoriedalmediterraneo.com/wp-content/uploads/2017/06/Archeoracconto-2.pdf

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#SantiLumi17: suggestioni egizie nella Grecìa salentina

18882214_1350790328301818_7057049181631192744_n.jpgOrmai vi sarà familiare la mia attenzione – quasi patologica! – nell’individuare elementi che riconducano alla civiltà egizia in ogni luogo che visito. La rubrica “L’Egitto di provincia” ne è la riprova. In tal senso, troverei spunti anche andando su Marte (ah no, già fatto). Come vedrete, non è mancata occasione di confermare questa ‘tradizione’ nemmeno nel cuore del Salento, terra magnifica ma che, apparentemente, poco si prestava alla mia deformazione professionale.

Invece, invitato insieme a Stefania Berutti (Memorie dal Mediterraneo) e Marina Lo Blundo (Maraina in Viaggio) dall’amministrazione comunale di Corigliano d’Otranto (LE) per un educational tour nella Grecìa salentina, ho avuto molte piacevoli sorprese. L’iniziativa è stata organizzata nell’ambito di Santi Lumi – Festival dell’Inutile”, manifestazione fondata sul particolare background filosofico di Corigliano – che approfondiremo poi – e che vede incontri con filosofi, poeti, scrittori, giornalisti e musicisti nello splendido scenario del Castello de’ Monti.

Ma prima di partire con il racconto del viaggio nella terra d’Otranto, vorrei parlare dell’ultima tappa, una sorta di bonus track inaspettata che non faceva parte del giro prestabilito: il Tempio di Iside di Lecce.

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Purgatorium dell’Iseo di Lecce

Come ho avuto già modo di parlare più volte, Iside era una delle divinità più popolari a Roma e templi a lei consacrati erano fondati ovunque nell’Impero. Non fa eccezione il capoluogo pugliese dove, già alla fine dell’Ottocento, era stata ritrovata un’iscrizione dedicata alla dea e a Serapide. Ma solo nel 2006, durante i lavori di restauro di Palazzo Vernazza-Castromediano, sono stati scoperti resti databili al I sec. d.C. del santuario di Iside, riconoscibili dalla struttura architettonica e da alcuni oggetti come un oscillum (disco appeso tra le colonne) con le figure di Iside e Anubi, un sistro, una situla e un grande bacino di marmo con una dedica del mercante Tito Memmio Cinyps Tiberino, lo stesso dell’iscrizione trovata nel XIX secolo. Tuttavia, la scoperta più importante corrisponde al cosiddetto “purgatorium” (foto in alto), una vasca sotterranea a cui si accedeva tramite una scala scavata nella roccia e dove gli iniziati al culto misterico – compreso Paperofi! – ricevevano un battesimo simbolico con le acque del Nilo. Una vera rarità che ho potuto visitare grazie a Elisa e Delia di SwapMuseum che, fra l’altro, hanno organizzato un summer camp culturale incentrato sul digital storytelling per musei che si svolgerà anche presso il  Musa – Museo Storico Archeologico dell’Università del Salento, dove sono conservati proprio i reperti dell’iseo e un diorama che ne ricostruisce la struttura.

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Arco Lucchetti, Corigliano d’Otranto

Ma torniamo all’inizio. Corigliano d’Otranto è un piccolo comune appartenente alla Grecìa, l’ultimo baluardo della dominazione bizantina nel Sud Italia e dove si parla ancora il griko, un dialetto derivante dal greco.  Qui, passeggiando  lungo le stradine del centro storico, tra le modanature in pietra leccese consumate dal tempo, spesso si vedono iscrizioni sugli architravi di portali e finestre. Aforismi in latino e italiano (ma anche in greco ed ebraico), massime sapienziali, colte citazioni di autori classici e testi biblici testimoniano l’elevato livello intellettuale dei cittadini, soprattutto tra ‘500 e ‘600. Per questo, Corigliano è stato definito il “paese più filosofico d’Italia” e, in tempi decisamente più recenti, si è rivelato campo fertile per manifestazioni culturali come il Festival di Santi Lumi o il Giardino di Sophia. Non stupisce quindi che, in questa commistione di tradizioni occidentali e orientali, compaia Serapide nell’iscrizione della Torre dell’Orologio.

Poco lontano si trova Soleto, vera capitale storica della Grecìa e della sua tradizione religiosa orientale. Non è un caso che in paese ci sia l’unico edificio superstite del rito cristiano-bizantino, qui contrastato con la Controriforma: la Chiesa di Santo Stefano (XIV sec.). Con un effetto impattante simile a quello delle basiliche ravennati, la semplice facciata romanica non farebbe mai pensare agli affreschi gotici così vividi all’interno. I cicli pittorici sono veri e propri messaggi politici oltre che teologici, con scene tratte da vangeli apocrifi e interpretazioni ideologiche lontane dalla tradizione cattolica. Sulla parete destra, tra i vari santi rappresentati, c’è anche Antonio Abate (foto in alto al centro), eremita egiziano che, alla fine del III secolo, fu l’iniziatore del monachesimo cristiano. Ma a colpire è soprattutto la raffigurazione del Giudizio universale sulla controfacciata, in cui l’Arcangelo Michele (foto in alto a destra) pesa le anime proprio come nella psicostasia del capitolo 125 del Libro dei Morti. L’ispirazione alla mitologia egizia è incontrovertibile. Invece, poco più che una suggestione – o forse no – è la somiglianza tra Satana (foto in alto a sinistra) – l’unica figura in rilievo a voler ribadire la sua tangibilità – e Bes: entrambi avevano un aspetto mostruoso atto a spaventare (ma il dio egizio a fin di bene), rappresentati frontali, con le gambe divaricate per mostrare le dimensioni del sesso, barbuti e con tratti del volto animaleschi.

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Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, Galatina (ph. Fernando Russo)

Centro della canonicità latina, invece, era Galatina, a soli 2 km da Soleto, dove fu costruito uno dei massimi esempi di edilizia cristiana in tutto il Sud Italia, noto soprattutto per gli splendidi affreschi: la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria. La chiesa fu realizzata tra il 1369 e il 1391 per volere di Raimondello Orsini del Balzo che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, passò per il Sinai e prelevò in maniera piuttosto bizzarra una reliquia. Secondo la tradizione, infatti, si recò nel celebre Monastero di Santa Caterina per omaggiare il corpo della martire ma, baciandole la mano, pare le abbia strappato un dito con i denti… La falange – chissà di chi – è ancora incastonata in un reliquiario d’argento nel tesoro della basilica. La giovane santa egiziana avrebbe subito il supplizio della ruota dentata e poi sarebbe stata decapitata nel 305, dopo aver rifiutato di compiere sacrifici agli dèi pagani e di sposare l’imperatore. Per la corrispondenza del contesto alessandrino, del periodo storico, della morte violenta e di tratti personali (giovinezza, saggezza, cultura), alcuni storici l’hanno identificata con la filosofa neo-platonica Ipazia, ma non ci sono prove a riguardo.

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Pozzo di S.Paolo, Galatina

Sempre a Galatina, è uscito di nuovo l’egittologo che è in me visitando la Cappella di San Paolo. Qui, ogni 29 giugno, si recavano le “tarantate”, cioè le donne che, secondo il folklore locale, sarebbero state morse da ragni o serpenti. L’esorcismo iniziava in casa propria, dove complessi musicali suonavano a ripetizione lo stesso brano di pizzica inducendo la posseduta a ballare per ore, e si concludeva nella chiesetta con l’assunzione dell’acqua miracolosa del Pozzo di San Paolo (qui a sinistra). La tradizione dice che il santo di Tarso, protettore dal morso degli animali velenosi, sarebbe passato a Galatina durante il suo viaggio verso Roma e avrebbe lasciato in dono il suo potere curativo.

Così, la mente mi è andata subito alle cosiddette “Stele di Horus sui coccodrilli”, cippi o amuleti in pietra dura che, durante il Periodo Tardo (672-332 a.C.), si diffusero in Egitto proprio per lo stesso motivo. La forza protettiva delle stele era basata sulle capacità magiche del giovane Horus che, come la madre Iside, dominava animali pericolosi delle paludi quali serpenti, scorpioni e coccodrilli; tuttavia, l’efficacia dell’oggetto – come per il rituale di guarigione dal tarantismo – dipendeva dalla recitazione ciclica delle formule incise e dall’acqua che gli veniva versata sopra per acquisire peculiarità taumaturgiche.

Il tour ovviamente comprendeva anche Otranto, il comune più orientale d’Italia. Quest’apertura del porto verso est si percepisce in diverse influenze nascoste. Immagini fortemente evocative ed enigmatiche si trovano nella Cattedrale di Santa Maria Annunziata, famosa in tutto il mondo per l’impressionante mosaico pavimentale di Pantaleone (1163-1165). In un turbinio di figure bibliche, personaggi storici e bestie medievali (anche sfingi), l’Albero della Vita attraversa tutta l’esperienza umana, dal peccato originale al giudizio universale. In quest’ultima sezione, si può vedere un altro esempio di psicostasia con l’Arcangelo Michele (foto in alto a sinistra). Nella cripta, invece, si trova un piccolo pezzo d’Egitto con alcune colonne di riuso in granito d’Assuan.

A questo punto, pensavo che non ci fossero più possibilità di trovare spunti utili al mio blog; e invece… l’egittomania si è fatta viva perfino nel giro tra alcune delle realtà artigianali tradizionali della zona che sono diventate aziende leader nel loro settore ed esportatrici in tutto il mondo. Ad esempio, i Fratelli Colì, produttori di ceramica fin dal 1650, hanno scelto un geroglifico (una rivisitazione del segno A9 della lista di Gardiner) per il logo di una determinata pirofila senza piombo; invece, tra gli allestimenti più apprezzati di Mariano Light, creatori di luminarie e scenografie per feste ed eventi, compare un progetto ispirato al film “Stargate” e realizzato nel 2014 a Scorrano (LE).

 

 

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“L’Egitto di Provincia”: Museo Stibbert, Firenze

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A Firenze, l’Egitto non si trova solo nel Museo Archeologico Nazionale che possiede una delle più importanti collezioni egizie d’Italia e non solo. Fuori dai consueti percorsi turistici, esiste un vero e proprio gioiellino che meriterebbe di essere visitato per respirare quell’atmosfera ottocentesca che ha originato molte delle raccolte che ho descritto in questa rubrica: il Museo Stibbert. Il museo prende il nome da Frederick Stibbert (1838-1906), eclettico collezionista di origini inglesi – ma nato e morto nella città toscana – che spese una buona parte del patrimonio familiare per raccogliere compulsivamente circa 50.000 oggetti. In particolare, la sua attenzione si rivolse verso armi e armature europee, arabe, indiane e giapponesi dal XV al XIX secolo che costituiscono uno dei più importanti insiemi del genere al mondo. La grandissima mole di materiale acquistato – disposta con un preciso ordine museologico che prevede anche manichini realizzati ad hoc per esporre costumi e corazze – ha costretto Stibbert perfino a far costruire un annesso all’allora piccola villa sul colle Montughi (centro-nord di Firenze; ancora oggi sede del museo da quando fu ceduta, secondo testamento, alla città per essere aperta al pubblico) e, come vedremo, ha letteralmente relegato la collezione egizia in un angolino.

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Un personaggio del genere non poteva di certo restare immune all’ondata di egittomania che stava investendo l’Europa dopo la spedizione napoleonica in Egitto (1798-1801) e quella franco-toscana di Champollion e Rosellini (1828-29), co-finanziata dal granduca Leopoldo II. D’altronde, in tutta Firenze cominciavano a vedersi architetture e decorazioni dal gusto neo-egizio; così, tra il 1862 e il 1864, Stibbert – spinto anche da simbologie esoteriche derivanti dalla sua affiliazione alla massoneria – si fece costruire dall’architetto Giuseppe Poggi un tempietto di ispirazione nilotica nel parco della villa (immagine in alto). La piccola cappella si sviluppa su una penisola in un laghetto artificiale che rappresenta il Nilo ed è decorata da pseudogeroglifici, figure di faraoni, statue in terracotta di sfingi e leoni, colonne papiriformi e perfino un obelisco.

Nella seconda sala del museo, invece, si trova la piccola collezione egizia di una ventina di reperti che, come anticipato, sono posti in un sottoscala! Lo spazio poco illuminato è in gran parte occupato sulla destra dai sarcofagi di Iretiru (“Signora della casa” e figlia di un Profeta di Amon, XXV-inizi XXVI din.) e di Nespasefy (“Profeta di Montu”, XXV-XXVi din.; da notare la rarità nell’uso del verde per il volto) e sulla sinistra dal coperchio di sarcofago di Pakharu (per maggiori informazioni, si legga il commento a questo articolo di malaspina82). Il resto degli oggetti si trova su una base nell’angolo più buio: due vasi canopi in calcare di Epoca Tarda (Qebehsenuef, testa di falco per contenere l’intestino, e Imsety, testa umana per il fegato); 7 scarabei di diversi materiali databili tra II Periodo Intermedio e Nuovo Regno; una gamba di sbagello in legno a forma di zampa di leone; un bronzetto tardo di Osiride; due occhi da intarsi in rame, calcite e ossidiana; 6 ushabti in faience di Epoca Tarda e tolemaica, alcuni dei quali con riferimenti in altri musei (ad esempio, il nome di Psametico figlio di Merneith, “Sovrintendente al computo della tavola reale” durante la XXVII dinastia, è presente in altre statuette conservate al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, Leida, Cairo e Boston; per un accurato studio di questi ushabti: Rosati G., The shabtis of Psamtek, son of Mer(et)-Neith: additional material for their study, in GM 212, Göttingen 2007, pp. 93-100). Tutti gli oggetti sono pubblicati in: Del Francia P.R., Guidotti M.C., Stibbert e l’Egitto, in “Museo Stibbert Firenze 3: Frederick Stibbert. Gentiluomo, collezionista e sognatore”, Firenze 2000.

http://www.museostibbert.it/

Non potendo scattare foto decenti, ho preso le immagini di alcuni reperti del museo dal sito del Progetto OSIRIS (osiris.beniculturali.it):

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“L’Egitto di Provincia”: Museo Archeologico Paolo Giovio, Como

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.Dopo mesi, torna finalmente “L’Egitto di Provincia”, la rubrica in cui descrivo le piccole collezioni egizie sparse per l’Italia e non solo. Questa volta, però, lascio la tastiera a un’altra persona perché si parlerà di un museo che non ho ancora visitato. L’autrice dell’articolo è Jessica Lombardo, una mia cara collega con cui ho condiviso gli studi universitari a Pisa, uno scavo a Luxor e il conseguente travagliato ritorno in patria (eravamo finiti nel bel mezzo della “Rivoluzione di gennaio” del 2011)! Attualmente, Jessica si occupa di percorsi guidati e didattica in alcuni musei archeologici della Lombardia.

Buona lettura!

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Il Museo Civico Archeologico di Como nasce poco tempo dopo l’unificazione d’Italia, nel 1861. I reperti raccolti in tale occasione sono oggi esposti presso Palazzo Giovio che fa da cornice a una  sequenza di collezioni, tra cui quella egizia, che testimoniano la passione per l’antico, protagonista del 19° secolo. Insieme a reperti preistorici, protostorici,  mesopotamici, precolombiani, greci e romani, una piccola ma interessante collezione egizia giunse qui nel 1905, anno della scomparsa, a 85 anni, del collezionista di Cantù Alfonso Garovaglio. La sua passione per l’archeologia lo condusse, come di consueto accadeva a quei tempi, a intraprendere un viaggio in Egitto nel 1869 in compagnia dell’amico e senatore Pippo Vigoni. Il viaggio fruttò alla collezione di Alfonso Garovaglio diversi pezzi, da lui selezionati e raccolti in quanto apparsi rari, importanti o semplicemente curiosi ai suoi occhi di europeo. Di essi non abbiamo purtroppo informazioni circa il luogo di ritrovamento o la modalità di acquisizione: in quanto privi di contesto, gli oggetti sono dunque da classificarsi come di “provenienza sconosciuta” (ad esclusione di alcuni rarissimi casi, come il frammento di faience n°A7, accompagnato dalla dicitura “Dendera 1869”).

img_4731Un caso a sé è costituito dal sarcofago in cartonnage (immagine a sinistra) e dalla relativa mummia della defunta Isiuret, acquisiti dal Garovaglio nel 1887: i reperti erano stati precedentemente conservati con scrupolosa cura dalla famiglia di Baldassarre Valerio, il quale li aveva a sua volta ricevuti in dono nel 1819 dal Khediveh d’Egitto Mohammed Ali. Nonostante il dono fosse accompagnato dall’indicazione “una di cinque [mummie] che egli ha fatto estrarre dalle Piramidi di Menfi”,  pare chiaro che si debba fare riferimento ad un ritrovamento di area tebana in base a titoli evidentemente significativi di quel contesto, quali:

  • Suonatrice di sistro di Amon-Ra (titolo attestato a partire dalla XXII dinastia);
  • Cantatrice del coro di Mut, la Grande, la Signora di Asceru;
  • la venerabile Signora della Casa (l’attributo “venerabile” è attestato in questa titolatura soprattutto durante la XXII dinastia;
  • Balia di Khonsu fanciullo.

Oggi una ricostruzione a grandezza naturale di Isiuret sorveglia la collezione da un angolo della stanza. Le vetrine circostanti testimoniano il gusto del collezionista, maggiormente attratto dall’aspetto religioso-funerario della cultura egizia: vasi canopi, ma soprattutto ushabti, amuleti, statuette di divinità che non scarseggiano certo in quanto a numero di esemplari (testimoni di una produzione “seriale”), ma in quanto a dati circa la provenienza e l’originario contesto archeologico e storico, mancanza alla quale purtroppo è difficile oggi sopperire. Alla luce di questi fatti, la collezione è stata disposta tenendo conto della destinazione d’uso degli oggetti, della loro funzione e del loro ordinamento cronologico, offrendo così inoltre al visitatore uno strumento utile di didattica e di apprendimento.

Jessica Lombardo

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“L’Egitto di Provincia”: il Museo Archeologico Nazionale e il Museo Archeologico di Capo Colonna

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Source: mycalabria.it

Come avevo anticipato, questo sarebbe stato un articolo fuori dai normali schemi della rubrica “L’Egitto di Provincia” perché scritto dopo aver già parlato di persona a Crotone della piccola collezione di oggetti egizi ed egittizzanti conservati presso i musei della città. Così, qui di seguito, riporterò un breve riassunto degli argomenti trattati durante l’incontro L’Egitto a Crotone, organizzato lo scorso 18 giugno grazie alla dott.ssa Margherita Corrado, archeologa e referente locale del FAI.

DSCN2598.JPGIl Museo Archeologico Nazionale di Crotone espone reperti che illustrano la millenaria storia della città con maggiore attenzione, ovviamente, verso il periodo magno-greco. Il museo è stato fondato nel 1968, dopo che le vecchie collezioni del Museo Civico erano passate allo Stato. Tra gli oggetti del nucleo originario, ci sono anche due ushabti in faience di Epoca Tarda (foto a sinistra) che appartenevano al marchese Eugenio Filippo Albani, sindaco di Crotone e collezionista di antichità grazie al quale venne istituito il Civico nel 1910. Proprio perché acquistate nel mercato antiquario, le statuette non sono accompagnate da dati sul contesto di ritrovamento.

Diverso discorso va fatto per tutti quei pezzi scoperti in scavi nell’area del crotonese e riferibili al Periodo orientalizzante (VIII-VI sec. a.C.) o all’epoca romana. La maggior parte proviene dal Tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna, uno dei più importanti santuari della Magna Grecia dall’età arcaica fino a quella ellenistica. In particolare, nel cosiddetto Edificio B, sono stati ritrovati diversi scarabei e una statuina di ariete utilizzati come ex voto alla dea. Tra questi, il più interessante è senza dubbio uno scarabeo in faience (vedi sotto) che presenta un crittogramma acrofonico, cioè un vero e proprio rebus che ‘nasconde’ il nome di Amon. Altre offerte egizie o egittizzanti individuate nel tempio, anche per epoche successive, sono conservate nel nuovo Museo Archeologico di Capo Colonna vicino all’area archeologica: è il caso di una statuina in faience di leone, uno scarabeo e un piede di braciere che rappresenta Bes-Sileno.

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Dal Tempio di Apollo Aleo a Cirò Marina, invece, proviene una testa di una statua marmorea che potrebbe appartenere ad Arpocrate, Horus bambino, una delle divinità egizie più apprezzate dal mondo romano. Tuttavia, la frammentarietà del pezzo e le somiglianze con Eros ne rendono meno sicura l’identificazione. Ma il reperto più importante della raccolta è la Stele di Horus sui coccodrilli (immagine in basso), trovata casualmente in un cantiere nei pressi dell’ospedale civile e finita, attraverso il mercato nero, al Museo Egizio di Milano. Solo grazie al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, la stele è tornata a ‘casa sua’ nel 2012 e da sabato, proprio in occasione della conferenza, è esposta nel Museo Nazionale. Si tratta di un piccolo amuleto in basalto, databile tra la fine della XXX dinastia e l’inizio del periodo tolemaico (seconda metà del IV sec.), completamente ricoperto di figure tutelari e di testi magici che servivano a proteggersi dagli animali velenosi che, come si vede in primo piano, Horus stringe tra le mani.

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Sist L., Una stele di “Horo sui coccodrilli”, in OA 22 (1983), p. 252

Per le foto degli altri oggetti: https://www.facebook.com/DjedMedu/photos/?tab=album&album_id=1045097255537795

Il servizio del TGR Calabria che parla della conferenza (min. 16:38): http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-065b22d3-428f-4df1-96b7-6e6c742f314c.html#p=

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