A) mummia durante l’analisi CT; B) un’immagine fotografica della mummia; C) CT assiale con particolari del cranio; D) CT sagittale con dettagli dell’intero corpo; E) esempio di ricostruzione 3D
Uno studio multidisciplinare ha acquisito interessati informazioni da una mummia di gatto “toscana”, confermando un dato ormai assodato: i felini non erano così intoccabili in Egitto come la gente pensa. La mummia fa parte della piccola collezione egizia del Museo Missionario Etnografico Francescano di Fiesole, formatasi dal 1923 grazie ad alcune donazioni fatte al Convento di San Francesco, in particolare dal celebre egittologo Ernesto Schiaparelli, direttore della Sezione egizia del Museo Archeologico Nazionale di Firenze (1881-1893) e poi del Museo Egizio di Torino (1894-1928). Rimando comunque all’articolo di Julie Santoro su questo blog per approfondire la storia della collezione.
Lo studio è stato portato avanti da un team composto dai radiologi Roberto Carpi e Chiara Zini e dal tecnico di radiologia Nicolò Bechini (AUSL Toscana Centro), dal fisico Andrea Barucci (Istituto di Fisica applicata “Nello Carrara”- CNR Firenze), dalla storica della medicina Donatella Lippi (Università di Firenze). Non è stato necessario sbendare il gatto, ma si è proceduto con un’autopsia virtuale non invasiva grazie alla TAC, individuando alcune fratture alle vertebre cervicali e alle ossa delle zampe. La causa di queste lesioni non è stata ancora stabilita con certezza, ma, come ho anticipato, studi precedenti su altre mummie di gatto hanno evidenziato come gli animali fossero allevati nelle vicinanze dei santuari dedicati alla dea Bastet, uccisi appositamente con la torsione del collo o con colpi sul cranio, mummificati e venduti ai fedeli come ex voto da lasciare nei templi.
Il progetto è appena iniziato e punta ad acquisire ulteriori dettagli, come ad esempio la razza, l’età, il sesso dell’animale, la presenza di materiali di riempimento, grazie ad altri strumenti e tecniche all’avanguardia.
Copyrigh foto: Museo Etnografico Missionario del Convento di San Francesco a Fiesole, IFAC-CNR, Università di Firenze, Fondazione Santa Maria Nuova ONLUS, AUSL Toscana Centro
Esempio di ricostruzione 3D a partire dai dati TC. In evidenza alcuni particolari dello scheletro
Fig. 1 – DEM 298.19.004, credits: Anne Austin, University of Missouri—St. Louis
Di Flavia Bonaccorsi Micoevich
Il sito di Deir el-Medina, conosciuto per essere stato il villaggio operaio durante il Nuovo Regno impegnato nella costruzione delle tombe faraoniche della Valle dei Re, è da sempre una fonte impagabile di informazioni riguardanti la vita comune durante il lungo periodo in cui è stato abitato, dalla XVIII alla XX dinastia (1543-1078 a.C.). Ne facevano infatti parte circa 500 persone, comprese le famiglie dei lavoratori, e vide la crescita di una necropoli altamente sviluppata al pari del ceto più abbiente.
Proprio tale necropoli è stata nuovamente indagata durante la campagna archeologica dell’IFAO (Istituto Francese di Archeologia Orientale del Cairo) svolta tra il 2019 e il 2020 e, tra i ritrovamenti più significativi, sono stati indicati dalla bioarcheologa Anne Austin (Saint Louis University, Missouri) dei resti femminili che presentano dei tatuaggi estremamente articolati e significativi per gli elementi che rimandano al parto, riscontrati anche su tre figurine analizzate dall’egittologa Marie-Lys Arnette (Johns Hopkins University, Baltimora).
I due resti trovati appartengono a due donne verosimilmente di mezza età. La Austin ha stimato che al momento della morte una avesse circa 52 anni mentre l’altra 62. Purtroppo, lo stato di conservazione non è ottimale e per ora non possono essere fornite delle risposte più specifiche a riguardo.
Ciò che rimane della prima donna consiste nell’osso dell’anca sinistra che presenta ancora la pelle proprio nella zona tatuata ed è stato trovato insieme a corredi funerari, gioielli e altri resti umani dentro la tomba TT 298. Della seconda donna, invece, si conserva la parte inferiore del busto fino al ginocchio sinistro, scoperta nel pozzo funerario (P1164) collegato alla tomba TT 356.
I loro tatuaggi sono stati individuati grazie agli infrarossi e sono posizionati entrambi nella zona lombare. L’analisi della pelle ha rivelato che il colore scuro utilizzato è diffuso nel derma: ciò spiega che era impossibile da rimuovere, escludendo l’ipotesi di un pigmento a henné, e che era stato sicuramente effettuato prima della morte. Pertanto, viene affermato con certezza che siamo davanti a dei tatuaggi, oltretutto strutturati in modo molto particolare.
Il tatuaggio impresso sull’anca della prima donna (DEM 298.19.004, fig.1) consiste in una fascia centrale con un motivo geometrico a losanghe, chiusa lateralmente con quattro linee verticali e con due serie lineari di puntini sia sopra che sotto. Esternamente alla fascia è disegnata la figura stilizzata del dio Bes, accovacciato e con le mani poggiate sui fianchi. Accanto a lui un’immagine interpretata come una ciotola con sopra un cono di grasso profumato. Ponendo come riferimento gli studi condotti su altri tatuaggi si può desumere che la scena fosse speculare anche sulla parte destra, apparendo come nella ricostruzione offerta dal team della Austin (fig.2).
La seconda donna riporta una fascia con un motivo a zig-zag, una serie di puntini nella parte sottostante e, a chiusura laterale, un bouquet floreale con accanto uno stambecco (fig.3). La zona centrale della fascia è sormontata da un occhio udjat e da quella che potrebbe essere un’immagine stilizzata di Bes stante con corona di piume in testa, ma purtroppo questa parte è di difficile interpretazione a causa delle cattive condizioni di conservazione. Nonostante ciò, questa volta la decorazione tatuata è parzialmente intuibile anche sulla parte destra della schiena, confermando la simmetria del disegno che avrebbe dovuto apparire come nella ricostruzione proposta (fig.4).
Da questi tatuaggi emergono già dei particolari iconografici che riconducono in modo piuttosto evidente al mondo della maternità. Infatti, la ciotola che contiene il grasso profumato presente sulla prima donna è un tipo di immagine che spesso è stata trovata su ostraca locali legati al parto, ma ancora più interessante è probabilmente la presenza dello stambecco sulla seconda donna. Nell’immaginario egiziano antico, questo animale era in connessione con il tema della fecondità e della maternità, come la rappresentazione della mamma stambecco con il suo piccolo o ancora l’iconografia attestata del Nuovo Regno di Bes che allatta un bambino sorreggendo uno stambecco sulle spalle. Un altro legame con il tema della gestazione si può trovare in Siria e Nubia, regioni che venivano rappresentate nei rituali di nascita, post parto e durante le celebrazioni hathoriche. In ultimo, lo stambecco ricopriva anche un ruolo di incitamento erotico basato sul suo impeto sessuale, venendo utilizzato per esortare la fertilità.
Le tre statuine tatuate
Delle tre statuine analizzate dalla dottoressa Arnette, per le prime due è più opportuno parlare di “ritrovamento”: di entrambe non si conosce il contesto di provenienza più preciso di Deir el-Medina e che furono rintracciate durante missioni dell’IFAO di metà anni ’50 per poi essere conservate nei magazzini semplicemente come “materiale etnografico” e “figure umane”. La terza, invece, è stata scoperta nel 2004 in prossimità del Grand Pitus, una fossa vicina al tempio di Hathor riempita da un accumulo di materiale di vario genere, tra cui anche oggetti che, con ogni probabilità, venivano dallo stesso tempio.
Tutte e tre le figurine sono state modellate a mano, come quasi sempre succedeva in contesti privati al contrario delle officine fittili, incentrate sulle produzioni seriali per mezzo di stampi. Pertanto, la loro circolazione era più limitata ed è per questo che ancora non abbiamo una documentazione iconografica sufficiente per poter definire uno stile comune nella popolazione del tempo.
Due statuine hanno il ventre prominente, il ché ci fa pensare rappresentino donne incinte, mentre la terza ha una pancia normale ma la zona pubica piuttosto marcata, conferendole un carattere sia erotico che fertile. Tutte e tre le figurine hanno in comune una decorazione a fascia con motivo a galloni nella zona lombare analoga a quella dei resti prima esaminati; l’ornamento con galloni è stato interpretato dall’egittologa come un riferimento all’acqua o a un ambiente acquatico se associato a piante (come per una delle statuine che riporta anche dei fiori di loto stilizzati molto simili a quelli tatuati sulla mummia scoperta nel 2016) e che trova riferimenti per scopo e posizione nei papiri medici. Il papiro Ebers, ad esempio, è una delle principali fonti per quanto riguarda la pratica ginecologica in antico Egitto e presenta la descrizione del dolore del parto come bruciante e localizzato nella parte bassa della schiena. Quale uso migliore dell’acqua fresca se non per alleviare la sofferenza della partoriente, considerando che il refrigerarsi veniva consigliato dai medici anche per fronteggiare gli spasimi mestruali. Senza tralasciare, oltretutto, quanto spesso venivano eseguiti rituali con acqua per far sì che acquisisse proprietà curative quando entrava in contatto con oggetti considerati magici che spesso recavano formule impresse che si “attivavano” proprio con il passaggio del liquido.
Altra particolarità che si può riscontrare sulle statuine forgiate a mano e non su quelle delle officine è la presenza di serie di puntini intorno al collo, come i sette impressi in una delle figurine studiate. L’interpretazione di questi puntini è molto varia. Da una parte si pensa che rappresentino una tipologia di collanina guaritiva a sette nodi ai quali erano legati dei piccoli pezzi di papiro con funzione “magica”; da un’altra si suppone possano essere riconducibili a talismani che, una volta indossati dalla madre, avrebbero aiutato la sua fecondità e protetto non solo lei ma anche la gravidanza e il nascituro. In modo forse un po’ forzato per scarsità di riferimenti, è stata avanzata anche l’idea che i puntini corrispondano a reali tatuaggi che venivano impressi durante rituali protettivi/guaritivi e che sulle statuine venissero emulate tali pratiche.
La statuina con i puntini sul collo è conservata fino alle gambe e su entrambe le sue cosce è disegnato Bes accovacciato con le mani sui fianchi e con una corona a tre piume, tipica rappresentazione del dio a partire dalla XVIII dinastia. La sua immagine su cosce femminili si ritrova su molteplici oggetti cosmetici, ostraca e dipinti murari sempre del Nuovo Regno, indice ancora una volta di un’usanza comune relativa alla sua presenza su questa specifica parte del corpo.
Bes, il dio che proteggeva le madri e i loro figli
Il fatto che il dio Bes venga proposto così frequentemente in contesti domestici o manufatti legati alla vita quotidiana non è per nulla casuale e si contano numerose testimonianze provenienti sia da Deir el-Medina che da Amarna.
Bes – dal corpo tozzo e grottesco, spesso con criniera e orecchie leonine, altre volte con il ventre e il seno sporgente, altre ancora con una corona di piume in testa come abbiamo già visto – lo troviamo proposto per tutto il Nuovo Regno in case private, dalle pitture parietali ai particolari del mobilio di camere da letto, dai manici degli specchi a oggetti per la cosmesi.
Insieme alla dea Taweret e in alcuni casi anche con Hathor, era tra le divinità più popolari in Egitto, anche se non vantava un culto formale. La sua diffusione ha origini molto remote nella storia egizia e il suo precursore fu il dio Aha risalente al Medio Regno; Aha e Bes venivano spesso associati a simboli apotropaici come l’occhio udjat (ricordiamo l’iconografia del tatuaggio della seconda donna studiata dalla Austin), l’ankh – il simbolo della vita – e il geroglifico sa, “protezione”.
Il suo nome, infatti, potrebbe provenire dalla parola besa che significa “proteggere” ed è collegata al ruolo che svolgeva nella vita quotidiana degli antichi egizi come divinità tutelare delle gravidanze, dei parti e dei bambini appena nati, tanto da essere indossato in forma di amuleto dalle donne incinte e nominato in vari incantesimi da pronunciare per alleviare i dolori del travaglio.
Tatuaggi protettivi: pratica diffusa o casi isolati?
Per gli antichi Egizi l’evento del parto era estremamente importante perché avvolto dall’aura mistica del generare una nuova vita in una società votata al mantenimento della stessa, sia terrena che ultraterrena; ciononostante, tanto la gravidanza quanto il parto sono stati rappresentati raramente nell’arte figurativa formale, a eccezione di alcune scene di nascita divina e dei re. Come abbiamo visto, invece, in ambito privato, le immagini di donne in stato interessante diventano più frequenti e sovente le figure femminili tengono una o entrambe le mani sul ventre, in un atteggiamento materno e intimo. Di conseguenza, anche la venerazione delle divinità connesse al parto corrispondeva alla sfera privata, con la presenza di altari domestici per assicurare la protezione, continuità e prosperità della famiglia ma anche con offerte votive provenienti principalmente dai santuari di Hathor che, con ottima probabilità, erano richieste di aiuto divino per riuscire ad avere un bambino.
Bisogna necessariamente ricordare che, per quanto la medicina egizia fosse altamente sviluppata, si parla di epoche in cui le gravidanze potevano avere esiti drammatici tanto per le madri quanto per i neonati e lo studio di varie mummie di donne ci conferma la frequenza di complicazioni. I papiri medici dedicati alla ginecologia dimostrano la dedizione rivolta alle gestanti e alle cure post-natali, anche se l’evento specifico del parto sembra essere gestito principalmente da ostetriche e balie sotto la protezione della tetrade divina, ancora una volta totalmente femminile, composta da Iside, Nefti, Hekat e Meskhenet.
Per quanto illustrato fino ad ora circa lo studio parallelo condotto da Anne Austin e Marie-Lys Arnette, i tatuaggi analizzati sui resti femminili e sulle statuine sono riconducibili, con più che discreta certezza, all’iconografia diffusa durante il Nuovo Regno relativa alla protezione delle partorienti e della loro prole. A questo punto occorre ulteriormente ricordare, come illustrato ad esempio nel papiro Smith, che il trattamento medico avveniva su due fronti, tangibile e intangibile, che “lavoravano” in modo sinergico: la descrizione del caso era seguita da una ricetta che poteva essere accompagnata da un incantesimo da pronunciare per fornire la forza d’azione alle parole scritte e dall’utilizzo di amuleti o immagini considerati evocativi.
Il numero di figurine femminili con la parte bassa della schiena decorata è notevole, spesso con l’aggiunta di cinturine in conchiglie di ciprea per aumentarne il potere fertile. L’alta similitudine tra le decorazioni fittili e quelle dei tatuaggi studiati, la ricorrenza di elementi specifici e l’evidenza del culto in ambito domestico a Deir el-Medina potrebbero essere indici evidenti di un tipo di usanza protettiva dei tatuaggi relativa al Nuovo Regno, almeno nell’area tebana, scelta però più dalle ostetriche che dalle partorienti stesse.
Sebbene occorreranno ulteriori ritrovamenti di tatuaggi per poter confermare la diffusione della pratica tatuatoria relativa al parto, appare chiaro come, già in tempi così remoti, imprimere un’immagine sulla propria pelle era un atto carico di significato, esattamente come succede oggi.
Questo studio potrebbe essere sfruttato anche come slancio di riflessione verso ciò che decidiamo di tatuarci sul nostro corpo, dato che la figurazione scelta potrebbe essere motivo di indagine o fonte di risposte per i ricercatori futuri. E, perché no, potrebbe ancora indurre la benevolenza di qualche divinità antica.
Bibliografia e Sitografia
Allen, J. P., Mininberg, D. T., The Art of Medicine in Ancient Egypt, New York, 2005.
Quirke, S., Exploring Religion in Ancient Egypt, Chichester, 2015.
Robins, G., Women in Ancient Egypt, Cambridge, 1993.
Wilkinson, R. H. , The Complete Gods and Goddesses of Ancient Egypt, New York, 2003.
Ancora importanti informazioni egittologiche grazie all’applicazione della tomografia computerizzata nell’analisi dei corpi imbalsamati. Come nel caso della mummificazione indiretta di un feto di cui si era parlato lo scorso mese, si tratta di bambini e, nuovamente, di un unicum scientifico.
Albert Zink, direttore dell’Istituto per gli studi sulle mummie di Bolzano (celebre per lo studio e la conservazione del corpo di Ötzi), è tornato ad offrirci sorprendenti risultati diagnostici per mezzo della TAC che già nel 2012 gli aveva permesso di rintracciare sul corpo di Ramesse III la mortale ferita alla gola, causa inequivocabile della sua morte. Questa volta il suo studio si è concentrato sulle mummie di 21 bambini, ben conservate, risalenti al periodo tolemaico e al periodo romano, riscontrando la morte per setticemia causata da infezioni. In particolare, il secondo caso analizzato ha rivelato un particolare inaspettato e finora inedito: una ferita fasciata sotto gli strati di lino dell’imbalsamazione.
Il corpo in questione, trovato nel Faiyum, ad Hawara, presso la “tomba di Alina”, appartiene a una bimba con età stimata tra i due anni e mezzo e i quattro, vissuta tra il I e il II secolo d.C. L’analisi tomografica ha mostrato un rigonfiamento della parte inferiore della piccola gamba sinistra e pus essiccato nei tessuti molli in concomitanza con quella che è stata identificata come una ferita, proprio in corrispondenza con il bendaggio “anomalo” (immagine in alto). La presenza del pus si è rivelata la chiave per riconoscere l’antica medicazione: secondo lo stesso Zink, è molto probabile che una diagnosi simile non sia mai stata effettettuata prima di oggi per via dei “limiti” dei sistemi d’indagine che, in assenza di materiale purulento visibile, potrebbero aver portato i ricercatori a confondere un vero e proprio medicamento con un semplice bendaggio più spesso del solito.
L’importanza della scoperta è evidente perché fornisce un esempio di messa in pratica di quelle tecniche che, nei papiri medici, sono dettagliatamente illustrate proprio per curare lesioni cutanee infette. Inoltre, per il team di Zink è plausibile che l’infezione della ferita sia continuata anche dopo la morte della bambina e che il bendaggio sia stato applicato dagli imbalsamatori nel tentativo di preservare al meglio il corpo della piccola per l’aldilà.
Occorrerebbero ulteriori analisi per poter verificare l’eventuale presenza di unguenti, balsami o natron utilizzati per placare l’infezione, ma ciò comporterebbe la necessità di sbendare la mummia – pratica che sappiamo bene non essere più privilegiata – oppure di effettuare un prelievo di campione dalla zona interessata. Per questo, pare che il team stia ancora valutando la seconda opzione per preservare il corpo al meglio. Resta comunque un significativo passo in avanti nella comprensione della vasta pratica medica egizia, che siamo certi che ci offrirà molte altre soprese.
Il 2021 è stato un anno molto proficuo per la ricerca egittologica con numerose e importanti scoperte. Tra le più emozionanti dobbiamo considerare quella che, ad oggi, risulta un unicum: la prima mummia di una donna incinta.
Come abbiamo già visto per l’analisi del corpo di Amenofi I, la tomografia computerizzata risulta un mezzo fondamentale di indagine diagnostica per le mummie egizie, offrendo informazioni che non ledono in alcun modo la loro integrità o quella dei loro sarcofagi, e realizzando vere e proprie autopsie virtuali. Ma tali informazioni possono sorprendentemente ribaltare situazioni date per certe e questo è proprio il particolare caso della nostra mummia.
Il sarcofago del sacerdote Hor-Djehuty – il cui nome è riportato anche nel cartonnage interno – arrivò nel Museo Nazionale di Varsavia (dove tutt’oggi si trova) nel 1917, presumibilmente dalla necropoli tebana. Ma sarà solo ben 99 anni dopo, nel 2016, che la mummia al suo interno verrà analizzata, lasciando i ricercatori assolutamente stupiti.
Lo studio successivo (i cui risultati sono stati pubblicati lo scorso aprile), svolto dal Warsaw Mummy Project e dalla Polish Academy of Sciences, non solo ha rivelato che il sesso del defunto è femminile, ma che ha anche attestato che la donna era al settimo mese di gravidanza, diventando il primo esempio di mummia incinta finora noto.
Le analisi hanno fatto emergere che la mummificazione riservatale è di alta qualità e le uniche deturpazioni che riporta il bendaggio possono essere collegate a tentativi di furto degli amuleti di cui era corredata oppure al trasferimento nel sarcofago di Hor-Djehuty (del quale corpo si sono perse le tracce). Non abbiamo, quindi, alcuna informazione identitaria della donna ad eccezione dell’età approssimativa di circa 20-30 anni, che visse durante il I sec. a.C. e che non riporta alcun segno di morte violenta.
Saranno necessarie ulteriori analisi, ma è molto probabile che il suo decesso sia stato provocato proprio dalla gravidanza che stava portando avanti, fattore non anomalo considerando il tasso di mortalità dell’epoca per insofferenza fetale o infezioni contratte dalle gestanti.
A garantire la conservazione del feto è stato il suo sviluppo raggiunto durante il primo mese del terzo trimestre e la mummificazione al natron – carbonato decaidrato di sodio – che ha alterato notevolmente il pH dell’utero della donna rendendolo molto più acido; ciò ha permesso una mineralizzazione delle piccole ossa (si vede abbastanza chiaramente il cranio di circa 25cm), l’essiccamento di parte dei tessuti (come per mani e piedi) e la produzione, tra i vari prodotti chimici, di acido formico il quale potrebbe aver svolto un ruolo importante, considerando le sue proprietà antibatteriche e di agente conservante.
Restano aperti gli interrogativi sulla decisione presa dagli addetti alla mummificazione di lasciare il futuro nascituro all’interno del corpo di sua madre. Purtroppo, i papiri medici ginecologici non forniscono informazioni dettagliate sul parto né tanto meno sugli interventi da eseguire a seguito di complicazioni. Una prima ipotesi proposta è che il feto non sia stato rimosso dalla madre per garantirgli un aldilà che, altrimenti, non avrebbe potuto avere perché non era di fatto nato né aveva ricevuto un nome.
Quello che sappiamo per certo è che in antico Egitto il feto veniva trattato con grande rispetto e considerazione, come ci testimoniamo i feti trovati nei loro sarcofagi nella tomba di Tutankhamon o ancora il commovente caso del piccolo sarcofago antropomorfo W1013 (Egypt Centre, Università del Galles) contenente un feto di soli quattro mesi deposto insieme alla sua placenta. Possiamo timidamente ipotizzare che al “nostro” feto non sia stato riservato lo stesso trattamento perché non fu mai partorito, ma solo ulteriori esami o futuri ritrovamenti potrebbero dissipare tali quesiti.
Resta indubbiamente affascinante l’importanza che veniva data alla formazione di una nuova vita durante le ere faraoniche e possiamo solo fantasticare su come la donna misteriosa dello studio polacco possa aver affrontato i mesi di gravidanza fino al momento del suo tragico epilogo.
Lo scorso aprile aveva compiuto il suo (forse) ultimo viaggio, dal Museo Egizio del Cairo al Museo Nazionale della Civiltà Egiziana di Fustat, partecipando trionfalmente alla Pharaoh’s Golden Parade. Ma ancor prima di lasciare la sua sede espositiva originaria, la mummia di Amenofi I era stata sottoposta a una TAC rivelando diverse informazioni sullo stato di salute del faraone e soprattutto sulle tecniche di utilizzate per mummificare il suo cadavere.
I risultati degli esami, eseguiti nel 2019 in un laboratorio mobile nel giardino del Museo, sono stati pubblicati proprio oggi sulla rivista “Frontiers in Medicine” in un articolo della professoressa di radiologia della Cairo University, Sahar Saleem, e di Zahi Hawass.
Amenofi I (1525-1504 a.C.) è stato il secondo faraone della XVIII dinastia, in seguito divinizzato insieme alla madre Ahmose-Nefertari. La sua mummia fu scoperta nel 1881 nella famosa cachette di Deir el-Bahari, dove era stata nascosta dai sacerdoti di Amon durante la XXI dinastia. Le tombe dei faraoni avevano infatti subito furti e danneggiamenti alla fine del Nuovo Regno e così il clero cercò di salvare almeno i corpi dei sovrani dalle mani degli antichi tombaroli (e, contestualmente, di approfittare di quanto rimasto del corredo).
Il corpo di Amenofi I reca le tracce sia dell’azione dei ladri che della seconda imbalsamazione, effettuata 300 anni dopo la prima per riparare i loro danni. Tuttavia, trattandosi di uno dei pochissimi casi in cui la mummia non è stata sbendata dopo il ritrovamento, per vederle è stato necessario sottoporla a esami autoptici non distruttivi come i raggi X e, ora, la TAC. Quest’ultimo esame ha corretto i dati acquisiti dalle vecchie radiografie (1932 e 1967), posizionando l’età di morte di Amenofi I intorno ai 35 anni sulla base della chiusura delle epifisi delle ossa lunghe e della morfologia della sinfisi pubica. Il re era alto circa 168,5 cm e, a parte una frattura rimarginata al bacino, non mostra evidenti segni di malattie o traumi; quindi al momento è impossibile stabilirne la causa di morte.
Sotto la maschera funeraria in legno e cartonnage, le ghirlande di fiori e un primo sudario di lino, è emersa una commistione tra vecchio e nuovo bendaggio. A quello originale di XVIII dinastia dovrebbe appartenere la fasciatura individuale degli arti; in particolare, le braccia dovevano essere incrociate sul petto, come indicato dalla posizione trasversale dell’avambraccio destro, seppur la mano sia dislocata. Il braccio sinistro, invece, risulta staccato e quindi avvolto lungo fianco e fissato con un perno durante il III Periodo Intermedio. Anche la testa è stata riattaccata al corpo con una benda imbevuta di resina. Infine, una grande cavità, scavata nell’addome per arrivare a preziosi oggetti protettivi, è stata colmata con del lino e riempita anche con le due dita mancanti della mano sinistra e due amuleti. Tornando alla prima mummificazione, sono state evidenziate un’eviscerazione effettuata attraverso un taglio verticale sul fianco sinistro, la presenza del cuore con un amuleto, l’uso di tessuto sciolto e impacchi per occupare i vuoti creatisi e la mancata asportazione del cervello. Il pene, bendato a parte, era circonciso.
Se, come detto, gli stessi sacerdoti non si facevano troppi problemi nell’appropriarsi dei preziosi dei faraoni, in questo caso si nota almeno un certo rispetto. Tra le bende sono infatti stati individuati 30 tra amuleti e gioielli, alcuni dei quali probabilmente in oro. Oltre a udjat, scarabei, cuori ib, doppie ali, scettri di papiro uadj in faience, terracotta, pietra e conchiglia, la TAC ha rivelato la presenza di una cintura con 34 perline d’oro tenute da fili metallici sulla parte posteriore della vita. In sostanza, qualcosa per l’aldilà è stato lasciato.
Source: National Geographic “Lost Treasures of Egypt” 03×04
Era stata una delle più importanti scoperte archeologiche del 2019 in Egitto, ma, a quanto pare, la tomba di Khuy continua a riservare sorprese. La mastaba, situata a Saqqara Sud, aveva stupito per lo straordinario stato di conservazione delle pitture dell’anticamera, la cui ricchezza ben si confà allo status di un alto funzionario vissuto alla fine della V dinastia, tra i regni di Djedkara e Unas (2400 a.C. circa).
Nella camera funeraria erano stati ritrovati quattro vasi canopi in calcare (foto in basso) e pochi resti del sarcofago sopra frammenti di una mummia. Ma le prime analisi sul corpo del defunto, affidate a Salima Ikram (American University in Cairo), hanno rivelato una tecnica d’imbalsamazione finora mai vista per un periodo così antico. Ancora una volta è stato un episodio Lost Treasures of Egypt, il quarto per la precisione, a diffondere la notizia.
La pratica di mummificare i morti era già conosciuta nell’Antico Regno (ci sono tracce d’imbalsamazione intenzionale che risalgono addirittura al predinastico), ma si limitava più che altro all’essiccazione dei corpi e raramente all’asportazione degli organi interni. Il caso della tomba di Khuy, invece, presenta un bendaggio di lino di altissima qualità e costose resine importate da terre straniere. Queste peculiarità hanno portato la Ikram ad accostare in un primo momento la mummia a quelle della XXI dinastia, ben 1400 anni dopo, e quindi a un possibile riutilizzo della tomba che effettivamente è attestato all’esterno della struttura. Tuttavia, l’interno non pare mostrare un’appropriazione tarda della sepoltura e la datazione delle ceramiche e del resto degli oggetti del corredo porta senza dubbio alla V dinastia. Quindi, se il corpo fosse veramente quello di Khuy, si sarebbe di fronte a raffinate tecniche di mummificazione mai attestate per casi risalenti all’Antico Regno.
Per avere le prime conferme, sono state effettuate scansioni ai raggi X sui pochi resti rimasti della mummia – di cui manca la testa -, portando all’identificazione di un uomo, piuttosto alto e grasso, senza evidenti segni di lavoro usurante sulle ossa. Questo primo identikit ben si adatterebbe a un alto ufficiale come Khuy, ma, al netto dei titoli sensazionalistici visti in queste settimane, occorrono ancora molti esami per arrivare a dati definitivi. A partire dalle analisi delle resine, per verificare che quelle trovate nei canopi, sicuramente di V dinastia, coincidano come sembra con quelle cosparse sul corpo; infine, si attendono i risultati della datazione al C14, previsti non prima del maggio del 2022.
Negli anni ’90 del secolo scorso, radiografie effettuate su una mummia conservata nel Museo Nazionale di Varsavia ne avevano identificato il sesso come maschile. D’altronde, sul relativo sarcofago si legge il nome e le cariche di un sacerdote. Ma poi, in una TAC del 2015 sulla stessa mummia, è venuto fuori un feto.
Più che a un reboot di un film con Schwarzenegger (o, per i veri cinefili, di quello con Mastroianni), si tratta semplicemente dell’ennesimo esempio dell’avanzamento delle tecnologie che aiutano sempre di più il lavoro dei ricercatori.
Il team polacco del Warsaw Mummy Project ha infatti recentemente pubblicato i risultati degli esami non invasivi (raggi-X e TAC) sulla mummia – a questo punto si più dire – di una donna tebana morta tra i 20 e i 30 anni nel I secolo a.C. Il corpo, insieme alla copertura in cartonnage e il sarcofago in legno, era stato acquistato in Egitto dal pittore e collezionista Jan Wężyk–Rudzki, che donò tutto il set al museo della capitale nel 1826. I documenti sulla provenienza non sono chiari, visto che si parla di “tombe reali a Tebe” o “piramide di Cheope a Giza”, ma i testi scritti sul sarcofago e sul cartonnage confermano l’origine tebana. Si legge infatti che il proprietario originario era Hor-Djehuty, scriba, sacerdote di Horus-Thot a Djeme, governatore reale del villaggio di Petmiten, cantante del dio Montu. I toponimi indicano l’area a sud di Medinet Habu, mentre tipologia e stile datano i reperti al I sec. a.C. Quindi è probabile che Hor-Djehuty fosse un importante funzionario del distretto amministrativo di Memnoneia (riva occidentale di Luxor) alla fine dell’epoca tolemaica. Quel che è certo è lo scambio di corpi, forse imputabile agli stessi venditori ottocenteschi.
La ricerca ha evidenziato un buon stato di conservazione dovuto anche a un’ottima tecnica d’imbalsamazione che si adatta di più a periodi precedenti. La perizia nel bendaggio, le braccia incrociate sul petto, i 4 organi interni (fegato, polmoni, stomaco e intestini) estratti, imbalsamati a parte e riposti di nuovo nell’addome sono infatti caratteristiche tipiche del III Periodo Intermedio. Tuttavia i ricercatori sono più propensi nel considerare la mummia coeva del sarcofago, soprattutto per la presenza di un rarissimo oggetto discoidale trovato in corrispondenza dell’ombellico e noto finora solo per esemplari del I sec. a.C.
Il disco non è l’unico oggetto individuato tra le bende; nonostante la mummia sia stata chiaramente depredata da ladri, ci sono almeno 15 amuleti, tra cui i classici 4 geni chiamati “Figli di Horus” sull’addome e due dischi di metallo a imitazione dei capezzoli sulle bende modellate sul seno (immagini in basso a sinistra).
Ma venendo finalmente al risultato più importante dello studio, le immagini digitali della TAC (immagini in basso a destra) mostrano un feto compatibile con una gestazione di 26-30 settimane. La testa del piccolo ha infatti una circonferenza di 25 cm ed è stata l’unica parte misurabile a causa della fragilità delle ossa. Si tratta -almeno così si legge nell’articolo – del primo caso documentato di una mummia di una donna incinta, ma non è ancora chiaro perché il feto sia stato lasciato nell’utero e non sia stato mummificato a parte come di solito accadeva. Più che a una motivazione ideologica, però, si potrebbe pensare alle difficoltà pratiche oggettive nell’estrarre un corpo ancora troppo piccolo senza danneggiare i suoi tessuti e quelli della madre.
Domani si terrà la tanto attesa parata delle mummie reali, il trasferimento al Museo Nazionale della Civiltà Egiziana (NMEC) dei corpi imbalsamati di 22 tra re e regine che attualmente si trovano presso il Museo Egizio del Cairo. Prevista inizialmente per il 15 giugno 2020, la parata è stata poi spostata al 3 aprile 2021 a causa del covid-19. L’evento è stato pensato, più che per rendere onore alle spoglie di antichi sovrani deceduti, come una celebrazione della grandezza dell’Egitto, quindi ci si aspetta uno spettacolo sfarzoso. L’aspetto promozionale della “Pharaoh’s Golden Parade” è infatti sottolineato dal fatto che sarà ripresa e trasmessa in diretta YouTube, perciò visibile in tutto il mondo.
Le mummie partiranno su speciali carri motorizzati dal Museo Egizio e arriveranno in circa un’ora alla nuova sede espositiva attraverso 6 tappe principali: il giro attorno all’obelisco di Ramesse II in Piazza Tahrir, Piazza Simon Bolivar, la sfilata lungo la Corniche del Nilo, il quartiere di Al-Sayeda Zainab, il quartiere Fustat e infine il NMEC (immagine in basso). Ad accompagnare il corteo ci saranno soldati a cavallo, ballerini e musicisti in abiti tradizionali e figuranti in costumi faraonici. A quanto pare, poi, le facciate di tutti gli edifici raggiunti è stata dipinta d’oro e a conclusione della sfilata ci saranno fuochi d’artificio e giochi di luci.
Come detto, la parata sarà in live streaming a partire dalle 18:00 del Cairo (attualmente stesso orario dell’Italia) sui canali youtube del Ministero egiziano del Turismo e delle Antichità (https://bit.ly/3dmCpp8) e dall’Agenzia egiziana per la promozione turistica (https://bit.ly/3tUErDu).
Io commenterò l’evento in diretta sul mio gruppo Telegram (https://t.me/djed_medu) e, qualora vogliate, sarete i benvenuti. Aspetto anche i vostri commenti!
Che Seqenenra Tao II abbia fatto una brutta fine è un dato piuttosto assodato. Il cranio sfondato, la mascella fratturata, la guancia recisa, il collo forato e molte altre lesioni riscontrate sulla sua mummia indicano la chiara morte violenta di uno degli ultimi faraoni (1558-1553 a.C.) della XVII dinastia. Ma un nuovo studio, pubblicato proprio oggi, sembrerebbe presentare scenari in parte inediti.
Il corpo del re fu ritrovato nella cachette di Deir el-Bahari (DB320) nel 1881 e già subito dopo lo sbendaggio, effettuato da Maspero nel 1886, attirò la curiosità degli egittologi per le ferite ancora evidenti che ne deturpavano il volto. Avendo regnato durante il II Periodo Intermedio e nel pieno dello scontro con gli Hyksos, fin dalle prime autopsie il faraone è stato spesso descritto come caduto nella guerra poi vinta definitivamente dai suoi figli e successori, Kamose e soprattutto Ahmose che, riunificando l’Egitto sotto la dinastia tebana, diede inizio al Nuovo Regno. Altri, invece, hanno parlato del risultato di una congiura di palazzo. In ogni caso, nel corso degli anni l’attenzione non è scemata e gli esami si sono susseguiti con l’uso di tecnologie sempre più avanzate, fino alla prima radiografia alla fine degli anni ’60 di James E. Harris e Kent Weeks. Come in un moderno caso investigativo, diversi studiosi hanno perfino calcolato l’angolo dei colpi inferti e sono state ipotizzate le armi del delitto, da asce, a pugnali o punte di lancia.
Elliot Smith G., The Royal Mummies CGC Nos 61051-61100, Cairo 1912, pl. II
Nell’ambito del Royal Mummies Project, progetto di studio e conservazione delle mummie reali in attesa di essere trasferite nel Museo Nazionale della Civiltà Egiziana, proprio oggi è uscito l’ultimo studio a riguardo, a firma di Zahi Hawass e Sahar Saleem, professoressa di Radiologia presso l’Università del Cairo. L’articolo mostra i risultati della TAC effettuata sul corpo di Tao II nel maggio del 2019 e della comparazione della morfologia delle lesioni con cinque armi in bronzo di epoca Hyksos scoperte a Tell el-Daba (foto in basso).
Come era noto già da tempo, la mummia è in cattivo stato di conservazione, ma non per un frettoloso processo di mummificazione come si credeva in precedenza. Al contrario, ci sarebbero tutti i corretti processi di trattamento, compreso il tentativo estetico di mascherare alcune ferite del volto con una pasta coprente. Se la mancata asportazione del cervello è una caratteristica che si riscontra anche nel caso di altri faraoni, come Thutmosi II e III, l’inusuale posizione delle braccia e delle mani sarebbe invece da imputare allo spasmo cadaverico e a una parziale putrefazione dovuta a un intervento sul corpo non subitaneo.
In generale, le tante ferite gravi alla testa portano a pensare che Seqenenra sia stato aggredito da più persone con diverse armi. Hawass e Saleem hanno perfino proposto una sequenza dei colpi, alcuni dei quali sembrano essere stati inferti dall’alto verso il basso. Secondo i due studiosi egiziani, il faraone sarebbe stato catturato in battaglia, immobilizzato e ucciso in una sorta di esecuzione da tre o più aguzzini Hyksos. Questo spiegherebbe la mancanza di fratture agli arti, che di solito si riscontrano sul campo di battaglia, e la posizione rigida delle dita e delle mani flesse sui polsi, forse legate dietro la schiena.
La prima ferita potenzialmente fatale sarebbe stata quella di 7 cm sulla fronte, inferta dall’alto verso il basso con una pesante arma da taglio, forse una spada o un’ascia egiziana. Già questo trauma avrebbe scaraventato il re sulla schiena causandone la morte. Poi sul volto si nota una serie di colpi perpendicolari, sintomo dell’accanimento sul faraone, morto o morente, con un’arma a lama più sottile, compatibile con un’ascia da battaglia Hyksos di bronzo (Figg. B-C). A questo secondo momento apparterrebbero il profondo foro sul sopracciglio destro, il taglio sulla guancia sinistra e le fratture di glabella, naso, zigomo destro e altri punti del cranio, provocate da un corpo contundente, un bastone o il manico stesso dell’ascia. Un terzo uomo avrebbe poi colpito il lato sinistro della testa infilando in profondità la punta di una lancia Hyksos (Fig. D) in corrispondenza del processo mastoideo. Se non fosse bastato quanto subito finora, anche questo colpo alla base del cranio sarebbe stato mortale per i danni provocati al midollo spinale. Infine, continuando la ricostruzione forense, che a volte sembra spingersi fin troppo in là con le ipotesi, ci sarebbe stato un ultimo uomo che, armato di coltello, avrebbe infierito sul cadavere ormai rivolto sul fianco destro.
Tutti i traumi non mostrano segni di cicatrizzazione e quindi sarebbero stati provocati peri-mortem, cioè in corrispondenza o poco dopo la morte di Seqenenra. Impossibile dire dove sia avvenuta la presunta esecuzione, anche se Hawass propone le vicinanze della fortezza di Deir el-Ballas, a nord di Tebe, punto strategico di partenza delle campagne militari verso nord del faraone. Da qui il corpo, rimasto per un certo periodo di tempo rivolto sul fianco sinistro – come dimostra lo scivolamento laterale del cervello – sarebbe stato trasportato a Tebe per la mummificazione.
Uno studio multidisciplinare, recentemente pubblicato su PlosOne, ha rivelato una curiosa pratica funeraria finora sconosciuta su una mummia conservata in Australia: un involucro di fango a ricoprire il corpo.
Fino a poco tempo fa, si riteneva che i resti – acquistati insieme al sarcofago e donati all’Università di Sidney nel 1860 dal politico e collezionista anglo-australiano Charles Nicholson – appartenessero a una donna di nome Meru(t)ah, vissuta intorno al 1000 a.C. In realtà, le datazioni al C14 hanno indicato come la mummia – oggi conservata presso il Chau Chak Wing Museum – fosse più antica di circa 200 anni, datandola tra la fine della XIX e l’inizio della XX dinastia. Il sarcofago di III Periodo Intermedio è quindi con molta probabilità un’aggiunta dei moderni venditori per rendere più appetibile il corpo mummificato.
La ricerca diretta da Karin Sowada (Macquarie University) ha portato altri interessanti risultati, in parte confermando vecchie analisi. Già nel 1999, infatti, una TAC aveva mostrato la presenza di uno strano involucro fangoso nascosto sotto le bende di lino. Con nuove tecnologie ed esami chimico-fisici si è visto che si tratta di una serie di impacchi di lino e un composto di fango, sabbia e paglia, applicati quando erano ancora freschi, un po’ come si fa con la cartapesta. Grazie alla spettrofotometria XRF e alla spettroscopia Raman, inoltre, sono stati individuati un pigmento bianco a base di calcite su tutta la superficie e una colorazione con ocra rossa in corrispondenza del volto.
L’inedita crosta – che forse ha un solo parallelo – sarebbe servita a stabilizzare e “riparare” il corpo di una donna di 26-35 anni, probabilmente per preservarne l’integrità, fondamentale per la vita dopo la morte. La mummia, infatti, mostra diversi traumi post-mortem. A distanza di una o due generazioni, qualcuno ha cercato di risolvere così un danno all’altezza del ginocchio e della parte inferiore della gamba sinistra, forse provocato da tombaroli. Molto più recente, invece, è il restauro con perni metallici nella parte destra del collo e della testa dove ad essere intaccato è anche l’involucro di fango e lino.
Oltre allo scopo appena descritto, potrebbe esserci stata anche la volontà di replicare in maniera più economica la pratica funeraria di rivestire le mummie degli appartententi all’élite di Nuovo Regno con bende imbevute di costose resine importate.