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Svelati gli ultimi segreti della Pietra di Palermo

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Pietra di Palermo (Recto): visione di dettaglio, implementata tramite RTI, della parte inferiore, con i registri (anni di regno) del faraone Snefru, padre di Cheope (inizi IV dinastia, 2600 a.C. circa)

Uno dei più importanti documenti storici dell’antico Egitto si trova curiosamente nel capoluogo siciliano, da quando, nel 1877, l’avvocato e collezionista d’arte Ferdinando Gaudiano donò all’allora Regio Museo Archeologico una lastra di basalto interamente ricoperta da geroglifici. Oggi, la cosiddetta “Pietra di Palermo” è uno dei reperti principali del Museo archeologico regionale “Antonio Salinas” e continua a fornire preziose informazioni su una delle più remote fasi della civiltà faraonica.

“Il Salinas è un museo molto variegato”, spiega la sua direttrice, Caterina Greco, “che nasce in un panorama culturale nuovo che vede nel museo il centro propulsore della cultura e della ricerca archeologica, nonché l’istituzione che ha lo scopo di raccontare al pubblico la storia del Mediterraneo”.

La Pietra di Palermo (circa 43 cm di altezza x 25 di larghezza x 6,5 cm di spessore) è il più antico esempio conosciuto di “annale regale” e reca iscritti su entrambi i lati – unico caso nel suo genere – i nomi dei faraoni delle prime cinque dinastie (dal 3200 al 2350 a.C. circa), i principali eventi storicin accaduti durante i relativi anni di regno e i livelli raggiunti dalle piene del Nilo.

Questo frammento faceva parte di un’iscrizione più grande, a cui sembrerebbero appartenere altri 6 pezzi, di cui 5 attualmente conservati presso il Museo Egizio del Cairo e uno al Petrie Museum di Londra. La porzione “siciliana” è sicuramente la più grande e meglio conservata e sulla sua lettura si basa la stragrande maggioranza delle informazioni storiche, solo in alcuni casi confermate anche da scoperte archeologiche, su oltre 700 anni che coprono il Periodo Protodinastico e buona parte dell’Antico Regno.

L’eccezionale valenza storica del documento ha attratto, nel corso dei decenni, l’attenzione di diversi studiosi che, tuttavia, hanno dovuto fare i conti con lo stato di conservazione non ottimale della Pietra – in particolare della parte posteriore o ‘verso’ – e con la mancanza di informazioni sulle origini del reperto. Tra tutti i 7 frammenti, infatti, solo uno, oggi al Cairo, è stato ritrovato in un contesto archeologico (a Mit Rahina, l’antica Menfi), mentre gli altri provengono dal mercato antiquario.

Un recente studio, tuttavia, ne sta svelando gli ultimi segreti grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie. A partire dallo scorso settembre 2018, un’equipe diretta dall’egittologo Massimiliano Nuzzolo (Università Carlo IV di Praga) ha iniziato un lavoro di riconsiderazione globale di tutti i frammenti dell’annale regale, e in particolar modo della Pietra di Palermo, nell’ambito di un progetto di ricerca sul culto solare e l’ideologia regale nell’antico Egitto finanziato dalla Czech Science Foundation.

L’obiettivo primario della ricerca è stato la rilettura del testo geroglifico iscritto su tutti i frammenti tramite la nuova tecnica di analisi fotografica digitale chiamata “Reflectance Transformation Imaginig” (RTI), da poco applicata con ottimi risultati anche per lo studio dei papiri carbonizzati di Ercolano.

La tecnologia RTI consiste nello scattare un elevato numero di fotografie ad altissima risoluzione di uno stesso oggetto senza variare la posizione della fotocamera, ma modificando la fonte di luce e le sue angolature. In questo modo, un software è in grado di ricomporre virtualmente l’oggetto investigato rendendolo di gran lunga più leggibile e mostrando dettagli invisibili ad occhio nudo grazie al movimento delle diverse fonti di luce. “Nel nostro caso” spiega Massimiliano Nuzzolo, “la nuova tecnologia ci ha permesso finalmente di vedere tutte le iscrizioni geroglifiche riportate su di essa, e particolarmente sul Verso, svelando gli ultimi segreti legati a quella parti dell’iscrizione che prima non erano del tutto visibili e comprensibili.”

Per altre aree più danneggiate della pietra, invece, per cui nemmeno la RTI è stata sufficiente a chiarire dettagli del testo geroglifico, gli egittologi del team hanno utilizzato un microscopio digitale (Dino-Lite USB).

“Quest’ultima tecnologia” spiegano Kathryn Piquette e Mohamed Osman, i due studiosi che insieme a Nuzzolo hanno eseguito le indagini sulla Pietra di Palermo, “combinata con la tradizionale fotogrammetria e con le indagini al microscopio, ci ha permesso di studiare come mai prima era stato fatto le caratteristiche materiali del manufatto, quali la sua composizione chimica o la tecnologia utilizzata per incidere i segni geroglifici su di esso, oltre a fornirci una casistica straordinaria per lo studio della paleografia delle iscrizioni, elemento principale per dirimere la questione più importante relativa alla Pietra di Palermo, la sua datazione”.

A differenza di quasi tutte le iscrizioni monumentali che si trovano nella terra del Nilo, la Pietra di Palermo è infatti iscritta con geroglifici di dimensioni molto ridotte, nell’ordine di uno o due centimetri di grandezza, qualche volta anche meno. “Questo fa assomigliare la Pietra di Palermo” aggiunge Nuzzolo, “più a un testo papiraceo che a un’iscrizione monumentale su pietra e pone non pochi problemi di identificazione della mano dello scriba (paleografia, ndr.), o degli scribi, che l’hanno prodotta”.

La ricerca ha portato a numerose novità: fra le più interessanti, c’è sicuramente la menzione di spedizioni commerciali, finora sconosciute, effettuate durante il regno di Sahura, secondo faraone della V dinastia (2450 a.C. circa).

“Accanto alle già note spedizioni verso la terra di Punt” spiega sempre Massimiliano Nuzzolo, “siamo adesso in grado di leggere anche la menzione di viaggi effettuati verso est, alla ricerca di una specifica qualità di rame utilizzata per fabbricare oggetti di culto (statue) del sovrano”. Queste campagne erano rivolte a una zona desertica, probabilmente compresa tra Sinai (Egitto), Giordania e Israele, dove, in un’epoca posteriore, si svilupperà il noto sito metallurgico dello Wadi Feynan, tra i più importanti per il rame di tutto il Vicino Oriente.

Ma le nuove ricerche sulla Pietra di Palermo hanno fornito altri importanti dati inediti, come la citazione dei “Campi di Ra”, un tempio, ancora non scoperto dagli archeologi, che Sahura dedicò al dio sole Ra, o la riprova dell’esistenza di almeno due forme di datazione degli anni. Finora, infatti, si credeva che l’unica forma di datazione adottata dagli Egizi, fra l’altro riportata più volte dalla Pietra stessa, fosse quella della conta del bestiame, una specie di censimento che si ripeteva a cadenza biennale nell’intero paese. Adesso sappiamo invece che, in casi eccezionali, gli anni potevano essere datati anche sulla base di eventi che erano quindi percepiti come particolarmente significativi, come ad esempio una spedizione commerciale per l’approvvigionamento del turchese, materiale ampiamente utilizzato dagli Egizi sia per la fabbricazione di amuleti, gioielli e altri oggetti di lusso, sia nelle pratiche medico-magiche.

Infine, va sicuramente riportata una conferma: gli Egizi, alla fine del IV millennio a.C., praticavano sacrifici umani o, più probabilmente, come sembra evincersi dal testo della Pietra di Palermo, sacrifici rituali su statue o altri simulacri che dovevano agire da sostituti delle vittime vere e proprie che, invece, sono attestate nelle sepolture di alcuni sovrani della I dinastia.

Insomma, le nuove ricerche effettuate sulla Pietra di Palermo stanno riaprendo un capitolo della storia più remota della civiltà dei faraoni su cui resta ancora molto da scoprire. Aspettiamo quindi la pubblicazione dei risultati dello studio di tutti i frammenti per conoscere ulteriori novità su questo antichissimo documento.

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Tutti i particolari e le foto della scoperta di mummie di leone a Saqqara

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Ph. Hamada Elrasam / AFP

Si attendeva da giorni la conferma dell’indiscrezione, anticipata all’inizio di novembre dal ministro egiziano delle Antichità Khaled el-Enany, della scoperta a Saqqara di una mummia di leone. La grande necropoli a sud del Cairo è infatti famosa per ospitare milioni di corpi imbalsamati di animali lasciati dai pellegrini come ex-voto alle varie divinità, in particolare dal Periodo Tardo a quello greco-romano. Ma, tra gatti, cani, ibis e coccodrilli, il ritrovamento di un grande felino sarebbe un evento con un solo precedente nella storia.

Sabato 23 novembre, durante la consueta conferenza stampa con le più alte cariche del ministero, la conferma è arrivata, ma inclusa in un contesto ben più corposo. El-Enany ha infatti annunciato la terza grande scoperta in quest’area nell’arco di un anno. Dopo il deposito con decine di mummie animali, tra cui quelle rarissime di scarabei, e la meravigliosa tomba del sacerdote di V dinastia Wah-t, la missione archeologica egiziana del Bubasteion si è spostata più ad ovest e, sotto una montagna di detriti, ha individuato un deposito con centinaia di oggetti e mummie.

Sono talmente tanti i reperti ritrovati che il ministro ha parlato ironicamente della “scoperta di un museo”. Non a caso, le classiche teche disposte di fronte al pubblico di giornalisti e autorità locali e straniere oggi sono state molte di più del solito e hanno mostrato lo stretto legame del luogo al culto della dea Bastet.

Si contano infatti 75 statuette di diverse misure, in legno o bronzo, che raffigurano gatti e decine di mummie di felini posizionate in due piccoli sarcofagi in pietra e 25 casse lignee che contenevano anche altri oggetti. Inoltre, sono stati individuati 73 bronzetti di Osiride, 6 statuette in legno dipinto di Ptah-Sokar-Osiride, 11 in legno o faience di Sekhmet e decine di altri pezzi che rappresentano falchi, ibis, sciacalli, cobra, tori Api ecc. Oltre ai felini, erano presenti altri animali imbalsamati come due manguste e tre piccoli coccodrilli nascosti in simulacri con le fattezze del rettile.

In questa enorme quantità di antichità, si segnalano in particolare una meravigliosa statua lignea di Neith, dea tutelare della città di Sais, capitale della XXVI dinastia, e un impressionante scarabeo in pietra, tra i più grandi noti finora in Egitto, accompagnato da due coleotteri più piccoli in legno e arenaria. Un rilievo in pietra con inciso il cartiglio del faraone Psammetico I (664-610 a.C.) ha invece fornito la datazione del nascondiglio.

Il resto dei reperti ritrovati si riferisce alla prima funzione della struttura, originariamente una tomba poi riutilizzata per lasciare offerte a Bastet e alle altre divinità: si notano infatti amuleti in faience, ushabti, maschere funerarie, vasi in ceramica e alabastro e un poggiatesta in legno.

Tornando alla notizia di apertura, la mummia di leone non sarebbe sola ma accompagnata da altri quattro esemplari simili. Sono infatti cinque le mummie di “grandi gatti” ritrovati, tra le quali due sono state analizzate con TAC e raggi X. Questi esami preliminari – che hanno visto la collaborazione anche della celebre egittologa Salima Ikram, una delle massime esperte nel campo – rivelerebbero sotto le bende i corpi di due cuccioli di leone, di circa 6-8 mesi, lunghi 90 cm.

Il Bubasteion di Saqqara era, come detto, un vasto complesso templare dedicato alla dea Bastet, per questo molte delle tombe più antiche della zona furono riutilizzate per la deposizione di milioni di mummie di gatto. La presenza di leoni, in particolare di giovanissima età, sarebbe quindi da collegare al culto di Mahees, dio leonino figlio di Bastet.

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Fotografia AFP

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Antico Egitto, ibis sacri e altri amimali mummificati

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Fotografia di Richard Barnes, Nat Geo Image Collection

Negli ultimi giorni, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo sta rimbalzando un’interessante indiscrezione nata da una breve intervista del quotidiano britannico Daily Express al ministro egiziano delle Antichità Khaled el-Enany. Al netto dei titoli clickbait e di frettolose speculazioni senza fonte, la notizia, se confermata, sarebbe importantissima. 

Il ministro, infatti, ha parlato della scoperta a Saqqara di una mummia di un grosso felino o, citando le sue stesse parole, dei resti imbalsamati di «un animale molto strano, come un grosso gatto, forse un leone o una leonessa», aggiungendo che si riserva di dare l’annuncio ufficiale solo tra tre settimane, dopo aver effettuato la TAC e l’analisi del DNA. Il ritrovamento della mummia di un leone sarebbe quasi un unicum avendo un solo precedente, individuato nel 2001, sempre a Saqqara nella tomba di Maia, nutrice di Tutankhamun.

Non a caso, Saqqara è una vasta necropoli situata 30 km a sud del Cairo che, oltre ad essere nota per la Piramide a gradoni di Djoser, ospita diverse tombe e catacombe in cui, nel corso dei secoli, sono stati deposti milioni di animali mummificati. La pratica di offrire alle divinità questo tipo di ex voto si sviluppò dall’Epoca Tarda fino al periodo romano (664 a.C. – 250 d.C.), con un particolare picco nell’epoca tolemaica.

I fedeli chiedevano a Bastet, Anubi, Thot, Sobek ecc. – un po’ come oggi i cristiani chiedono la grazia alla Madonna o ai santi – la guarigione da malattie, una vita lunga e felice, la nascita di figli o la soluzione di ogni problema della vita quotidiana, da intoppi negli affari a beghe amorose. In cambio i pellegrini lasciavano al dio invocato la mummia del rispettivo animale, come cani, gatti, scimmie, coccodrilli, serpenti, pesci, uccelli, roditori o perfino scarabei.

L’ingente numero di esemplari, insieme allo studio di alcune fonti scritte, ha fatto pensare all’esistenza di un vero e proprio sistema produttivo di mummie animali su vasta scala, con allevamenti situati nei pressi o dentro i recinti sacri dei templi. Gli animali venivano così allevati, uccisi, imbalsamati e venduti alle persone che visitavano i santuari.

Spesso, infatti, gli scheletri denotano evidenti segni di una morte violenta come il collo spezzato. Questa usanza così cruenta si discosta decisamente dal pensiero comune che la gente oggi ha sulla venerazione che gli antichi Egizi avrebbero avuto nei confronti degli animali, ma appare l’unica soluzione utile a soddisfare una domanda così grande.

Tuttavia, una recentissima pubblicazione, uscita l’altro ieri su Plos One, sembrerebbe mettere in dubbio la pratica dell’allevamento intensivo, almeno nel caso dell’ibis sacro (Threskiornis aethiopicus), l’uccello simbolo del dio della sapienza, della scrittura, della magia e delle scienze: Thot.

Un team di ricercatori diretto da Sally Wasef (Australian Research Centre for Human Evolution alla Griffith University) ha effettuato il primo studio completo del genoma mitocondriale di 40 esemplari mummificati di ibis sacro provenienti da diversi siti egiziani. In particolare, oltre ad alcuni pezzi conservati in musei, sono state prese in considerazione le tre principali necropoli consacrate a Thot: Saqqara, Tuna el-Gebel e Sohag (nei pressi di Abido). Solo per i primi due siti si stima che ci siano rispettivamente 1,5 e oltre 4 milioni di mummie di ibis, quindi ci si chiede da dove gli antichi Egizi prendessero tutti questi uccelli.

L’ipotesi corrente degli egittologi, come detto, è che esistessero fattorie, chiamate da Erodoto ibiotropheia, in cui alcuni ibis, attratti con del cibo, sarebbero stati fatti riprodurre e allevati in cattività. Già nel 1825, il naturalista francese Georges Cuvier, sbendando una mummia da Tebe, aveva osservato una frattura guarita dell’ala che non avrebbe mai permesso la sopravvivenza dell’animale in natura.

Tuttavia, lo studio della Wasef e colleghi propenderebbe invece per l’approvvigionamento tramite caccia. Il corredo genetico degli esemplari antichi, ricostruito in maniera completa solo per 14 casi, è stato paragonato con quello di 26 campioni moderni provenienti da diversi paesi dell’Africa. È curioso che tra questi manchi proprio l’Egitto in cui l’ibis sacro, che si è stabilito perfino in Italia, si è istinto intorno alla metà del XIX secolo.

Nelle mummie non è stata riscontrata quella omogeneità genetica che ci si aspetterebbe da uccelli fatti accoppiare tra loro nel corso di generazioni e generazioni, un po’ come negli odierni allevamenti intensivi di polli. Al contrario, la complessità del DNA è paragonabile con quella degli esemplari liberi di spostarsi in un più ampio areale. Secondo Wasef, quindi, gli ibis sarebbero stati catturati e tenuti in cattività solo per un brevissimo tempo prima di essere uccisi e imbalsamati.

Restano però dubbi sull’effettiva applicabilità dei risultati di uno studio con un così ristretto campione su un sistema che comprende milioni e milioni di mummie.

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Cachette di Asasif: sono 30 i sarcofagi scoperti

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Source: MoA

Dall’Egitto, in particolare da Luxor, continuano ad arrivare grandi novità. Dopo la conferenza stampa di Zahi Hawass sulle sue scoperte nella Valle dei Re,  oggi è stato annunciato, infatti, un altro importantissimo ritrovamento a Tebe Ovest. In realtà, la notizia circola già da qualche giorno a causa di un primo breve accenno del Ministero delle Antichità che ha portato a leggere diverse imprecisioni negli articoli della stampa internazionale.

Nella necropoli di el-Assasif, ai piedi del tempio funerario di Hatshepsut, la missione egiziana del Consiglio Supremo delle Antichità ha individuato una cachette (nascondiglio) con 30 sarcofagi antropoidi in legno perfettamente conservati. Il ministro Khaled el-Enany e il segretario generale dello SCA, Mostafa Waziry, accompagnati dal team al completo di operai e restauratori, hanno così presentato ufficialmente la scoperta a giornalisti locali e stranieri, scegliendo come sfondo la scenografica struttura di Deir el-Bahari.

In particolare, Waziry ha affermato che domenica scorsa, sotto un solo metro di sabbia, era emerso il primo volto della maschera di un sarcofago, seguito poi da altre 29 bare ancora accatastate su due livelli, 18 in alto e 12 in basso, nella stessa posizione in cui erano state collocate circa 3000 anni fa. L’importanza del ritrovamento, oltre a dipendere dal numero e dal perfetto stato di conservazione dei reperti, sta proprio nella tipologia di sepoltura, non primaria, che riporta ad altri soli 3 esempi noti a Tebe Ovest. Il più famoso è la vicina cachette di Deir el-Bahari (DB320), scoperta prima da tombaroli e poi ufficialmente nel 1881 dall’archeologo Émile Brugsch, dove i sacerdoti della XXI dinastia (1075-945 a.C.) nascosero oltre 50 corpi imbalsamati di faraoni, regine e membri della corte del Nuovo Regno. Altro nascondiglio reale fu individuato nel 1898 dal francese Victor Loret nella tomba di Amenofi II (KV35), nella Valle dei Re, dove, sempre nel III Periodo Intermedio, erano state stipate in deposizione secondaria quasi 30 mummie. Infine, va ricordata la cachette di Bab el-Gasus, sempre a Deir el-Bahari, in cui erano stati posizionati 153 sarcofagi, oggi sparsi tra i musei di tutto il mondo, per lo più appartenuti a sacerdoti di Amon a Karnak.

Proprio a quest’ultimo caso è più giusto accostare la scoperta di el-Assasif perché i sarcofagi oggi mostrati conservano i corpi di 23 sacerdoti più 5 donne e due bambini. Grazie al tipo di decorazione della maggior parte degli esemplari, con fondo giallo completamente occupato da testi geroglifici, scene religiose e variopinti elementi decorativi, si può parlare di XXI-inizio XXII dinastia. Invece, non è ancora chiaro con precisione quando siano state radunate le bare, anche se è lecito pensare al III Periodo Intermedio, quando, in un’epoca di minor controllo dei territori, sacerdoti e guardie delle necropoli cercarono di proteggere le mummie dall’azione dei profanatori di tombe nascondendole in altri luoghi.
Al termine della conferenza sono stati aperti in diretta due sarcofagi, uno maschile e uno femminile, che hanno mostrato corpi ancora avvolti nei sudari di lino e le decorazioni interne dai colori perfino più vividi di quelli già visibili sulla superficie esterna. Ora, mentre lo scavo continua, i ritrovamenti saranno esposti momentaneamente fino al 4 novembre nella vicina tomba di Pabasa (TT279), per poi essere trasferiti nei laboratori del Grand Egyptian Museum di Giza per essere restaurati e studiati.

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Tutti gli aggiornamenti delle scoperte nella Valle delle Scimmie

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Source: MoA

Ormai da oltre 10 anni Zahi Hawass è sulle tracce della tomba di Ankhesenamon, la sposa di Tutankhamon. Questo è il principale obiettivo del celebre archeologo egiziano da quando, durante la campagna di scavo del 2007-2008, scoprì quattro depositi di fondazione nella Valle delle Scimmie, il ramo occidentale della Valle dei Re, sulla riva ovest di Luxor, chiamato così dai locali per le pitture raffiguranti babbuini nella sepoltura del faraone Ay (1323-1319 a.C.).

I depositi sono infatti fosse rituali scavate e riempite di oggetti simbolici prima della realizzazione di un tempio o di una tomba e, secondo Hawass, in questo caso sarebbero la prova del luogo in cui sarebbe stata deposta Ankhesenamon, dopo aver sposato proprio Ay in seconde nozze.

Con la conferenza stampa di questa mattina, a causa dei titoli un po’ troppo sensazionalistici di qualche giornale egiziano, sembrava arrivato finalmente il momento del tanto atteso annuncio. In realtà, sono stati resi noti alla stampa altri ritrovamenti, seppur importanti, tra cui una struttura che porta ad aggiornare la lista ufficiale delle tombe della valle.

Alla presenza del ministro delle Antichità Khaled el-Enany e del segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità Mostafa Waziry, Hawass ha illustrato diverse scoperte effettuate dalla sua missione nella Valle delle Scimmie, ripresa nel dicembre del 2017.

L’intera area è stata divisa in quattro settori, A, B, C, D, tra cui il secondo è ritenuto il più promettente dal direttore dello scavo. Qui è stato scoperto il primo centro artigianale della Valle, dove gli operai del vicino villaggio di Deir el-Medina producevano oggetti per le tombe e immagazzinavano i loro attrezzi: un deposito nominato KVT, un forno per la cottura delle ceramiche e una cisterna (KVU) per lo stoccaggio dell’acqua da fornire ai lavoratori.

Tra queste strutture sono stati ritrovati una tavola d’offerta, due anelli di argento riconducibili rispettivamente ad Amenofi III (1386-1349 a.C.) e a una regina  e centinaia di placchette in pasta vitrea colorata e fogli d’oro che una volta appartenevano alla decorazione di sarcofagi lignei di XVIII dinastia. Per questi motivi, Hawass, mai prudente nelle dichiarazioni, pensa che non lontano potrebbe trovarsi una tomba reale post-amarniana, magari di Ankhesenamon o di Nefertiti.

A conferma dell’ipotesi ci sarebbe un vicino pozzo con stanza lunga 5 metri che è stata interpretata come deposito e laboratorio della mummificazione, simile alla KV54 scoperta nel 1907 e in un primo momento erroneamente definita come tomba di Tutankhamon.

Nell’ipogeo, ora denominato KV65, sono stati ritrovati appunto resti del processo d’imbalsamazione e porzioni di mummie umane, oltre a ceramica, corde, frammenti di lino, utensili per la lavorazione del legno, strumenti per la scrittura, ossa animali, cipolle, frutti della palma dum, fichi e una lunga verga di legno che potrebbe essere uno degli assi di una portantina utilizzata per trasportare oggetti del corredo funerario nelle tombe.

In un terzo settore, proprio sotto la normale strada calcata tutti i giorni da centinaia di turisti, si trovano 30 ambienti disposti in fila per ospitare centri di artigianato specializzato. Ognuna di queste semplici strutture di muri a secco, infatti, era dedicata a un determinata attività come la decorazione dei vasi, la lavorazione del legno, il montaggio dei mobili, la lavorazione dell’oro e un grande magazzino per lo stoccaggio di numerose giare risalenti alla XVIII dinastia.

Nel pomeriggio è stata allestita una seconda conferenza stampa per aggiornare i giornalisti sulle scoperte effettuate nell’altro fronte della missione di Zahi Hawass, il ramo orientale della Valle dei Re. Qui l’obiettivo è la ricerca dell’ultima dimora dei faraoni che mancano ancora all’appello, come Amenofi I, Thutmosi II e Ramesse VIII, oltre a quelle delle spose reali della XVIII dinastia.

L’indagine si è focalizzata in diversi punti, vicino le tombe di Ramesse VII (KV1), Hatshepsut (KV20), Ramesse III (KV11) e Merenptah (KV8). Nei pressi della tomba di Tutankhamon, invece, sono state ritrovate e tracce di 42 piccole capanne utilizzate dagli operai di Deir el-Medina come ripari temporanei e come deposito per gli utensili. Tra i ritrovamenti, spiccano diversi ostraka (schegge di calcare utilizzati per disegni e appunti) di età ramesside e altri importanti oggetti che saranno rivelati solo nella prossima conferenza

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Il Metropolitan restituisce all’Egitto il sarcofago di Nedjemankh

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Source: Daily Mail

Lo scorso febbraio, con un vero e proprio colpo di scena, il Metropolitan Museum of Art di New York chiudeva in anticipo la fortunata mostra temporanea “Nedjemankh and His Gilded Coffin” che si avviava a superare il mezzo milione di visitatori in soli sei mesi. Infatti, il pezzo principale dell’esposizione, il sarcofago dorato di Nedjemankh per l’appunto, risultava essere uscito illegalmente dall’Egitto e arrivato negli USA attraverso il mercato nero. Così, una volta appurata la falsità dei documenti ottenuti con l’acquisto, il presidente del MET, Daniel Weiss, aveva subito chiesto scusa al popolo egiziano e si era impegnato a restituire al più presto il prezioso reperto.

Ieri si è finalmente concretizzata questa promessa con una conferenza stampa e la consegna ufficiale dell’oggetto alle autorità egiziane, alla presenza del ministro degli Esteri, Sameh Hassan Shoukry, del procuratore distrettuale di Manhattan, Cyrus Vance, e dell’agente incaricato della Homeland Security Investigations, Peter C. Fitzhugh.

La novità dell’operazione sta proprio nei protagonisti che, per una volta, non si sono mossi dopo una richiesta di restituzione dall’Egitto ma attraverso una serie di indagini interne dell’Antiquities Trafficking Unit che ha scandagliato a lungo i percorsi sommersi che portano opere d’arte a gallerie, case d’asta e musei della Grande Mela.

Nedjemankh era sommo sacerdote del dio dalla testa di ariete Herishef, vissuto nel I secolo a.C. a Herakleopolis, città a sud del Fayyum. Il grande valore del suo sarcofago non è dato solo dal materiale con cui è realizzato, ma soprattutto dalla rarità del modello. L’intera superficie della bara, infatti, è coperta da testi e scene religiose incise su uno strato dorato di cartonnage che, a sua volta, decora la struttura in legno. Nella parte interna si trova, a protezione del volto del defunto, addirittura una foglia d’argento, metallo che in Egitto era ancora più prezioso dell’oro.

Il sarcofago è stato probabilmente trafugato durante il caos scaturito dopo la rivoluzione del 2011 nell’area di Minya. In quel periodo perfino il museo della città era stato assaltato da una folla senza controllo e non tutti i suoi reperti sono stati ancora recuperati. In ogni caso, il sarcofago sarebbe finito prima negli Emirati Arabi, poi in Germania e infine a Parigi, in particolare nella casa d’aste Christophe Kunicki dove è stato acquistato dal Metropolitan nel 2017, per 4 milioni di dollari.

Ad accompagnare il pezzo c’era una serie di documenti rivelatisi falsi, come una licenza di esportazione del 1971, data precedente alla promulgazione della legge 117 del 1983 sulla tutela delle antichità egiziane.

Secondo quanto detto dal ministro Shoukry, il sarcofago sarà rimpatriato nei prossimi giorni in Egitto, dove sarà esposto nel 2020

Aggiornamento (01/10/2019):

Arrivato in Egitto, stamattina il sarcofago di Nedjemankh è stato ufficialmente presentato a stampa e ambasciatori stranieri presso il National Museum of Egyptian Civilization di Fustat, museo dove sarà esposto al pubblico già nei prossimi mesi.

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Source: MoA

Aggiornamento (30/06/2020):

Le indagini sono andate avanti in Francia e hanno coinvolto nomi altisonanti, non tutti fatti trapelare: sono stati arrestati il noto esperto d’archeologia del Mediterraneo e membro del comitato della Société Française d’Égyptologie Christophe Kunicki e il marito e socio Richard Sampaire, un ex curatore del dipartimento del Vicino Oriente del Louvre, il presidente della Pierre Bergé & Associés, una delle case d’asta più amose al mondo e un altro banditore parigino.
 
Oltre al sarcofago di Nedjemankh, sarebbero molti altri i reperti provenienti da paesi in guerra o sconvolti dalla primavera araba, come Egitto, Libia, Siria e Yemen, venduti illegalmente a inconsapevoli musei, Louvre di Abu Dhabi o il già citato Metropolitan tra tutti, e privati.
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L’Egitto si oppone alla vendita all’asta di una testa di Tutankhamon

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Source: Christie’s

Quando si parla di Tutankhamon – è inevitabile – l’attenzione mediatica è sempre grande. Non è un caso quindi che la vendita di una testa del giovane faraone abbia subito scatenato veementi proteste da parte delle autorità egiziane.
Il tutto è nato dalla pubblicazione da parte di Christie’s del catalogo di 104 antichità, molte delle quali egizie, che saranno messe all’asta il prossimo 3 luglio a Londra.

Oltre a questi reperti, per il giorno dopo è prevista la vendita eccezionale di un frammento, alto 28,5 cm, di una statua in quarzite marrone che mostra la testa di Tutankhamon (1333-1323 a.C.) nella forma divinizzata di Amon. Il re, infatti, è rappresentato con la tipica corona del dio, sormontata da due piume che si conservano ancora alla base. Tale scelta non è casuale, ma rispecchia la volontà politica del faraone di restaurare il vecchio credo legato ad Amon-Ra dopo la breve parentesi di riforma religiosa di Akhenaton (1351-1333), rigettata anche dal cambiamento del nome che in origine era Tutankhaton. Nonostante ciò, la scultura mostra ancora gli evidenti influssi dell’arte amarniana nei tratti del viso.

Diverse statue simili sono state ritrovate nel complesso templare di Karnak a Luxor (un esempio dal Metropolitan Museum di New York: https://www.metmuseum.org/toah/works-of-art/07.228.34/), come chiara volontà di mostrare il ritorno alla tradizione nel luogo che più di tutti era stato osteggiato da Akhenaton. Proprio questo particolare ha spinto le più alte cariche del Ministero egiziano delle Antichità ad attivarsi per bloccare la vendita che dovrebbe raggiungere almeno i 4 milioni di sterline (circa 4,5 milioni di euro). Infatti, secondo dichiarazioni rilasciate dal celebre archeologo Zahi Hawass alla ABC News, il frammento sarebbe stato rubato proprio da Karnak negli anni ’70.

Mostafa Waziry, segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità, ha aggiunto che se Christie’s non fornirà un’adeguata documentazione che attesti una legale esportazione dall’Egitto, il pezzo dovrà essere restituito all’Egitto. Nel paese nordafricano, il patrimonio archeologico è tutelato dalla legge n° 117 del 1983, inasprita ulteriormente nel 2017 per cercare di arginare scavi abusivi e il conseguente mercato nero cresciuti a dismisura dopo la rivoluzione del 2011. Esiste perfino un dipartimento del Ministero delle Antichità preposto alla lotta al contrabbando, il cui capo, Shaaban Abdel-Gawad, si sta preparando a contattare l’Interpol e a intraprendere tutte le azioni legali del caso. Anche il Ministro egiziano degli Esteri è stato allertato nel caso servisse un intervento nei confronti del suo omologo britannico.

Christie’s ha risposto alle accuse per mezzo di una portavoce che, in una dichiarazione alla CNN ha affermato che “gli oggetti antichi, per loro natura, non possono essere tracciati per millenni”, aggiungendo inoltre che “è estremamente importante stabilire la proprietà recente e il diritto legale alla vendita, come abbiamo chiaramente fatto. Non proporremmo alcun oggetto su cui ci fossero dubbi per il possesso o l’esportazione”.

In tal senso, si sa che la testa, già nota agli esperti ed esposta in alcune mostre in Spagna e Germania, fa parte della Collezione Resandro, una delle più famose raccolte private di antichità egizie, già in parte piazzata dalla stessa casa d’asta nel 2016 per 3 milioni di sterline. L’attuale proprietario avrebbe acquistato la testa nel 1985 da Heinz Herzer, un mercante di Monaco di Baviera. Ancor prima, l’austriaco Joseph Messina l’avrebbe acquisita nel 1973-74 dal principe tedesco Wilhelm von Thurn und Taxis che l’avrebbe posseduta nella sua collezione privata dagli anni ’60.

Ma intanto, mentre si procede con le indagini per stabilire l’origine del pezzo e verificare l’attendibilità delle documentazioni presentate, il ministro egiziano delle Antichità Khaled el-Enany ha già chiesto a Christie’s, tramite l’ambasciata egiziana a Londra e l’UNESCO, di bloccare la vendita.

Aggiornamento del 5 luglio: 

Nonostante l’opposizione ufficiale delle autorità egiziane e la presenza di uno sparuto gruppo di dimostranti fuori la sede londinese, Christie’s ha deciso comunque di non ritirare dalla vedita la testa in diorite di Tutankhamon che è stata battuta per 4 milioni di sterline, poco meno di 4,5 milioni di euro.
Considerato il pezzo più pregiato dell’asta straordinaria di ieri, il lotto n° 110 ha raggiunto velocemente tale cifra con pochi rilanci da un prezzo base di 3 milioni. Tuttavvia l’acquirente, ancora sconosciuto, dovrà sborsare in totale 4.746.250 sterline (quasi 5,3 milioni di euro) che includono anche commissioni e spese varie.
Nella stessa seduta, è stata venduta anche una testa frammentaria in granito di Amenofi III, nonno di Tutankhamon, per 550.000 sterline.

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Giza, scoperta tomba di due sacerdoti di V dinastia

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Source: egypttoday.com

Questa mattina, a Giza, il ministro delle Antichità Khaled el-Anany e il segretario generale del Supreme Council of Antiquities Mostafa Waziry hanno annunciato la scoperta della tomba di due funzionari e alti sacerdoti della prima metà della V dinastia (XXVI-XXV sec. a.C.).

Waziry, che ha dirige la missione archeologica protagonista del ritrovamento nelll’area sud-orientale della necropoli di Giza fin dall’agosto del 2018, ha riferito che i due proprietari originari della sepoltura, Pehenuika e Nui (rappresentato nella stele in basso a destra), posseggono rispettivamente 7 e 5 titoli, tra cui quello di “sacerdote del re Chefren”. La struttura è stata poi riutilizzata in Epoca Tarda (VII sec. a.C.), periodo a cui appartengono i vari sarcofagi lignei ben conservati presenti nella tomba insieme a diversi ushabti, amuleti, vasi in pietra e ceramica e una statua in calcare senza iscrizioni che rappresenta uno dei due defunti con moglie e figlio.

Ulteriori informazioni e foto nel mio articolo su National Geogrphic: http://www.nationalgeographic.it/wallpaper/2019/05/04/foto/egitto_scoperta_a_giza_tomba_due_sacerdoti_antico_regno-4393551/1/

 

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Scoperta la più grande tomba “a saff” di Tebe Ovest

Source: MoA

Un’enorme tomba era nascosta a due passi dal normale percorso di visita che i turisti compiono tutti i giorni, celata da centinaia di metri cubi di detriti di un paio di secoli di scavi archeologici nell’area.
A nord della sepoltura di Roy (TT255), visitabile nella necropoli di Dra Abu el-Naga, è stata individuata e scavata da una missione egiziana diretta da Mostafa Waziri, la più grande “tomba a saff” finora nota di Tebe Ovest. La struttura consiste in una vasta corte aperta su cui si apre una facciata monumentale di 55 metri, con 18 entrate intervallate da pilastri.

Qui era sepolto Djehutyshedsu, il cui nome e i numerosi titoli – “principe”, “sindaco”, “Portatore dei sigilli del Re dell’Alto e Basso Egitto” – si leggono sulle facce dipinte dei pilastri e su alcuni degli oltre 50 coni funerari ritrovati.

Negli angoli nord e sud, due pozzi profondi 11 metri si datano, secondo l’egittologa Friederike Kampp che è una dei maggiori esperti della necropoli tebana, alla XVII dinastia (16650-1550 a.C.), seppur usati fino al regno di Hatshepsut (1479-1458) all’inizio della XVIII dinastia.

Nella tomba, le pareti sono decorate con scene rituali del defunto al cospetto degli dèi e di attività quotidiane, come caccia, pesca e fabbricazione di barche di papiro. Il corredo funerario comprende vasi, decine di ushabti in legno o faience, statuette lignee, una maschera in cartonnage, coperchi di vasi canopi in calcare e un rarissimo papiro intatto, scritto in ieratico e ancora avvolto nel lino. Una moneta in bronzo dell’epoca di Tolomeo II (285-246) attesta ovviamente una frequentazione più recente.

Attorno alla corte, come spesso accade a, si affacciano 6 tombe minori ancora da indagare.

Poco lontano, nella necropoli di Sheik Abd el-Qurna, sono state annunciate dal Ministero delle Antichità altre due sepolture. Risalenti alla XIX dinastia (1291-1185), appartengono a due funzionari di nome Akhmenu e Meryra. Del primo si conosce ancora poco, mentre del secondo, “Sovrintendente al tesoro”, è stato ritrovato uno splendido sarcofago policromo.

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Saqqara, scoperti tomba di un funzionario e il nome di una nuova regina di V dinastia

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Source: cegu.ff.cuni.cz

Il team diretto da Mohamed Megahed, lavorando a scavo, documentazione e restauro della piramide del penultimo faraone della V dinastia, nel settore sud della necropoli di Saqqara, aveva ritrovato ciò che resta della sovrastruttura di una sepoltura monumentale.

La vicinanza alla tomba del re e la qualità dei rilievi sopravvissuti all’espoliazione dei blocchi in calcare nelle epoche successive facevano già presagire un proprietario di rango elevato.

In effetti, dopo aver scavato la superiore camera delle offerte con pianta “ad L”, è stato raggiunto l’accesso alla parte sotterranea che, per la prima volta in una sepoltura privata, ricalca lo schema delle piramidi reali della V dinastia: corridoio discendente, vestibolo, anticamera e stanza del sarcofago.

In particolare colpisce la straordinaria conservazione delle pitture, dai colori ancora vividi, che ricoprono le pareti dell’anticamera. Il defunto, l’amico del ‘palazzo’ (titolo tipico dell’Antico Regno) Khuy, è rappresentato sulle pareti nord e sud seduto di fronte a una tavola d’offerta, mentre in basso ci sono scene del trasporto fluviale del sarcofago.

La parete est (a destra nella foto) è interamente occupata da una lunga lista di offerte e da una macellazione rituale di un bovino; quella ovest, invece, è decorata con il tipico motivo ‘a facciata di palazzo’.

Da qui si accede alla camera funeraria che non è dipinta, ma in origine doveva essere quasi completamente occupata dal sarcofago in calcare, ritrovato a pezzi per l’intervento dei ladri che visitarono la tomba già in antichità.

In effetti, non è stato trovato alcun oggetto del corredo, nemmeno nella piccola stanza accessoria che fungeva da magazzino, ma sono stati individuati frammenti del corpo di Khuy che presentano tracce di mummificazione.

Poco lontano, a nord-est della piramide di Djedkara, è emersa una colonna in granito rosso di Assuan che reca l’iscrizione: “Colei che vede Horus e Seth, la grande dello scettro-hetes, la grande di preghiera, moglie del re, sua amata Setibhor”.

Setibhor risulta quindi il nome di una regina finora sconosciuta, sposa di Djedkara e, a questo punto, proprietaria del complesso funerario che era ancora anonimo.

Questo complesso piramidale è il più grande per una regina di Antico Regno, uno dei primi ad essere realizzato a Saqqara Sud e caratterizzato da elementi appannaggio dei soli re, come le colonne palmiformi nel tempio funerario.

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