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Ricordo di Edda Bresciani

La prof.ssa Bresciani nel sito di Medinet Madi

Ieri, 29 novembre, è purtroppo venuta a mancare Edda Bresciani, Professore Emerito dell’Università di Pisa e socia nazionale dell’Accademia dei Lincei. Nel cercare di ricordare una delle figure più importanti dell’egittologia italiana e internazionale, si rischierebbe di cadere in un’infinita lista impersonale di pubblicazioni, scavi e titoli. Così preferisco riproporre le bellissime parole della professoressa Marilina Betrò, sua allieva, che è riuscita a far emergere anche il lato umano, così peculiare, oltre a quello, di altissimo livello, accademico. Aggiungere altro sarebbe solo superfluo.

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Ricordo di Edda Bresciani
di Marilina Betrò

Il mio cellulare è pieno dei suoi whatsapp, stringhe colorate di immagini, messaggi icastici, divertenti, graffianti, punteggiati di emoj, per lei nuovi geroglifici che combinava e dominava, scriba eccellente anche in questi.
Il vuoto enorme del suo silenzio ora lo sommerge, mi sommerge.

Aveva compiuto 90 anni lo scorso 23 settembre, una delle ultime telefonate con lei che già non stava bene, la festa che avrei voluto farle per quell’occasione rimandata “a quella per i 100”, come ci dicemmo.

Per chi l’ha conosciuta e ha studiato alla sua scuola parlarne ora solo come della “egittologa” Edda Bresciani sembra far torto a quello che era il suo spirito multiforme, la cultura immensa, la curiosità versatile, insaziabile.
Egittologa era, certo – e grande: studiosa conosciutissima, ammirata e amata nell’ambiente scientifico internazionale, demotista geniale, archeologa che ha legato il suo nome a siti interi dell’Egitto (la sua Medinet Madi, la Saqqara saitica e persiana, dove con lei ho mosso i miei primi passi, ancora studentessa, Tebe); autrice di libri su cui si sono formate e si formano generazioni di egittologi: Letteratura e poesia dell’antico Egitto. Cultura e società attraverso i testiNozioni elementari di grammatica demoticaI testi religiosi dell’antico EgittoLa porta dei sogni. Interpreti e sognatori nell’Egitto antico.

Ed era tantissime altre cose: Accademica dei Lincei, Socia corrispondente dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi, medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica per la Cultura e l’Arte, qui a Pisa Professore Emerito, insignita dell’Ordine del Cherubino, del Campano d’Oro e, come amava dire, “lucchese sì ma anche divenuta pisana dopo aver ricevuto, la Benemerenza di San Ranieri, prima donna ad esserne insignita”.

Ma soprattutto, al di là dei titoli e delle onorificenze, personalità irripetibile, irridente, irriverente, ironica, soprattutto auto-ironica, maestra unica: la provocazione – a pensare, a guardare il mondo da prospettive inedite, da sentieri mai battuti – era la sua maieutica.

Addio, Edda, ti ricordo qui con uno dei tuoi bellissimi haiku, uno dei pochi malinconici:

Bussa alla porta
portato dal vento –
un ramo secco
(Edda Bresciani, Pisa ETS, 2016)

Marilina Betrò
Professoressa di Egittologia e Civiltà Copta

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Il resto dell’articolo su:

https://www.unipi.it/index.php/news/item/19594-in-memoria-di-edda-bresciani

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Giovanni Romanin: la storia del cavatore che diede la vita per salvare Abu Simbel

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48 anni fa (22 settembre 1968), René Maheu, l’allora Direttore Generale dell’UNESCO, dichiarava ufficialmente conclusa una delle più grandi imprese ingegneristiche della storia, una vera e propria corsa contro il tempo per salvare un monumento patrimonio dell’umanità. Dopo quattro anni di duro lavoro, oltre 2000 uomini venuti da tutto il mondo erano riusciti a strappare dalla minacciosa avanzata delle acque del Nilo i templi di Abu Simbel.

Il salvataggio del complesso ramesside è il simbolo dell’iniziativa di 113 Paesi che, rispondendo all’appello lanciato dall’UNESCO con l’invio di denaro, tecnologie e professionalità di ogni tipo, si adoperarono alla protezione dei siti archeologici del Sud dell’Egitto e del Nord del Sudan che rischiavano di essere inghiottiti dal Lago Nasser. Infatti, con la costruzione della Grande Diga di Assuan, iniziata nel 1960, si sarebbe creato un enorme bacino idrico artificiale della superficie di circa 6000 km² in un’area ricchissima di testimonianze storiche. La campagna internazionale durò 20 anni, fino al 10 marzo 1980, e vide lo spostamento in punti più sicuri di 22 monumenti, come i templi di File che furono ricollocati sulla più alta isola di Agilkia. Tutto ciò che non si sarebbe potuto salvare fu documentato grazie a decine di missioni archeologiche, compresa quella italiana (Università di Torino, Milano e Roma “La Sapienza”) che, sotto la direzione di Sergio Donadoni, scavò nei siti di Demhit, Kalabsha, Kubban, Ikhmindi, Korosko-Qasr Ibrim, Tamit e Sonqi Tino. Il governo egiziano, poi, in segno di riconoscimento per l’aiuto ricevuto, donò interi edifici alle nazioni che si erano distinte nelle operazioni di salvataggio: il Tempio di Debod alla Spagna (Madrid), di Dendur agli USA (Metropolitan Museum di New York), di Taffa all’Olanda (Rijksmuseum van Oudheden a Leida), la porta del Tempio di Kalabsha alla Germania (Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino) e il santuario rupestre di Ellesija all’Italia (Museo Egizio di Torino). Il nostro Paese, in particolare, ebbe un ruolo di primaria importanza proprio ad Abu Simbel grazie all’avanzata perizia ingegneristica e, soprattutto, alla maestria in un mestiere secolare come quello dei cavatori di marmo.

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Febbraio 1966

I due templi si trovano 280 km a sud-ovest di Assuan, in pieno deserto. Fatti scavare nella roccia da Ramesse II (1279-1212) nel 26° anno di regno, servivano a celebrare la divinizzazione in vita del faraone e di Nefertari. Il Tempio Maggiore, con la facciata occupata dai quattro colossi alti 20 metri, era dedicato a Ptah, Amon-Ra, Ramesse II e Ra-Harakti; il Tempio Minore, poco più a nord, era consacrato ad Hathor e alla regina. Le dimensioni degli edifici e l’asprezza del luogo in cui sono ubicati rendono evidente come sia stato arduo realizzarli; difficoltà che incontrò 3000 anni dopo (1 agosto 1817) anche Giovan Battista Belzoni che fu il primo a riuscire a liberare il Tempio Maggiore dalla sabbia e a trovarne l’entrata; così, proseguendo fino al secolo scorso, la campagna dell’UNESCO, costata quasi 42 milioni di dollari, può essere considerata la terza grande impresa che ha interessato il complesso. Egittologi, epigrafisti, fotografi e disegnatori documentarono ogni singolo centimetro delle strutture per poi lasciar campo libero a ingegneri, architetti e operai in un gigantesco puzzle da 1041 tessere di 20 tonnellate! I templi, infatti, andavano letteralmente fatti a pezzi (alcuni dei quali raggiungevano il peso di 33 T) e rimontati in un punto che, 208 metri indietro e 65/67 più in alto, non sarebbe stato raggiunto dall’acqua. Durante le operazioni di smantellamento, terminate a febbraio/marzo 1966 (immagine in alto), fu costruito uno sbarramento che rallentasse l’avanzamento del lago. Ogni blocco numerato fu ricollocato al suo esatto posto tanto da mantenere l’allineamento che permette ancora il ripetersi, due volte l’anno (22 febbraio e 22 ottobre), seppur con uno sfasamento di un paio di giorni, del cosiddetto “Miracolo del Sole”, il fenomeno durante il quale, alle prime luci dell’alba, i raggi del sole attraversano tutto il Tempio Maggiore e illuminano tre delle quattro statue del sancta sanctorum. Il tutto, poi, fu ricoperto da due gigantesche cupole in cemento armato, dalla campata di 50 e 24 m, e dalla montagna artificiale che ricrea il paesaggio originario.

La fase più delicata dell’intero progetto fu probabilmente il sezionamento dei templi, soprattutto delle superfici a vista, che fu affidato agli Italiani: decine di esperti cavatori da Carrara e da Mazzano (BS) diressero gli operai egiziani in questo delicato compito. I tagli, infatti, dovevano essere il meno larghi possibile raggiungendo al massimo i 15-20 mm per le porzioni interne e addirittura 8 per le parti visibili. Per raggiungere una simile precisione, si poteva utilizzare esclusivamente la sega a mano; un lavoro a dir poco infernale se si considerano anche le temperature che possono superare i 45° (per questo, spesso si cominciava di notte), la sabbia che ostruisce le vie respiratorie e il vento tagliente del deserto che sferza la pelle. I reporter dell’epoca si stupivano del fatto che gli Italiani, al contrario degli operai locali, non usassero quasi mai occhiali protettivi e mascherina per “sentire meglio” la pietra. E pensare che molti di loro non avevano mai lasciato il loro paesino prima di allora e, di certo, non erano abituati a un clima del genere. Condizioni ambientali che, invece, conosceva benissimo Giovanni Romanin, uno dei protagonisti dell’impresa e alla cui memoria è dovuta la decisione di scrivere questo articolo. Perché ogni grande evento della storia è composto da migliaia di piccole esperienze intrecciate l’una all’altra, assemblate proprio come i blocchi dei templi ricostruiti, e quella di Giovanni si lega indissolubilmente ad Abu Simbel.

Giovanni, infatti, è stato uno di quei cavatori chiamati in Egitto dall’Italia dove, purtroppo, tornò privo di vita ancor prima del completamento dei lavori. Era nato il 4 maggio 1909 a Forni Avoltri (UD), un piccolo centro della Carnia la cui economia è da sempre basata sulle miniere e le cave alpine. Non a caso, Giovanni e il fratello Virginio vivevano proprio dell’estrazione della pietra locale e, per la loro esperienza, negli anni ’30 furono chiamati a lavorare in Etiopia. Ad Addis Abeba rimasero 13 anni durante i quali provarono le difficili condizioni climatiche che avrebbero ritrovato nel 1964 quando, dopo essere ritornati a casa, furono contattati dall’Impre.Gi.Lo (Impresit-Girola-Lodigiani), società specializzata in grande opere che, insieme ad altre 4 aziende, era stata incaricata dall’UNESCO per il trasloco. I due fratelli erano perfetti per quel ruolo grazie alle solide competenze professionali e al periodo passato in Africa; in particolare, Giovanni doveva amare veramente ciò che faceva perché, nelle foto, dove è riconoscibile dall’immancabile berretto nero, appare sempre sorridente (vedi in basso). Purtroppo, però, è impossibile trovarlo sorridente anche nelle foto di gruppo ufficiali scattate durante la cerimonia di chiusura del 22 settembre 1968: era spirato due anni prima senza la soddisfazione di veder coronati i suoi sforzi. Il 16 luglio 1964, infatti, fu colpito da un infarto e a nulla servì la corsa verso un ospedale di Assuan dove, unica vittima dell’intero corso del cantiere, arrivò già morto. Ma, più che ricordarlo per questo triste primato, a Giovanni Romanin vanno tributati tutti gli onori del caso per aver contribuito, perfino con la sua vita, al salvataggio di una delle meraviglie più rappresentative dell’antico Egitto.

Vorrei ringraziare di cuore la figlia Virginia che mi ha raccontato la storia del padre, purtroppo perso da bambina; una storia che merita di essere conosciuta da tutti e ricordata ogni qual volta ci si trovi di fronte a una foto dei quattro colossi di Ramesse.

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In ricordo del Prof. Sergio Donadoni

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Lo scorso 31 ottobre, preso da altri impegni, ho riportato, forse troppo frettolosamente solo sulla pagina Facebook e sul profilo Twitter del blog, una triste notizia. All’età di 101 anni, compiuti da poco, si è spento Sergio Donadoni, figura cardine dell’egittologia italiana e internazionale. I funerali si sono tenuti stamattina (2 novembre) a Roma, presso la chiesa dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Immagino, o meglio, spero, che la maggior parte delle persone che mi seguono sappia chi fosse il Prof. Donadoni, rendendo superflue le parole che andrò a scrivere. In ogni caso, mi sembra doveroso ricordare almeno gli eventi principali che hanno caratterizzato una lunghissima vita dedicata all’Egitto.

Nato a Palermo il 13 ottobre 1914, Donadoni studiò alla Normale di Pisa seguito da leggende dell’archeologia e della storia dell’arte come Annibale Evaristo Breccia, suo relatore e direttore del Museo Greco-Romano di Alessandria, Ranuccio Bianchi BandinelliMatteo Marangoni. Solo dopo la laurea del 1935, però, perfezionò la sua conoscenza egittologica a Parigi e Copenhagen, per poi insegnare presso le università di Milano, Pisa e Roma. Nel corso degli anni, si sono accumulati titoli e pubblicazioni. Era Professore Emerito presso “La Sapienza” di Roma, Doctor Honoris Causa all’Université Libre di Bruxelles, membro dell’Accademia dei Lincei, della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, dell’Académie des inscriprions et belles-lettres e dell’Institut d’Égypte, Premio Feltrinelli per l’Archeologia nel 1975 e Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica. Della sua sconfinata bibliografia, invece, cito “La civiltà egiziana” (1940), “Arte egizia” (1955), “La religione dell’Egitto antico” (1955), “Storia della letteratura egiziana antica” (1957) e “Appunti di grammatica egiziana” (1963). Non a caso, infatti, ho scelto di utilizzare uno dei suoi testi come foto dell’articolo perché, come per tutti gli studenti di egittologia italiani, è stato parte importante della mia formazione e perché non è l’immagine fisica che si lascia ai posteri ma il frutto del proprio lavoro.

Ovviamente, va ricordata anche la sua attività sul campo con la partecipazione agli scavi di Medinet Madi nel Fayyum e la direzione di quelli a Sheikh Ibada (Antinoe), della tomba di Sheshonq a El-Asasif (Tebe Ovest), di Gebel Barkal (Napata) in Sudan e molti altri. Ma, il ruolo di Donadoni che ha portato in alto la bandiera dell’egittologia italiana nel mondo coincide con la sua adesione alla squadra di studiosi internazionali convocati dall’UNESCO nel 1960 per salvare i monumenti nubiani minacciati dalla costruzione della Diga di Assuan. In quell’occasione, in una vera e propria corsa contro il tempo, il suo apporto fu fondamentale per lo studio e la tutela di decine di siti archeologici che, da lì a poco, sarebbero stati sommersi dalle acque del Lago Nasser.

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Il Prof. Sergio Donadoni compie 100 anni

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Il Prof. Donadoni, accompagnato dalla moglie, la Prof.ssa Anna Maria Roveri Donadoni, riceve dal Presidente Ciampi le insegne di di Cavaliere di Gran Croce dell’OMRI. (Source: quirinale.it)

Chi ama l’Egitto sicuramente conoscerà il Prof. Fabrizio Sergio Donadoni, una delle figure più importanti per l’egittologia italiana e mondiale del XX secolo, che oggi compie 100 anni! Così, mi permetto di fargli gli auguri provando a riassumere in breve la sua illustre carriera; cosa non semplice per le tante cariche e i suoi riconoscimenti: Professore Emerito presso “La Sapienza” di Roma, Doctor Honoris Causa all’Université Libre di Bruxelles, membro dell’Accademia dei Lincei, della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, dell’Académie des inscriprions et belles-lettres e dell’Institut d’Égypte, Premio Feltrinelli per l’Archeologia nel 1975 e Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica.

Nato a Palermo il 13 ottobre 1914, si avvicinò prima all’Egitto greco-romano laureandosi alla Normale di Pisa nel 1935 sotto la guida di Annibale Evaristo Breccia, direttore del Museo Greco-Romano di Alessandria. Successivamente, perfezionò la sua formazione a Parigi e a Copenhagen, per poi ricoprire la cattedra di egittologia presso le università di Milano, Pisa e Roma. Tra le sue numerosissime pubblicazioni, ricordiamo “La civiltà egiziana” (1940), “Arte egizia” (1955), “La religione dell’Egitto antico” (1955), “Storia della letteratura egiziana antica” (1957) e “Appunti di grammatica egiziana” (1963). Importante anche l’attività sul campo con la partecipazione agli scavi di Medinet Madi nel Fayyum e la direzione di quelli a Sheikh Ibada (Antinoe), della tomba di Sheshonq a El-Asasif (Tebe Ovest), di Gebel Barkal (Napata) in Sudan e molti altri.

Ma, il ruolo di Donadoni che ha messo più in risalto la presenza dell’egittologia italiana nel mondo coincide con la sua adesione alla squadra di studiosi internazionali convocati dall’UNESCO nel 1960 per salvare i monumenti nubiani minacciati dalla costruzione della Diga di Assuan. I quell’occasione, in una vera e propria corsa contro il tempo, decine di siti archeologici che, da lì a poco, sarebbero stati sommersi dalle acque del Lago Nasser, vennero studiati e pubblicati, mentre alcuni edifici, primo tra tutti il Tempio maggiore di Abu Simbel, furono addirittura spostati.

 

 

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In ricordo di Adriano Luzi per i 110 anni dalla scoperta della tomba di Nefertari

10660079_637758716344424_6434544396943632_nNel 1904, un italiano scopriva nella Valle delle Regine, a Tebe Ovest, quella che probabilmente è la tomba più bella d’Egitto. L’italiano era Ernesto Schiaparelli, l’allora direttore del Museo Egizio di Torino, mentre la tomba apparteneva alla celeberrima Nefertari, la Grande Sposa Reale di Ramesse II (1279-1212).

Nonostante l’opera dei saccheggiatori che lasciarono ben poco del corredo originario, la QV66 resta un gioiello per la sua struttura architettonica, paragonabile a quelle che si trovano nella Valle dei Re, e, soprattutto, per il magnifico ciclo pittorico che abbellisce le pareti e il soffitto. E se oggi, più di 3200 anni dopo, possiamo ammirare colori ancora così vividi, dobbiamo ringraziare altri italiani che, con il loro lavoro, hanno cancellato i segni del tempo e i danni provocati dall’uomo. Tra questi, ne va ricordato uno in particolare che, in questi giorni, non parteciperà alle cerimonie per il 110° anniversario della scoperta della tomba, non perché non sia stato invitato, ma perché, purtroppo, è venuto a mancare prematuramente nel 2003: Adriano Luzi.

Marchigiano di Comunanza (AP), Adriano Luzi è stato uno stimato restauratore che, prima di arrivare in Egitto, si era già occupato di opere di Bernini, Daniele da Volterra e Jacopo Zucchi. Poi, nel 1986, il colpo di fulmine con la regina che può essere spiegato solo con le sue stesse parole:

“Nella tomba di Nefertari ho trascorso cinquecento giorni a tu per tu con la più bella, la più potente, colei per la quale il sole sorge. Nell’arco di sei anni abbiamo lavorato su ogni centimetro di 520 metri quadrati di pareti e soffitti dipinti, pulendo e consolidando, riattaccando frammenti di colore e sostituendo il micidiale cemento, collocato da precedenti restauratori, con impasti di fango e paglia degli antichi Egizi. Dentro quella tomba ho lasciato parte della mia vita, parte di me. Mi sono lasciato affascinare da Nefertari come mi sono lasciato conquistare dall’Egitto”.

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Prima del restauro, le pitture erano in pessime condizioni, soprattutto a causa degli scellerati interventi degli anni ’50 con iniezioni di gesso e vinavil. Così, il Getty Conservation Institute (Los Angeles) investì due milioni di dollari e affidò i lavori di ripristino a Paolo e Laura Mora (Istituto centrale del restauro di Roma). La loro equipe, tra cui c’era Luzi, riportò i dipinti ai vecchi fasti utilizzando solo prodotti naturali come calcare, limo, sabbia, fibre vegetali. Nonostante ciò, per la fragilità della tomba, si è deciso di impedire l’accesso ai turisti, salvo costosi permessi speciali, e, per sopperire alla chiusura al pubblico, a breve (in teoria), dovrebbero partire i lavori di realizzazione di una copia perfetta scala 1:1.

Il legame di Adriano con Luxor non si è interrotto grazie al restauro della TT240 a El-Asasif, la Tomba di Meru (funzionario sotto Mentuhotep II), sotto la direzione del Prof. Alessandro Roccati della “Sapienza” di Roma. E poi ancora il consolidamento degli affreschi della “Chiesa Sospesa” (El Muallaqa, Cairo Vecchia) e, per l’American Research Center in Egypt, dei monasteri copti di Sant’Antonio sul Mar Rosso, di San Paolo l’Eremita sul Mar Rosso e di San Bishoi (il cosiddetto “Monastero Rosso”) a Sohag.

Ma il modo giusto per rendere viva la memoria di un professionista è mostrare il frutto del suo lavoro, cosa possibile grazie a queste splendide foto gentilmente fornitemi da Damiano Luzi, fratello di Adriano, anch’egli purtroppo poi venuto a mancare. Le immagini mostrano alcune pitture della tomba di Nefertari prima e dopo il restauro. Il risultato è evidente; non servono ulteriori commenti:

henty.reky colui che allontana il nemico prima del restauro  durante il restaurodopo il restauro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la regina prima del restaurodopo il restauro1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’archeologa Monica Hanna riceverà il “2014 SAFE Beacon Award”

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Mai riconoscimento è stato più meritato e, sperando che molti altri seguano l’esempio di Monica, le faccio tutte le mie congratulazioni! L’Egitto ha bisogno dell’impegno di tutti…

http://archeoblog.associazionevolo.it/2014/03/02/larcheologa-monica-hanna-ricevera-il-2014-safe-beacon-award/

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James Simon: storia di un mecenate ebreo dimenticato

simon-010809Nella Giornata della Memoria, è doveroso menzionare la figura di un ebreo che, in un certo senso, potrebbe essere considerato il padre della scoperta del celeberrimo busto di Nefertiti. È vero che i soldi non sono tutto nella vita, ma questa massima non può essere applicata alle missioni archeologiche che, senza fondi, non sussistono. Così, l’uomo che va ricordato oggi è James Simon, il finanziatore della spedizione di Borchardt.

James Simon (1851-1932) era un berlinese ereditiere di una ricchissima società che si occupava di commercio del cotone. Proprio per formarsi nell’attività di famiglia, fu costretto dal padre ad abbandonare gli studi di filologia classica, ma l’amore verso la storia, l’arte e, in modo particolare, l’archeologia continuò a caratterizzare la sua intera vita.

Considerato uno dei più grandi filantropi e mecenati della storia tedesca, Simon spese circa un quarto del suo patrimonio in attività culturali. E quei soldi gli avrebbero fatto sicuramente comodo visto che, a causa dell’allora crisi economica, dovette vendere i beni restanti, morendo solo in un piccolo appartamento a Berlino.

Nel 1898, fondò la “Deutsche Orient-Gesellschaft in collaborazione con il direttore dei Musei di Stato di Berlino, Wilhelm von Bode; nel 1911, versò 100.000 marchi alla neonata Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften”, società che promuoveva l’avanzamento scientifico della nazione; inoltre, donò alla Galleria Nazionale dipinti di Rembrandt, Bellini, Mantegna e diversi reperti medievali e mesopotamici.

Sempre nel 1911, Simon finanziò la missione di Ludwig Borchardt ad Amarna, l’antica capitale di Akhenaton, e, secondo gli accordi stipulati con il direttore del Consiglio delle Antichità Egiziane, Gaston Maspero, divenne il legittimo proprietario della gran parte dei reperti trovati durante gli scavi, compresi il busto di Nefertiti e la testa di Tiye. Ma, nel 1920, donò tutto allo Stato; inoltre, quando l’Egitto chiese ufficialmente la restituzione del busto, Simon si dichiarò favorevole al ritorno in patria del pezzo. Von Bode non acconsentì (tutt’oggi, la polemica tra Egitto e Germania è più che mai accesa su questo argomento) e Simon, per protesta, rifiutò l’invito all’inaugurazione del Pergamon Museum.

La sua generosità non si limitava alla cultura; ad esempio, fece costruire bagni pubblici e case per i bambini disagiati e aiutò migliaia di ebrei tedeschi a emigrare verso l’America e la Palestina. L’avvento di Hitler ci sarebbe stato solo nel 1933, ma l’antisemitismo in Germania, come in gran parte del mondo, era già molto radicato. Ed è stato proprio quest’odio razzista ad aver fatto dimenticare per decenni James Simon, cancellato dai libri di storia per volontà del governo nazista perché ebreo. Quando Hitler divenne cancelliere, la targa di bronzo commemorativa a lui dedicata sulla facciata del Neues Museum venne asportata, ogni riferimento alle sue donazioni fatto sparire e la sua villa, dove conservava le opere d’arte prima delle donazioni, data alle fiamme.

Solo alle soglie del XXI secolo, i Tedeschi hanno deciso di ricordare questo benefattore nel migliore dei modi. Infatti, oltre al piccolo busto collocato nel Bode Museum (dove sono conservati dipinti e sculture medievali donate da Simon), nel 1999, si è deciso di intitolare alla sua memoria la nuova entrata dell’Isola dei Musei, un edificio che facesse da raccordo tra l’Altes, il Neues, l’AlteNationalgalerie, il Bode e il Pergamon; il progetto della James Simon Gallery, però, è stato approvato solo nel 2006 e i lavori sono tuttora in corso.

Gli scavi di Amarna, quindi, non sono l’unica cosa che lega Simon ad Akhenaton: la damnatio memoriae è stata la stessa triste sorte che ha colpito i due a oltre 3200 anni di distanza.

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Il ritorno (?) di Zahi Hawass

Zahi Hawass at the Egyptian Museum in Cairo, Egypt, 2011

Source: The Guardian

Pur essendo lontano dall’Egitto ormai da quasi tre anni, Zahi Hawass puntualmente fa parlare di sé (basta vedere tutte le polemiche scoppiate in questo periodo: 1, 2, 3, 4). L’ex Segretario Generale dello SCA ed ex Ministro delle Antichità prova a preparare il terreno per un suo ritorno in patria. Infatti, praticamente esiliato dal 2011 per i suoi rapporti con Mubarak, è di nuovo al servizio del governo egiziano come ambasciatore all’estero del Ministero del Turismo, ma lui vorrebbe rioccupare il suo originario posto di “padre padrone” dell’archeologia della Valle del Nilo.

Per fare ciò, Hawass ha cominciato a lisciare il pelo al generale Abdel Fattah al-Sisi, tra i protagonisti della destituzione di Morsi e della presa di potere da parte dell’esercito nello scorso luglio, paragonandolo a Mentuhotep II, il faraone della XI dinastia che riportò ordine e unità nell’Egitto frazionato del I Periodo Intermedio e da cui, convenzionalmente, si fa partire il Medio Regno. Il generale sarebbe l’uomo forte in grado di controllare il Paese e di portarlo a una nuova costituzione e, aggiungendo con la sua tipica teatralità, l’unica speranza in vista.

Dal canto suo, l’archeologo egiziano spera di riabilitare la sua reputazione contaminata non solo da accuse di collusione con il regime Mubarak, ma anche di corruzione, dispotismo e tratta di antichità. Zahi è convinto di poter guidare la rinascita delle antichità egizie, ma non adesso perché, avendo paura di scottarsi di nuovo, aspetta la formazione di un governo stabile.

http://www.theguardian.com/world/2014/jan/02/zahi-hawass-egypt-abdel-fatah-al-sisi-pharaoh

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