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Da dove viene il pugnale in ferro meteoritico di Tutankhamon?

Ormai da qualche anno si leggono sul web titoli clickbait sull’origine extraterrestre di un pugnale trovato nella tomba di Tutankhamon. Ora se ne stanno aggiungendo altri su una presunta provenienza mitannica.

L’arma, lunga circa 34 cm, era posizionata sopra la coscia destra della mummia del giovane faraone (foto in basso). La guaina d’oro è decorata con motivi a piuma da un lato e floreali dall’altro; il manico, invece, è adornato con granulazione d’oro, intarsi in pasta vitrea e un pomello in cristallo di rocca. Ma quello che colpisce in questo caso è il materiale della lama, la cui origine “spaziale” era stata già confermata da uno studio italo-egiziano del 2016. Il regno di Tutankhamon (1332-1323 a.C.), infatti, è collocato nell’Età del Bronzo, quando non esistevano ancora le tecnologie per la fusione del ferro; pertanto, i rari – e alcune volte anche molto più antichi – casi in cui è attestato l’utilizzo di questo metallo in Egitto derivano da una difficile lavorazione di una materia prima proveniente da meteoriti.

Non si sa precisamente come gli artigiani forgiassero il ferro meteoritico, ma i ricercatori giapponesi del Chiba Institute of Technology hanno cercato di trovare una risposta al quesito grazie a un recente studio sul pugnale, pubblicato su Meteoritics & Planetary Science. Grazie ad analisi chimico-fisiche non distruttive, come la spettrofotometria XRF, è stato stabilito che l’oggetto potrebbe essere stato lavorato a bassa temperatura, cioè inferiore ai 950° C.

Inoltre, è stata evidenziata una quantità di nichel tipica delle ottaedriti e che le piccole macchie scure ricche di zolfo sulla lama sarebbero inclusioni di troilite, frequenti ancora una volta nelle meteoriti ferrose. Quindi, confermata la genesi meteoritica del ferro… e qui bisognerebbe fermarsi. L’articolo, però, in un modo un po’ troppo speculativo, va oltre e parla di una provenienza straniera per l’utilizzo dell’intonaco di calce come fissante delle decorazioni dell’elsa; inoltre, si spinge a ipotizzare un’origine mitannica (fra l’altro sbagliando a posizionare il regno in Anatolia). Se è vero che in due lettere (EA 22 I, EA 22 III) che il re dei Mitanni Tushratta inviò al nonno di Tut, Amenofi III, siano menzionati oggetti simili al pugnale tra i doni effettuati in occasione del matrimonio del faraone con la principessa mitannica Tadukhipa, non è possibile definirne una corrispondenza sicura con quello trovato nella KV 62.

L’articolo completo: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/maps.13787

Source: Griffith Institute, University of Oxford
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“Saudade tolemaica”: un webcomic in cui Cleopatra è intrappolata in un moderno museo romano

Quando si è un creatore di contenuti web, la speranza è sempre quella di vedere che ciò che si pubblica non si perda inutilmente nell’etere, ma che lasci il segno in più “follower” possibili, a maggior ragione se si cerca di fare divulgazione scientifica o culturale. Potete quindi immaginare la mia felicità quando, qualche mese fa, mi arrivò una proposta che mi lasciò letteralmente senza parole.

Chiara Raimondi, una giovane disegnatrice piena di talento e già con alle spalle un eccezionale curriculum di pubblicazioni e collaborazioni internazionali, mi chiese di poter realizzare un fumetto su un racconto breve che scrissi nel 2017 nell’ambito del progetto ArcheoRacconto delle amiche Stefania Berutti e Marina Lo Blundo. Quella volta mi feci ispirare dalla visita della Centrale Montemartini, uno dei musei più suggestivi di Roma e non solo, e buttai giù un piccolo pezzo ironico, immaginando cosa avrebbe potuto pensare la grande Cleopatra VII se obbligata a restare fissa, nella nostra contemporaneità, tra le altre statue e i vecchi macchinari industriali della struttura.

Mi è bastato veramente un attimo per farmi convincere dal tratto peculiare di Chiara e accettare quindi la proposta. Ecco così che, con grandissimo piacere e orgoglio, presento “Saudade tolemaica”, un webcomic in cui alla mia idea iniziale è stata data nuova vita, trasformando le parole in immagini. Colgo l’occasione per invitarvi a dare un’occhiata al portfolio di Chiara, non solo per leggere il fumetto in modo forse più comodo, ma anche per godervi gli altri suoi spettacolari lavori: https://www.behance.net/chiararaimondi

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Individuati per la prima volta due “coni di profumo”

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Source: Amarna Project

Sono tra gli oggetti più peculiari della produzione iconografica dell’antico Egitto, ma, per assurdo, non se ne aveva nemmeno un singolo esemplare tangibile… almeno fino ad oggi: i coni di profumo.

user915_pic1169_1235393309Dalla XVIII dinastia (1550 a.C. circa) fino all’età tolemaica (30 a.C.), nelle rappresentazioni pittoriche su pareti delle tombe, stele o sarcofagi si notano spesso questi caratteristici “copricapo”, di solito bianchi con striature scure a zig zag, sulle teste dei defunti banchettanti, ma anche di ballerine, musiciste e sacerdoti. La mancanza di un riscontro reale da un contesto archeologico, unita al fatto che non si conosce nemmeno la parola adottata dagli Egizi per definire questi oggetti, ha da sempre creato un acceso dibattito tra gli egittologi. Alcuni studiosi, infatti, dubitavano addirittura dell’esistenza concreta dei coni considerandoli un mero espediente iconografico per esprimere una simbologia legata alla sessualità e fertilità, alla rinascita dopo la morte, all’ostentazione di un determinato stato sociale o alla rappresentazione del ba del defunto.

In genere, però – per via dell’analisi iconografica delle scene, in cui spesso i coni sono collegati ai fiori, e di comparazioni con le abitudini di tribù africane moderne – si è sempre ipotizzato che fossero cupolette di grasso misto ad oli o resine che, sciogliendosi per il caldo, avrebbero impregnato i capelli (veri o parrucche) con un profumo gradevole. A sua volta, questa interpretazione prevede anche un possibile riscontro simbolico con l’utilizzo del profumo come paradigma di purificazione del corpo.

Tutti questi dubbi sembrano essere stati fugati l’altro ieri grazie a una pubblicazione su Antiquity di un gruppo di ricerca diretto da Anna Stevens (Monash University in Melbourne, Australia). Recenti esami spettroscopici (XRF e DRIFTS) hanno infatti rivelato la natura di due coni scoperti nel 2010 e nel 2015 in tombe non elitarie delle necropoli, rispettivamente meridionale e settentrionale, di Tell el-Amarna, l’antica capitale di Akhenaton (1347-1332). Il primo è stato scoperto ancora in situ (foto in alto) sulla testa di una donna morta tra i 20 e i 29 anni ed era alto 8 cm e largo 10. Il secondo, invece, si trovava in frammenti in una sepoltura violata dove il corpo del defunto, il cui sesso è inidentificabile, era stato completamente rimestato.

Le analisi hanno mostrato che gli oggetti non erano fatti né di grasso né d’incenso ma in cera, probabilmente d’api, rivestiva da strisce di lino ormai quasi del tutto perdute. Tuttavia non è stato possibile rilevare tracce di profumo, ma questo non vuol dire che non ci sia mai stato. L’interpretazione della funzione dei coni rimane comunque difficile. Il contesto molto povero di semplici fosse scavate nella sabbia esclude necessariamente l’identificazione di status symbol, ma tutte le altre ipotesi restano in piedi. Gli autori dell’articolo pensano che i coni – forse solo modellini – potessero essere sia simboli di rinascita dopo la morte sia, visto l’accostamento ad almeno una donna adulta, un auspicio di fertilità nell’altro mondo.

 

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Individuato il più antico esempio di “Libro delle Due Vie”

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Source: Willems H., in JEA 105 (2019), p. 3

Se il mondo è difficile, l’Aldilà lo è ancora di più. O almeno così la pensavano gli antichi Egizi che immaginavano un’esistenza ultraterrena zeppa di animali velenosi, laghi infuocati e demoni ostili pronti a decapitarti con lunghi coltelli. Per tutelare i defunti da tutti questi pericoli furono elaborate numerose formule protettive e invocazioni a divinità raccolte in corpus religiosi piuttosto eterogenei. Tra questi, più o meno dalla fine dell’Antico Regno alla fine del Medio Regno, si svilupparono i cosiddetti Testi dei Sarcofagi (il titolo originale era “Formule di glorificazione”), evoluzione più “democratica” (scritto tra mille virgolette) dei Testi delle Piramidi perché non più appannaggio dei soli faraoni e regine.

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ph. M. Mancini

Come dice il nome stesso, il principale supporto per questo gruppo di 1185 formule erano le facce interne dei sarcofagi lignei. In particolare, alcune varianti provenienti da Deir el-Bersha (Medio Egitto) presentano il cosiddetto “Libro delle Due Vie”, una vera e propria raccolta topografica d’informazioni che conducono il defunto nella Duat. Intorno alla rappresentazione grafica dei due possibili percorsi, via terra e via fiume, si susseguono formule, titoli, nomi e didascalie che riempiono ogni spazio vuoto (a sinistra, l’esempio del sarcofago di Gua, XII din., ora al British Museum). Di solito si trovava nella parte interna della base dei sarcofagi, così che il morto potesse consultare più agevolmente la mappa sotto di lui.

Un recente studio, pubblicato da Harco Willems (KU Leuven, tra i maggiori esperti dei Testi dei Sarcofagi) sull’ultimo numero del Journal of Egyptian Archaeology, avrebbe individuato il più antico esemplare del Libro delle Due Vie, risalente a 50 anni prima degli altri esempi conosciuti. Il testo è vergato su due frammenti di sarcofago trovati nel 2012 proprio a Deir el-Bersha, in uno dei pozzi funerari del complesso funerario di Ahanakht I, nomarca all’inizio del Medio Regno, sotto il faraone Mentuhotep II (2064-2013 a.C.). Inizialmente il sarcofago era stato attribuito ad Djehutynakht, predecessore di Ahanakht, ma poi si è visto che invece apparteneva a una donna chiamata Ankh.

Seppur trovato ancora in situ, lo stato del sarcofago era pessimo a causa dell’azione degli antichi tombaroli e dei parassiti, ma le tracce di pittura rimaste su due frammenti di legno hanno permesso di leggere le formule CT 1128 e 1130 con la conseguente identificazione di un Libro delle Due Vie di oltre 4000 anni.

https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/0307513319856848  (link non più valido, quindi provate qui: https://www.researchgate.net/publication/336012918_A_Fragment_of_an_Early_Book_of_Two_Ways_on_the_Coffin_of_Ankh_from_Dayr_al-Barsha_B4B)

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“EGITTO”: la nuova collana di volumi De Agostini sulla civiltà egizia

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Quando presento sul blog pubblicazioni scientifiche sulle ultime scoperte archeologiche in Egitto, spesso mi chiedete dove poter reperire le stesse informazioni in modo più semplice e soprattutto meno ingessato dal linguaggio tecnico accademico. Infatti, soprattutto nel panorama italiano, non è semplice trovare seri testi divulgativi che si occupino di storia egizia senza sconfinare nei soliti cliché triti e ritriti o, ancor peggio, in strane teorie alternative.

Così colgo con piacere l’occasione di consigliare a tutti gli egittofili, o a chi semplicemente voglia approfondire la propria conoscenza della civiltà faraonica, la nuova opera editoriale di De Agostini – una sicurezza in questo senso – che uscirà in edicola il 3 agosto 2019. “EGITTO” è una collana di 45 volumi illustrati che toccherà tutti gli aspetti tipici della Valle del Nilo, divisi in 7 categorie: Storia, Arte, Viaggio in Egitto, Vita Quotidiana, Scrittura, Scienza e Riscoperta dell’Egitto e Religione. A quest’ultimo argomento – forse il più peculiare – è dedicata la prima uscita che ho potuto consultare in anteprima per parlarvene.

Articolo 1Il volume tratta, come si legge dal sottotitolo, di riti, mummie e magie. Nell’eterogeno pensiero religioso egiziano, i molteplici culti sono presentati insieme a figure sacerdotali, oggetti e simboli relativi. Ho apprezzato soprattutto il fatto che si parli anche della religione popolare, tanto importante quanto sottovalutata rispetto al canone ufficiale dei grandi templi. Una parte rilevante è riservata al concetto di magia nell’antico Egitto (heka) e al potere della parola, mai così forte nelle altre civiltà del passato. Infine, non poteva mancare una lunga panoramica sulla mummificazione, il rituale che più di tutti cattura la curiosità delle persone, raccontata attraverso la sua origine, la sua evoluzione nel corso dei secoli, i significati pratici e simbolici di ogni passaggio.

In generale, “EGITTO” affronta ogni tema con un linguaggio semplice ma non banale, accompagnato da belle foto che riempiono tutte le pagine; inoltre, nei numerosi approfondimenti si trovano parallelismi con altre culture, riferimenti ai tempi odierni, descrizione delle ultime scoperte e curiosità varie.

Senza aspettare agosto, è già possibile abbonarsi online ad “EGITTO” sul sito https://track.adform.net/C/?bn=30776154. Inoltre, inserendo il codice promozionale REGALOEGITTO entro il 31 luglio 2019, riceverete un omaggio in più oltre ai regali riservati agli abbonati.

 

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Erodoto aveva ragione nel descrivere i battelli del Nilo?

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Ph: Christoph Gerigk/Franck Goddio/Hilti Foundation

Le fonti storiche letterarie – si sa – non possono essere prese come oro colato a causa del loro contenuto contaminato da luoghi comuni, intenti propagandistici o semplicemente da una diversa visione del mondo rispetto a quella nostra attuale. Un chiaro esempio è la descrizione, spesso fantasiosa, che Erodoto fa nelle sue “Storie” dell’Egitto, paese che visitò intorno al 450 a.C. ma che rimase comunque estraneo – o meglio, strano – per la sua formazione culturale. Molte sono le cose raccontate dallo storico di Alicarnasso che non hanno avuto una conferma dall’archeologia, come le “baris”, particolari imbarcazioni fluviali mai ritrovate. Almeno fino a qualche anno fa.

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Ph: Christoph Gerigk/Franck Goddio/Hilti Foundation

Nel 2003, infatti, il team dell’Institut Européen d’Archéologie Sous-Marine diretto da Franck Goddio ha individuato nella baia di Abukir, dove una volta sorgeva la città di Heracleion, un relitto che confermerebbe quanto scritto da Erodoto nel Libro II, 96 1-5:

96 1) I loro battelli mercantili sono costruiti in legno di acacia; un albero somiglia molto al loto di Cirene, eccetto per la gomma che ne sgocciola. Tagliano da questa acacia tavole di circa due cubiti, che mettono insieme come mattoni, costruendo il battello come segue: 2) Collegano le tavole, di due cubiti, con lunghe e fitte costole; e quando hanno costruito in questo modo vi tendono sopra delle traverse. Nessun uso di tavole laterali. Turano le giunture con papiro; 3) apprestano un solo timone, che passa attraverso la carena. Per l’albero adoperano l’acacia e per le vele il papiro. Questi battelli non possono risalire il fiume se non soffia un forte vento, e vengono tirati da terra. Invece quando seguono la corrente, ecco come vanno: 4) c’è un graticcio costruito di tamerici, tenuto insieme da una stuoia di canne, e una pietra forata del peso di circa due talenti. Il graticcio viene gettato, legato a una fune, avanti al battello, così che il fiume lo porti in superficie, e dietro, con un’altra fune, la pietra. 5) La tavola, sotto la spinta della corrente, avanza veloce trascinando la “baris” – tale è il nome che hanno appunto questi battelli -, e la pietra, trascinata dietro e stando sul fondo del fiume, mantiene dritto il corso della navigazione. Gli egiziani hanno una grande quantità di questi battelli, di cui alcuni trasportano molte migliaia di talenti”.

csm_Ship_17_Cover_c6d2a7486dCome detto, la scoperta non è recente e le prime pubblicazioni sulla cosiddetta “Ship 17” risalgono al 2014, ma la notizia è tornata alla ribalta grazie all’uscita del volume (immagine a sinistra) di Alexander Belov, direttore dell’Oxford Centre for Maritime Archaeology e già autore di uno studio sul battello per il suo dottorato.

Quella che, secondo Belov, è proprio una baris risale alla metà del V-metà del IV sec. a.C. ed ha ancora il 70% della chiglia integro, un eccezionale stato di conservazione che ha permesso una comparazione con i dati forniti da Erodoto. La nave presenta un vasto scafo, in origine lungo 27-28 metri, a forma di mezza luna che non ha precedenti archeologici. La tipologia con timone assiale, seppur nota fin dalla VI dinastia in rilievi e modellini, non era mai stata documentata in un vero esemplare. Come nel testo sopra riportato, il fasciame è assemblato trasversalmente da “lunghe e fitte costole” in acacia che raggiungono i 2 metri, simili nel loro incastro a “mattoni”. Lungo l’asse centrale, invece, due fori a poppa servivano per il timone e un gradino sopraelevato per l’albero. Tuttavia, ci sono due differenze tra il relitto e la baris delle Storie: le dimensioni quasi doppie (2 cubiti corrispondono a 1,04 m) e la presenza di travi laterali atte a rinforzare punti particolarmente delicati della chiglia.

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Alberto Angela: “CLEOPATRA: la regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità” (recensione)

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Ho da poco terminato di leggere il libro di Alberto Angela e sono davvero deluso. Ma andiamo per ordine.

Il 25 novembre 2018, alla presenza della consueta folla di ammiratori, è stata presentata a Roma l’ultima fatica editoriale del divulgatore televisivo più amato d’Italia: “Cleopatra. La regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità”. Da subito è parso evidente che per la HarperCollins – che ha ‘strappato’ Angela da Rizzoli per tre libri – questa operazione sarebbe stata un vero affare. Infatti, la popolarità dell’autore, la sua ferrea fanbase in costante crescita, ma anche la scelta di scrivere di una delle figure storiche più iconiche di sempre (tema già trattato in una puntata di Ulisse) non potevano che tradursi in un successo di vendite. 

Anch’io sono tra quelli che hanno acquistato il libro, spinto ovviamente dal tema trattato e dalla voglia di parlarne qui sul blog. Come già detto, “Cleopatra” è pubblicato da HarperCollins – la casa editrice degli Harmony (particolare che, come vedrete, non cito a caso) – in collaborazione con RaiEri, per un prezzo di 20 euro e 446 pagine. La seguente recensione sarà divisa in paragrafi, alcuni più oggettivi altri meno, per questo occorre fare un paio premesse:

  • è la prima volta che leggo qualcosa di Alberto Angela quindi il mio giudizio non è estendibile a tutta la sua bibliografia; 
  • anticipo sul nascere eventuali accuse di ‘snobismo da archeologo’ affermando tranquillamente – qualora non bastasse la mia attività di divulgazione – che stimo tutti coloro che parlano seriamente, ma in modo semplice, di storia e archeologia in TV, tra i quali Alberto è senza dubbio il più efficace. 

Copertina

Lo so, non si giudica un libro dalla copertina, ma sfido qualsiasi grafico a scontornare peggio una figura… Vabbè, passiamo alle cose serie.

Contenuto storico

Sull’attendibilità dei dati presentati non posso dir nulla non avendo rilevato errori importanti (tuttavia, c’è da specificare che mi riferisco solo alla minuscola parte egittologica; anzi, invito i colleghi classicisti a dire la loro). Infatti, seppur accompagnate – come vedremo – da una cospicua componente romanzata, le vicende sono tutte descritte seguendo fonti archeologiche, testi di storici antichi (con i riferimenti indicati in fondo al libro) e recenti lavori di studiosi contemporanei. Nei ringraziamenti, leggiamo che l’autore si è avvalso della consulenza di esperti quali Romolo Augusto Staccioli (professore di Epigrafia alla “Sapienza” di Roma), Giovanni Brizzi e Francesca Cenerini (professori di Storia romana all’Università di Bologna) e di “una squadra di egittologi” (sic) di cui purtroppo non cita i nomi. D’altronde, i programmi degli Angela ci hanno abituati bene e, anche se non scevri da topiche ed eccessive semplificazioni, sono una boccata di aria fresca nel panorama televisivo italiano e la prova che si può fare ascolti anche con la cultura.

Stile di scrittura

Tornando a valutazioni più soggettive, trovo che lo stile di Alberto si adatti poco alla forma scritta. In sostanza, l’autore utilizza lo stesso linguaggio parlato con cui riesce a coinvolgere il pubblico televisivo ma che, riportato su carta, rischia di far perdere il lettore. Il ritmo è spezzato da numerose subordinate e continue digressioni/spiegazioni che funzionano solo se nel frattempo passano in onda immagini che aiutano a comprendere il senso e a riprendere il filo del discorso. Allo stesso modo, trovo meno accattivante il tentativo di avere un rapporto diretto con chi legge tramite domande dirette e ‘ammiccamenti’ vari che hanno senso solo se accompagnati dal cambiamento del tono della voce, dall’espressività del volto o dalla gestualità delle mani. Anche gli onnipresenti puntini di sospensione risultano più fastidiosi che funzionali nel ricreare le tipiche pause allusive della narrazione ‘angeliana’.

Stile narrativo

Anche in questo caso, la formula adottata si rifà chiaramente al format televisivo. La classica descrizione degli eventi storici si accompagna a una narrazione più romanzata, proprio come quando, terminato di parlare, Alberto Angela lascia spazio a brevi filmati di sceneggiati in costume. In sostanza, c’è una continua alternanza tra spiegazione e fiction. Nel primo caso, l’autore fa ampio uso delle fonti e cita studiosi, ma utilizza anche riferimenti moderni – a volte forse un po’ troppo azzardati (vedasi Cleopatra paragonata a Lady Gaga) – per rendere più chiari i concetti. A tal proposito, ho trovato forzata la continua volontà di presentare la regina come una donna moderna (“oggi sarebbe una top manager”) che riuscì ad imporsi in una società iper-maschilista. Ovviamente non furono molti i sovrani di sesso femminile a governare l’Egitto, ma Cleopatra VII non fu nemmeno l’unica. Spesso si rischia di miticizzare troppo personaggi che, al di là dei loro effettivi meriti, devono il loro posto nella memoria collettiva all’incrocio degli eventi in cui sono vissuti. Quindi, se proprio vogliamo dare un peso alle azioni dei protagonisti della storia, toglierei qualche oncia dal piatto di Cleopatra e la metterei su quelli di Cesare e Marco Antonio, troppo spesso presentati nel libro – soprattutto il secondo – quasi come succubi delle decisioni della regina.

Ma davvero vogliamo credere che due tra i più grandi generali e politici di Roma si siano mossi, seppur in minima parte, per amore o passione? Con il rischio di sembrare cinico, credo che in liaison di un certo livello i sentimenti contino poco o niente. Lo stesso Angela scrive: “Va ricordato comunque che le unioni in questo periodo non sono guidate tanto da un’attrazione fisica o sentimentale, quanto, anzi soprattutto, dalla volontà di suggellare unioni di politica, potere e ricchezze”. Tuttavia, per il resto del libro sembra dimenticarsene virando verso qualcosa che è stato definito da alcuni ‘soft porn’. Non so se questa sia una deriva recente più o meno voluta per avvicinarsi al target femminile di pubblico che si è creato come effetto della sua fama collaterale da sex symbol, ma in molte pagine sembra veramente di leggere un Harmony. Certo, aggiungere un po’ di pepe (Q.B.) al racconto storico può destare l’attenzione dei più riluttanti alla materia, ma in questo libro le dosi di spezie sono spesso ‘indiane’. In effetti, già gli scrittori latini ci erano andati pesanti con Cleopatra ingigantendo la sua fama di donna ammaliatrice, di prostituta orientale, ma lo facevano per mera propaganda pro-Ottaviano. D’altronde, anche Marco Antonio è screditato dalle fonti e presentato come schiavo del sesso e rammollito dalle attenzioni della meretrice straniera. Ma di certo si rimane un po’ perplessi quando si legge che al triumviro, incontrando a Tarso Cleopatra “forse nuda”, sarebbe “cascata a terra la mandibola come nella scena di The Mask”.

Nella narrazione più romanzata, si finisce spesso in descrizioni accurate – sia chiaro, mai volgari – degli incontri amorosi di Cleopatra. Prima si fa riferimento alla probabile rasatura pubica della regina, poi si fanno ipotesi su chi abbia preso la sua verginità trovando in Cesare il candidato più attendibile (e, poverina, le viene anche imputata una scarsa esperienza amatoria al cospetto del più anziano dittatore) e infine si indugia sulla foga scoppiata già al primo incontro con Antonio (“con il petto ampio e muscoloso, le spalle larghe, il corpo possente e massiccio di un Ercole”) che non riesce a tenere a posto le mani nonostante si stia giocando il dominio del Mediterraneo: “quasi certamente tra loro scatta la scintilla del sesso dalle prime serate”. Gli esempi di questo genere sono molti di più e mi fanno storcere il naso non perché io sia puritano ma perché così si rischia di banalizzare troppo gli intricati giochi di alleanze politiche che portarono – citando il titolo che originariamente era stato deciso per il libro – al tramonto di un regno e all’alba di un impero.

Titolo

A proposito del titolo, la prima scelta sarebbe stata sicuramente più aderente al contenuto perché la vera protagonista non è tanto Cleopatra ma Roma. Infatti, bisogna aspettare quasi un terzo del volume (in cui viene descritto, passo dopo passo, l’assassinio di Cesare) per cominciare a leggere le vicende strettamente inerenti alla regina, mentre i successivi approfondimenti della sua figura vengono quasi soffocati dal racconto della guerra civile tra Ottaviano e Antonio. Certo, è giusto occuparsi di eventi così importanti che, fra l’altro, furono influenzati dalla stessa Cleopatra, ma il titolo lasciava presagire una maggiore attenzione sulla sua figura che io non ho rilevato. Inoltre – e qui parlo per interesse personale – l’Egitto è quasi del tutto assente con rarissimi paragrafetti dedicati alla descrizione del regno tolemaico e della città di Alessandria. Eppure in 423 pagine lo spazio ci sarebbe stato. 

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“Antonio e Cleopatra”: il prossimo libro di Alberto Angela sarà sull’antico Egitto

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Antico Egitto + Roma + Alberto Angela = successo editoriale assicurato.

Gran bel colpo per la HarperCollins Italia grazie al contratto firmato con il divulgatore più amato della televisione italiana che pubblicherà con la casa editrice newyorkese ben tre libri. Il primo della serie, che uscirà il prossimo autunno in collaborazione con Rai Eri, riguarderà in gran parte vicende accadute ad Alessandria riprendendo un tema già portato sugli schermi con una puntata di Ulisse: “Antonio e Cleopatra. Il tramonto di un regno, l’alba di un impero”.

Come s’intuisce dal titolo, quindi, il saggio di Angela parlerà della fase storica a cavallo tra la fine del regno tolemaico e la nascita dell’impero romano, ponendo l’accento sulla guerra civile tra Antonio e Ottaviano, la fine dell’indipendenza egiziana e, si spera non troppo, la presunta storia d’amore più famosa dell’antichità.

https://www.harpercollins.it/NEWS/Alberto-Angela-pubblichera-con-HarperCollins-Italia

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Ringrazio Stefania Piccin, admin del gruppo facebook Angelers – Fan di Alberto Angela, per avermi segnalato la notizia.

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Usata eclissi solare per datare il regno di Merenptah

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Source: dioni.altervista.org

Vi avevo avvertiti che sarebbe arrivata sul blog una serie di titoli clickbait, anche se, questa volta, la notizia proviene da fonti più che autorevoli: le università di Cambridge e Oxford. Due studiosi degli atenei inglesi, Sir Colin John Humphreys (professore di Scienze dei Materiali e Metallurgia e Direttore della Ricerca a Cambridge) e Graeme Waddington (astrofisico a Oxford), hanno utilizzato dati scientifici e interpretazioni filologiche per individuare quella che, secondo loro, sarebbe la più antica registrazione di un’eclissi solare. Inoltre, questo fenomeno astrologico porterebbe, tramite cross-dating tra fonti bibliche e testi egiziani, a una ricollocazione temporale degli anni di regno del faraone Merenptah e, di conseguenza, del suo più famoso predecessore Ramesse II.

Il tutto è partito da una reinterpretazione del passo biblico di Giosuè 10, 12-13:

“¹²Quando il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti, Giosuè parlò al Signore e disse alla presenza d’Israele:
«Fèrmati, sole, su Gàbaon,
luna, sulla valle di Àialon».
¹³Si fermò il sole
e la luna rimase immobile
finché il popolo non si vendicò dei nemici.
Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto per un giorno intero. […]”

[Versione della Bibbia CEI 2008]

Humphreys ha preso in considerazione il testo originale in ebraico e si è focalizzato sulla parola dôm, “essere fermi”, che però avrebbe la stessa radice di termini utilizzati nelle tavolette astronomiche babilonesi per indicare le eclissi. In tal senso, la nuova traduzione proposta, riferita ai due astri, sarebbe l’interruzione della loro attività abituale, cioè il brillare. Prima attestazione di un’eclissi totale nella storia? Non esattamente. Considerando il periodo che va dal 1500 al 1050 a.C. e riferendosi alla più antica menzione del popolo di Israele, nella “Stele della Vittoria” di Merenptah, il fenomeno più plausibile sarebbe l’eclissi anulare del 30 ottobre 1207 a.C. L’eclissi anulare si verifica quando la Luna è troppo lontana dalla Terra e riesce a coprire con il suo cono d’ombra solo l’86% per Sole, finendo così per creare l’illusione di un cerchio di fuoco. Quella del 1207 sarebbe stata visibile dalla terra di Canaan, in particolare da Gabaon (10 km a nord di Gerusalemme), tra le 15:30 e le 17:38, con l’apice alle 16:50 (immagine in basso; N.B.: la didascalia è errata già nell’articolo originale).

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Source: academic.oup.com

Quest’intuizione avrebbe ripercussioni storiche spostando, anche se di poco, la cronologia assoluta della XIX dinastia egizia. Come detto, Merenptah è il faraone sotto il quale si ha la prima fonte scritta sugli Israeliti grazie al resoconto delle sue campagne militari contro le tribù libiche dei Libu e dei Meshwesh e contro i popoli di Canaan, tra cui viene annoverato anche quello di YsyriAr:

“I re sono abbattuti e dicono ‘Salam’. Nessuno tiene alta la testa fra i Nove Archi; la Libia è devastata; Kheta è pacificata; Canaan è depredata con ogni male; Ascalon è deportata; Geser è conquistata; Ionoam è ridotta come ciò che non esiste; Israele è desolato, non c’è più il suo seme. La Palestina è divenuta vedova per l’Egitto: tutte quante le terre sono pacificate, chi era turbolento è stato legato dal re Merenptah, sia egli dotato di vita come Ra, ogni giorno”.

[traduzione: BRESCIANI E., Letteratura e Poesia dell’Antico Egitto, Torino 1969, p. 277]

La Stele della Vittoria, detta anche “Stele d’Israele”, risale al 5° anno di regno del sovrano, ma la campagna asiatica è collocata tra il 2° e il 4° anno ovvero, secondo Humphreys, al 1207 a.C. Con questa nuova cronologia, il regno di Merenptah, attualmente posto tra il 1213 e il 1203, si daterebbe al 1210-1200 (± 1 anno). Di conseguenza, Ramesse II sarebbe stato al trono tra il 1276 e il 1210 (± 1 anno).

L’utilizzo di fenomeni celesti per fissare punti fermi nella storia non è di certo una novità: l’eclissi registrata a Ninive il  15 giugno del 763 a.C. è stata utile per fornire una cronologia assoluta per i re assiri; per l’Egitto, invece, si può fare l’esempio dell’inizio di un nuovo ciclo sotiaco (coincidenza, ogni 1460 anni, tra il calendario civile e la levata eliaca di Sirio) nel 139 d.C., sotto l’imperatore Antonino Pio. Ma che attendibilità può avere la Bibbia? È indubbio che ci sia del vero tra i versetti del Vecchio Testamento, ma, al di là dell’interpretazione filologica, appare esagerato fidarsi della registrazione di un evento accaduto centinaia di anni prima. La redazione del Libro di Giosuè, infatti, è datata al VI-V sec. a.C. Inoltre, personalmente non trovo il nesso tra la lotta degli Israeliti contro gli Amorrei e la campagna di Merenptah a Canaan. Humphreys aveva subito critiche simili anche per il suo libro “The Mystery of the Last Supper” (2011) in cui, con cieca fiducia nei Vangeli e ancora con l’aiuto tecnico di Waddinton, aveva posto l’Ultima Cena al 1 aprile del 33.

 

L’articolo originale su Astronomy & Geophysics 58 (1917): “Solar eclipse of 1207 BC helps to date pharaohs”

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Vulcani e scarse piene del Nilo alla base del declino dei Tolomei?

Nile_composite_NASA

Source: wikipedia

Un recente studio metterebbe in relazione vulcani, una drastica diminuzione delle piene del Nilo e lo scoppio di tensioni sociali nell’Egitto tolemaico. Secondo lo storico Joseph Manning (Yale University) e il paleoclimatologo Francis Ludlow (Trinity College, Dublino), uno sconvolgimento del clima verificatosi tra III e I secolo a.C. avrebbe portato a numerose rivolte popolari. Questa teoria si basa sulla scoperta di un presunto legame tra eruzioni e la diminuzione del livello della piena che, in riferimento al periodo che va dal 622 al 1902, è stata calcolata in 22 cm in meno di media. Le nubi di anidrite solforosa emesse dai crateri nell’atmosfera, infatti, filtrano la luce solare con conseguenti abbassamento della temperatura e cambiamento dei modelli di precipitazione.

A questo punto, però, occorre spiegare in breve i meccanismi che causavano le piene del Nilo. Ho usato il passato non a caso perché ormai, con la costruzione della Grande Diga di Assuan, questo fenomeno non interessa più l’Egitto. Il fiume nasce come Nilo Bianco dal Lago Vittoria nel cuore dell’Africa (immagine a sinistra). Da qui, con una portata costante d’acqua, risale superando Khartoum, la capitale del Sudan, e poi incontra il Nilo Azzurro. Questo affluente, come l’Atbara più a nord, ha origine dall’acrocoro etiopico e ha un corso molto meno regolare proprio a causa della sua posizione. Durante la stagione delle piogge, infatti, l’altopiano è attraversato dalle perturbazioni monsoniche che ingrossano a dismisura il letto dei corsi d’acqua. Un simile flusso improvviso arrivava a fornire l’85% della portata totale del Nilo, trasportando con sé terreno ferroso dalle montagne dell’Etiopia. Così, puntuale ogni anno, lo straripamento degli argini depositava il fertile limo su tutti i campi coltivati d’Egitto. Ma il livello della piena, derivando dall’ammontare della pioggia caduta nel Corno d’Africa, non era costante e poteva causare danni se troppo alto o portare a periodi di siccità se troppo basso.

Tutta questa digressione era necessaria a sottolineare quanto l’agricoltura in Egitto, ancor più che in altri luoghi del mondo, dipendesse dai fenomeni atmosferici. Quindi, tornando all’argomento dell’articolo, gli autori dello studio hanno preso in considerazione il periodo che va dal 305 al 30 a.C., mettendo in relazione eruzioni vulcaniche con piene particolarmente scarse del Nilo. Le prime sono individuabili grazie a una quantità più alta di solfati negli antichi strati di ghiaccio in Groenlandia e Antartide; i secondi, invece, sono noti tramite le precise registrazioni in cubiti (circa mezzo metro) dei nilometri che venivano riportate sui documenti d’archivio -papiri e iscrizioni- anche per il calcolo delle tasse. Per un paese abitato soprattutto da contadini, l’andamento del raccolto serviva a decidere l’ammontare delle imposte. Ecco perché -ma la cosa non stupisce affatto- fattori naturali avrebbero avuto un forte impatto socio-politico-economico.

In particolare, dopo il florido regno dei primi tre Tolomei (305-222 a.C.), sarebbe iniziato il declino della dinastia macedone proprio in corrispondenza di grandi eruzioni. La rivolta tebana del 207 a.C. seguirebbe lo scoppio di un vulcano del 209; altre sommosse verrebbero dopo le eruzioni del 168, 164 e 161; infine, dopo due eruzioni nel 46 e 44, sarebbe arrivata la caduta finale per mano dei Romani sotto il regno di Cleopatra VII che, in quegli anni, aprì eccezionalmente i granai reali alla popolazione affamata dalla carestia.

Tuttavia, c’è da dire che non tutti gli studiosi si sono trovati d’accordo con i risultati della ricerca perché appare un po’ troppo semplicistico indicare le eruzioni come la causa diretta di rivoluzioni che, dalla storiografia tradizionale, vengono considerate moti nazionalistici contro una dominazione straniera. Inoltre, alcuni esperti del settore, hanno fatto notare come lo studio non si sia avvalso della fondamentale dendrocronologia, cioè l’analisi degli anelli di accrescimento degli alberi che, di anno in anno, si formano con uno spessore variabile a seconda degli eventi atmosferici e dei mutamenti del clima del pianeta.

L’articolo originale è stato pubblicato il 17 ottobre su Nature Communications: https://www.nature.com/articles/s41467-017-00957-y

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