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Lanciato il progetto di sviluppo del Museo Egizio del Cairo

Tutti quelli che erano preoccupati per un possibile smantellamento del Museo Egizio del Cairo possono tirare un sospiro di sollievo. Infatti, nonostante la costruzione del Grand Egyptian Museum e del National Museum of Egyptian Civilization e la conseguente perdita di numerose antichità, l’edificio storico di Piazza Tahrir continuerà a mantenere il suo ruolo.

La settimana scorsa – alla presenza del ministro delle Antichità Khaled el-Enany, della ministra degli Investimenti Sahar Nasr e dell’ambasciatore dell’Unione Europea al Cairo Ivan Surkoš (foto in basso) – è stato lanciato ufficialmente il progetto che prevede lo sviluppo del “vecchio” Museo Egizio. Grazie a un finanziamento UE di 3,1 milioni di euro e alla consulenza di esperti da Museo Egizio di Torino (capofila del gruppo), British Museum, Louvre, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino e Rijksmuseum van Oudheden di Leida, nei prossimi 36 mesi si creerà un nuovo percorso espositivo.

Chi ha visitato recentemente il museo si è accorto che i cambiamenti sono già in corso d’opera. Ad esempio, lo spostamento dei reperti del corredo di Tutankhamon verso il GEM ha fatto sì che la galleria fosse occupata dagli oggetti della tomba di Yuia e Tuia. Per il futuro, invece, è previsto un ripensamento generale delle sale del piano terra (nn. 43, 48, 47, 46, 51, 49, 50) e della stanza dedicata al tesoro delle tombe reali di Tanis al primo piano.

Inoltre, il gruppo di esperti europei aiuterà i tecnici locali a potenziare la biblioteca, digitalizzare gli archivi e promuovere la comunicazione in Egitto e all’esterno. Infine, non sarà tralasciato il ruolo formativo del museo all’interno della società, coinvogendo scuole e i giovani in generale.

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Source: see.news

 

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I più antichi tatuaggi figurativi su una mummia egizia

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Source: British Museum

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Source: British Museum

Ginger è il primo individuo tatuato al mondo. O meglio, è colui che ha sulla pelle i più antichi segni figurativi finora individuati. Il vero primato, infatti, spetta per poco al nostro Ötzi (3370-3100 a.C.) che però ha solo punti, linee e crocette. La scoperta è stata recentemente pubblicata sul Journal of Archaeological Science, dopo che la mummia del cosiddetto Uomo A di Gebelein (detto appunto Ginger per il colore rossastro dei capelli) è stata sottoposta a nuovi esami.

Il corpo appartiene a ragazzo che morì, tra i 18 e i 21 anni, a causa di una pugnalata alla schiena, nel periodo Naqada II (tra il 3351 e il 3017 a.C.). Il cadavere si mummificò naturalmente per il contatto diretto con la sabbia quando fu sepolto in posizione fetale, semplicemente avvolto in un lenzuolo e stuoie, nella località a 30 km a sud di Luxor. La mummia è esposta dal 1900 nel British Museum (EA32751), ma solo ora, grazie agli infrarossi, si è capito che quella macchia scura indistinta sul braccio destro corrisponde, in realtà, a due animali cornuti: un uro (un grande toro selvatico ormai estinto: Bos taurus primigenius) e una capra berbera (Ammotragus lervia). Senza addentrarmi in difficili valutazioni di tipo ideologico, entrambi gli animali sono tipici dell’arte predinastica. Il pigmento, probabilmente fuliggine, è stato inserito in profondità nel derma con un ago.

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Source: British Museum

Praticamente coeva di Ginger è la mummia della Donna di Gebelein su cui sono stati ritrovati altri tatuaggi, ma di più difficile interpretazione. Sulla spalla sinistra, infatti, ci sono 4 simboli a forma di “S” (foto in alto), mentre, sul braccio destro, un motivo lineare (foto in basso), forse un bastone o comunque un oggetto rituale, che si riscontra sulle ceramiche dell’epoca.

http://www.britishmuseum.org/pdf/Earliesttattoos.pdf

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Source: British Museum

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Bufale eGGizie*: la “mummia sfortunata” che affondò il Titanic

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Source: wikipedia.org

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)

Dopo aver avuto il piacere di intervenire sul n° 287 di Focus (settembre 2016), intervistato da Maria Leonarda Leone sulla maledizione di Tutankhamon, colgo l’occasione per approfondire il discorso parlando di un’altra leggenda metropolitana che riguarda antico Egitto e superstizioni. Sì, perché, ancor prima della scoperta della KV62 e della conseguente ‘tutmania’, circolavano già storie su misteriose morti da imputare all’influenza maligna delle centinaia di mummie egizie arrivate nell’Inghilterra vittoriana.

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Source: britishmuseum.org

Una di queste è ancora ricordata con l’appellativo di “Unlucky Mummy” e si trova nella Sala 62 del British Museum (n° inv. EA22542). In realtà, non è un corpo mummificato ma un falso coperchio (tavola che andava direttamente sulla mummia) appartenuto a una donna della XXI dinastia (950 a.C. circa) e donato al museo nel luglio 1889 da Mrs. Warwick Hunt a nome di Arthur Wheeler. Non si conosce il nome della defunta, anche se, guardando la fattura dell’oggetto, è probabile che appartenesse a un’alta classe sociale. In ogni caso, nei primi cataloghi del British, è indicata come sacerdotessa di Amon-Ra. A incutere timore nei londinesi dell’epoca era soprattutto l’espressività del volto della maschera che fece nascere una serie di superstizioni e dicerie sulla presunta cattiva sorte toccata a tutti coloro che, per un motivo o l’altro, erano venuti a contatto con il reperto; voci che incuriosirono Bertram Fletcher Robinson, giornalista del Daily Express e amico/collaboratore di Sir Arthur Conan Doyle (curioso notare come siano nate leggende anche sul rapporto tra i due secondo le quali il padre di Sharlock Holmes avrebbe copiato il romanzo “Il mastino dei Baskerville” a Robinson e poi avrebbe avvelenato il vero autore per coprire il misfatto).

Robinson passò anni a raccogliere materiale da pubblicare sulle colonne del quotidiano per cui lavorava e continuò anche dopo il 1904, quando passò a Vanity Fair. Purtroppo, però, non riuscì a completare la sua inchiesta perché morì a soli 36 anni, il 21 gennaio 1907. La causa dell’improvviso decesso fu una febbre tifoide che portò a peritonite, ma Doyle, spiritista convinto, l’attribuì a uno spirito elementale intrappolato nel coperchio (spiegazione che userà successivamente anche per la maledizione di Tutankhamon). Fra l’altro, lo scrittore stesso aveva compiuto ricerche presso il British Museum nel 1891 per il suo racconto breve “Lot No. 249” in cui una mummia si risveglia a Oxford dopo la lettura di una formula magica su un papiro.

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Source: wikipedia.org

L’attenzione mediatica provocata dalle parole di Doyle convinse l’editore del Pearson’s Magazine, proprietario anche del Daily Express, a riprendere gli appunti di Robinson (nella foto qui accanto) e a farli riscrivere da G. Russel nell’agosto del 1909 (in alto a sinistra, l’iconica copertina del numero): intorno alla metà degli anni ’60 del XIX secolo, 5 ricchi britannici intraprendono un viaggio lungo il Nilo fino ad arrivare a Luxor dove sarebbe stato scoperto il coperchio. Già in Egitto, uno dei componenti della spedizione sparisce nel deserto e a un altro viene amputato il braccio per un colpo di pistola accidentale. Tornati in Inghilterra, un terzo uomo riceve un altro proiettile e l’anonimo Mr. W. (il Wheeler che donò il pezzo al British?), venuto in possesso del reperto, si accorge di aver perso gran parte dei suoi averi e muore poco dopo. Lo sfortunato oggetto passa alla sorella che, a sua volta, subisce gravi perdite finanziarie pur non credendo alla maledizione. Ma, dopo la morte dell’amico fotografo che aveva immortalato nella maschera il volto di una donna vivente e dopo che la celebre chiaroveggente Madame Helena Blavatsky aveva percepito una presenza malvagia, Mrs. W. si convince a cedere il coperchio al museo londinese. Perfino il trasferimento fa le sue vittime, con i due poveri facchini che ci lasciano le penne durante il trasporto della cassa. Appare ovvio che si trattasse di un mucchio di congetture non verificabili per mancanza di nomi e dati oggettivi.

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Source: wikipedia.org

Tuttavia, la storia non finisce qui intrecciandosi, 3 anni dopo, con la tragica vicenda del Titanic. Poco dopo il naufragio, infatti, quotidiani e riviste riportarono la notizia secondo la quale l’Unlucky Mummy sarebbe stata nella stiva del transatlantico, imbarcata da un archeologo americano. Successivamente, il coperchio, messo su una scialuppa di salvataggio e portato negli USA, sarebbe finito su un’altra nave protagonista di un grave incidente, il piroscafo inglese Empress of Ireland affondato il 29 maggio 1914 con oltre 1000 vittime. Insomma, un po’ troppo anche per l’internauta più fantasioso, ma i giornali dell’epoca (e non solo) approfittavano spesso della curiosità morbosa e della credulità dei lettori.

Questo improbabile collegamento nacque a causa delle credenze esoteriche di William T. Stead, giornalista che perse realmente la vita sul Titanic. Stead, durante le cene sul transatlantico, intratteneva i commensali con racconti di mummie e maledizioni, alcuni dei quali vissuti in prima persona. Come quella volta in cui, invitato a casa di amici per vedere il loro nuovo ‘acquisto’ d’antiquariato, avrebbe assistito all’esplosione di rabbia di uno spirito maligno, uscito dall’ormai noto sarcofago poi finito al British, che avrebbe infranto tutti i vetri della stanza e che avrebbe portato malattie e sfortuna tra i presenti. Uno dei sopravvissuti al naufragio, poi, rilasciò un’intervista al New York World riportando come vere proprio queste storie e ipotizzando l’influenza negativa della sacerdotessa di Amon-Ra sulla tragedia.

Bufale simili continuarono a propagarsi nel mondo per anni, tanto da costringere nel 1934 (ben 22 anni dopo; ma, d’altronde, c’è ancora chi ci crede ora…) Sir Wallis Budge, curatore della sezione egizia e assira del British dal 1894 al 1924, a scrivere: «[…] no mummy which ever did things of this kind was ever in the British Museum. […] The cover never went on the Titanic. It never went to America». Effettivamente, l’Unlucky Mummy non ha mai lasciato Londra fino al 1990, quando fu prestata per una mostra temporanea in Australia, e poi nel 2007 per un evento a Taiwan. Inutile aggiungere che, in entrambi i casi, non è stato riscontrato alcun incidente durante il trasporto.

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Sekhemka come Persefone: 6 mesi a Londra, 6 mesi al Cairo

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Source: thetimes.co.uk

Sekhemka come Persefone. La ormai famosa statua di Antico Regno, venduta all’asta per oltre 14 milioni di sterline, potrebbe fare proprio la fine della mitica sposa di Ade, divisa nell’anno tra Londra e Il Cairo. O meglio, questa è l’ultima proposta di Nasser Kamel, ambasciatore egiziano nel Regno Unito, che, per conto del suo Paese, sta facendo di tutto per annullare la consegna del capolavoro verso il suo, ahimè, legittimo acquirente. In attesa del 29 marzo, scadenza del secondo blocco all’esportazione deciso dal governo britannico, Kamel ha affermato che l’ambasciata potrebbe diventare la proprietaria della scultura per poi lasciarla esposta in alternanza, ogni sei mesi, presso il British Museum e il Museo Egizio del Cairo. Per attuare questo piano, però, l’Egitto dovrà raccogliere in breve tempo 15,8 milioni £.

Dal Qatar, aspettano senza rilasciare dichiarazioni.

http://theartnewspaper.com/news/museums/ambassador-proposes-plan-to-share-sekhemka/

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Busto bronzeo di gatto venduto all’asta per 52.000£

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Source: penzanceauctionhouse.wordpress.com

Lo scorso giovedì (19 febbraio), lo splendido busto di gatto che vedete nella foto è stato battuto all’asta da Penzance per 52.000 sterline. Niente di strano finora; sarebbe la classica vendita di un reperto egizio che, purtroppo troppo spesso, si vede in Inghilterra, se non fosse che la testa di Bastet stava per essere gettata.

Il suo ritrovamento, infatti, è stato piuttosto casuale quando il banditore David Lay stava facendo una ricognizione di routine in un immobile da vendere nella Cornovaglia occidentale. I proprietari non conoscevano il valore del busto e avevano intenzione di buttarlo nella spazzatura dopo l’asta. In realtà, grazie un’autenticazione del British Museum, si è capito che si tratta di un opera risalente alla XXVI din. (672-525 a.C.) in bronzo, con orecchini d’oro, su una base di ardesia.

Il proprietario originale, Douglas Liddell, morto nel 2003, era stato amministratore delegato della Spink & Son, una storica società londinese di vendita di antichità e opere d’arte che si è occupata anche della gestione del patrimonio di Howard Carter dopo la sua morte nel 1930.

https://penzanceauctionhouse.wordpress.com/2015/02/01/something-quite-spectacular/

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Disponibili online i modelli per stampe 3D dei reperti del British Museum

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Quanti di voi hanno una stampante 3D in casa? Non molti, immagino. Beh, per quei pochi fortunati, il British Museum, come aveva già fatto il Metropolitan nel 2012, ora fornisce gratuitamente i modelli virtuali di alcuni dei suoi reperti con i quali si può realizzare la propria copia personale in plastica. Attualmente, su Sketchfab, sono disponibili 14 esemplari, di cui ben 9 sono egizi:

  • il busto di Amenemhat III dal tempio di Bastet a Bubastis;
  • il colosso di Ramesse II dal Ramesseum (vedi immagine), il cosiddetto “Giovane Memnone” portato a Londra da Belzoni che ispirò il sonetto “Ozymandias” di Percy Bysshe Shelley;
  • la statua di Horus come falco;
  • uno dei leoni di granito rosso di Amenofi III dal tempio di Soleb;
  • la statua di Amon come ariete che protegge Taharqa;
  • un sarcofago di granito rosso di V dinastia;
  • la scultura gigante in diorite verde di scarabeo di età tolemaica;
  • la statua di Amenofi III in trono dal tempio funerario di Kom el-Hittan;
  • la sezione inferiore di una colonna papiriforme in granito grigio di XVIII dinastia.

https://sketchfab.com/britishmuseum

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“Excavation in the Meroitic Cemetery of Dangeil, Sudan”

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Source: Berber-Adibiya Archaeological Project

Nel 2002, gli abitanti del villaggio sudanese di Dangeil (sud della V cataratta) scoprirono per caso una necropoli kushita risalente al I sec. d.C. Da allora, l’indagine archeologica è affidata alla National Corporation for Antiquities and Museums in collaborazione con il British Museum attraverso il Berber-Adibiya Archaeological Project grazie al quale sono state individuate 52 tombe ipogee. Nella maggior parte dei casi, le sepolture sono semplici fosse triangolari (vedi foto) con una scala di accesso che parte dal vertice dell’altezza (orientamento E-O) e che arriva a una stanza sepolcrale ovale. I defunti sono in posizione fetale, in asse N-S e con il volto diretto a ovest.

Molto interessanti gli oggetti provenienti dai corredi, tra cui spiccano i grandi vasi che contenevano birra di sorgo, una particolare forma ceramica con sette coppe unite, una scatoletta apotropaica in faience decorata con due udjat e un rarissimo anello-sigillo in argento con l’immagine di una divinità cornuta interpretata come Amon. La cosiddetta “Tomba dell’arciere”, invece, è chiamata così per la presenza di numerose punte di freccia e perché, al pollice destro dello scheletro, era ancora infilato un anello di pietra che veniva usato per agganciare la corda. I Nubiani erano degli abili arcieri; non a caso, durante l’Antico Regno, gli Egizi chiamavano la Bassa Nubia Ta-Sety, “Terra dell’Arco”.

Queste e molte altre informazioni sullo scavo (corredate di foto) sono ora disponibili grazie alla pubblicazione gratuita in PDF Excavation in the Meroitic Cemetery of Dangeil, Sudan” di Nahmoud Suliman Bashir (NCAM) e Julie Anderson (BM):

http://bookleteer.com/book.html?id=2963&ui=embed#page/1/mode/1up

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Mummie: è giusto esporre resti umani nei musei?

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Mummia di Ramesse II (Museo Egizio del Cairo). Source: http://www.aegypten-fotos.de/luxor/ramses_e.htm

Ieri è stata inaugurata “Ancient Lives: new discoveries”, mostra del British Museum incentrata sulle nuove analisi scientifiche su otto tra le centinaia di mummie conservate nel museo. La visibilità che ha avuto l’evento ha riacceso una disputa ideologica che spesso nasce in simili circostanze: è giusto esporre resti umani nei musei? Si tratta del legittimo risultato di ricerche archeologiche o dell’irrispettosa profanazione di cadaveri?  Molti sono stati gli articoli scritti sull’argomento e anch’io ho deciso di cogliere l’occasione per riportare la mia opinione. Naturalmente mi concentrerò sul mondo dell’egittologia che è quello più vicino alla mia formazione, anche se il discorso potrebbe essere allargato alle migliaia di collezioni archeologiche, antropologiche e di storia della medicina del mondo.

Prima di tutto, però, va fatta una considerazione generale sul rapporto che la società occidentale ha avuto e tuttora ha con la morte. Nel corso della storia, si è quasi sempre cercato di non mescolare l’ambito dei viventi con quello dei defunti creando appositi luoghi, fuori dai contesti abitativi, dove deporre le salme. Il motivo di fondo è semplice, cioè evitare che la decomposizione dei corpi possa diffondere malattie contagiose o avvelenare le fonti d’acqua e di cibo. Esistono delle eccezioni, come le inumazioni “casalinghe” nella Gerico neolitica o come nel caso dei Dani (le cosiddette “tribù delle mummie”), gruppi primitivi della Papua Nuova Guinea che ancora oggi vivono con i corpi imbalsamati dei loro antenati; ma, in generale, le tombe sono sempre extra moenia. Tale consuetudine è stata ufficializzata anche da celebri provvedimenti legislativi, tra cui spiccano la Tavola X delle duodecim tabularum leges del 451-450 a.C. («Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito») e l’Editto di Saint Cloud emanato da Napoleone Bonaparte nel 1804 (come non ricordare “I Sepolcri” di Ugo Foscolo). Oltre alle basilari motivazioni igienico-sanitarie, ci sono di mezzo anche i retaggi culturali e religiosi che hanno plasmato il nostro rapporto con la morte. Il Cristianesimo predica la sacralità del corpo umano come dono di Dio; per questo la cremazione è mal vista o addirittura vietata in previsione della resurrezione finale dopo il Giudizio Universale. Ma, anche nel Cattolicesimo, esistono casi a parte come nel Convento dei Frati Minori Cappuccini di Via Veneto a Roma in cui le ossa dei monaci sono state utilizzate per secoli come semplice materiale da costruzione per realizzare decorazioni architettoniche (vedi foto in basso). Qui, il corpo era considerato un semplice involucro dell’anima che, dopo il trapasso, perde ogni importanza.

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Source: turismoroma.it/cosa-fare/il-convento-dei-frati-minori-cappuccini-di-via-veneto

Se avessero conosciuto il loro destino, molti Egizi avrebbero preferito la stessa sorte dei frati romani e diventare un lampadario. Infatti, le mummie sono sempre state usate come combustibile, alla stregua di pezzi di legno; inoltre, tra XVII e XVIII sec., venivano polverizzate e spacciate per rimedi medicamentosi da ingoiare (quindi non lamentatevi quando trovate che alcune pillole siano amare!). Fin dall’antichità, invece, i tombaroli le distruggono o le bruciano alla ricerca dei preziosi amuleti in esse nascoste (qui un esempio nella cachette recentemente scoperta). Il vero interesse dell’Europa per questi “reperti esotici”, però, andò di pari passo con la nascita dell’egittologia tra ‘800 e primi del ‘900. Frammenti di corpi mummificati erano inclusi tra i mirabilia delle wunderkammern già nel XVI secolo, ma è solo con l’istituzione delle prime grandi collezioni egittologiche che la gente scoprì la morbosa passione per i cadaveri del Nilo. Musei di tutto il mondo cominciarono a fare a gara per accaparrarsi sarcofagi e canopi (possibilmente pieni), mentre nella gotica Inghilterra vittoriana si diffuse una moda che coinvolgeva un vasto pubblico di curiosi: lo sbendaggio delle mummie. Alla presenza di centinaia di persone, studiosi toglievano mano mano ogni involucro dell’imbalsamazione, dalla copertura in cartonnage fino alle bende di lino, lasciando il corpo “nudo” (nella foto in basso, l’egittologa Margaret Murray sbenda la mummia del sacerdote Khnum-Nakht nel Manchester Museum davanti a 500 spettatori).

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Source: pasthorizonspr.com/index.php/archives/12/2012/unwrapping-the-mummy-performance-and-science

I “Mummy Unwrapping Parties” e la “Tutmania” esplosa dopo la scoperta di Howard Carter riflettevano il gusto dell’orrido e l’attrazione verso la morte che, purtroppo ancora oggi, spesso caratterizza chi entra in un museo e si trova di fronte a una teca che contiene resti umani; esattamente come chi guarda un horror o segue con attenzione ogni aggiornamento di cronaca nera. La cultura popolare, infarcita di romanzi, film e leggende metropolitane, ha insinuato nel grande pubblico un pregiudizio difficile da estirpare, cioè che la cultura egizia fosse ossessionata dall’aldilà. Non c’è niente di più sbagliato e, per rendersene conto, basterebbe leggere una delle tante poesie d’amore tradotte o dare un’occhiata al “Papiro erotico” di Torino. Il fatto che, in Egitto, la maggior parte dei contesti archeologici sia di tipo templare o funerario è spiegabile con conformazione geografica del Paese. L’esiguità delle terre fertili ha fatto sì che le stesse aree siano state sfruttate per millenni per gli insediamenti abitativi, con la conseguente cancellazione di quelli più antichi. Quindi, gli Egizi non erano perennemente incupiti in attesa di stirare le cuoia, ma mangiavano, si ubriacavano, cantavano, facevano l’amore come tutti gli altri.

Source: telegraph.co.uk

Source: telegraph.co.uk

Dopo queste considerazioni sembrerebbe tutt’altro che etico esporre al pubblico i corpi di persone distolte dal loro riposo eterno e trasformate in curiosi oggetti da ammirare. Ma è proprio qui che si inserisce il ruolo del professionista. Archeologi, antropologi, restauratori, curatori di musei devono ridare dignità a questi uomini e donne non trattandoli come gli altri reperti. L’oggetto deve tornare soggetto. Non basta mettere la mummia in vetrina accompagnandola con una semplice targhetta che ne specifichi la datazione, ma va ricreato tutto il contesto cercando di estrapolare ogni dato possibile che possa farci conoscere la vita e non solo la morte. In realtà, rileggendo ciò che ho appena scritto, mi rendo conto che questo discorso andrebbe applicato su ogni singolo vaso, amuleto o sandalo, ma io riserverei una particolare cura sui nostri avi. In questo ci aiuta la tecnologia. Senza dover per forza togliere le bende, raggi X, TAC e altri metodi non invasivi oggi permettono di capire cosa mangiasse il “paziente”, che tipo di attività lavorativa facesse, di che mali soffrisse e la causa del decesso. Informazioni non solo utili nel particolare ma che, messe tutte insieme, possono riscrivere i libri di storia. Bisogna ricordare che, secondo la religione egizia, l’integrità del corpo era fondamentale per sperare in una vita ultraterrena e, infatti, esisteva un’infinità di formule funerarie per scongiurare problemi al cadavere. Quindi, in un certo senso, la cura dei moderni studiosi nel conservare le salme potrebbe far comodo agli spiriti che si trovano nella Duat.

Così, secondo me, mostre come quella del British, incentrate sulle storie più che sui reperti, non ledono la dignità dei protagonisti e, anzi, possono “educare” il pubblico. Certo, ci sarà sempre chi andrà a vedere la mummia con in testa la maledizione di Tutankhamon o la musichetta di John Williams, ma tutti gli altri potranno considerare con più rispetto persone che una volta vivevano e che, in questo modo, potranno ottenere l’immortalità (almeno nella memoria) tanto agognata.

Questa è solo la mia opinione, ma mi piacerebbe che anche voi riportaste la vostra commentando l’articolo.

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Analizzata la mummia della cantante bambina

Source: telegraph.co.uk

Source: telegraph.co.uk

Ancora un’anticipazione da “Ancient Lives: new discoveries”, mostra del British Museum che sarà inaugurata il 22 maggio. Questa volta, dopo “Ginger” di Gebelein, la donna cristiana con tatuaggio, Tamut e l’uomo con una spatola nel cranio, è il turno di Tjayasetimu, giovane cantante morta nell’800 a.C. Grazie alla TAC, si è visto che la mummia appartiene a una bambina più piccola di quello che si pensava: 7 anni invece che 12/13. Le immagini mostrano chiaramente che la piccola era alta solo 1,20 m, 30 cm in meno dell’involucro in cartonnage (nell’immagine a sinistra). Non si conosce il motivo per cui il sarcofago non sia stato realizzato su misura. Ignota anche la causa della morte per la mancanza di segni di traumi violenti o di una lunga malattia. E’ probabile che la bambina sia stata colpita da un male particolarmente veloce come il colera. Si possono notare i capelli lunghi fino alle spalle coperti da un velo e i denti da latte che ancora sono avanti ai decidui nelle gengive.

L’involucro è rimasto dimenticato per decenni nei sotterranei del museo londinese ricoperto da una sostanza oleosa nerastra. Solo negli anni 70, grazie al restauro, è venuto fuori un bellissimo oggetto con decorazioni e testi in cui si legge il nome della defunta e il suo ruolo di “Cantante del Tempio di Amon”. Più precisamente, Tjayasemitu, nonostante la tenera età, ricopriva una posizione molto elevata all’interno del coro templare che, secondo l’analisi stilistica del reperto, doveva trovarsi nel Fayyum. La tipologia dell’involucro è rarissima perché si riscontra in soli tre casi per l’epoca presentando braccia e piedi distintamente realizzati (foto in basso).

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Una spatola dimenticata nel cranio, la mummia senza cuore ma con cervello e altri dati dalle TAC

Una bella donna con cervello ma senza cuore… Rassicuro i lettori di sesso maschile: è morta da 1700 anni! Si tratta, infatti, di una mummia (vedi foto in alto) conservata presso il Redpath Museum di Montreal che è finita per l’ennesima volta sul lettino di una TAC. Già nel 2012 era uscito uno studio a riguardo sulla rivista RSNA RadioGraphics e, l’anno scorso, era stato addirittura ricostruito il volto (con la bella acconciatura “alla Faustina Maggiore”), ma il team di Andrew Wade della McMaster University (Hamilton, Canada) ha estrapolato nuovi dati dalla tomografia computerizzata. La donna, morta tra i 30 e i 50 anni, visse nel 300 d.C. circa, un periodo in cui l’Egitto era sotto il controllo di Roma e sempre più influenzato dal cristianesimo. Evidentemente, però, la sua famiglia rimase fedele alla tradizione pagana scegliendo una mummificazione inusuale. Infatti, l’addome è svuotato anche del cuore, asportato con gli altri organi da un foro inciso sul perineo, mentre il cervello è intatto. Tutto il contrario di ciò che sappiamo da Erodoto, anche se, sempre da un recente studio di Wade, sembrerebbe che tale pratica non fosse così rara. Altra particolarità è la presenza di due placche in materiale simile al cartonnage sullo sterno e al lato dell’addome. Di solito, oggetti del genere servivano a sanare le ferite provocate dall’imbalsamatore, ma in questo caso le porzioni di pelle interessate sono intonse, quindi si pensa servissero come sostituto del cuore e come mezzo di guarigione rituale da un male che affliggeva la donna quando era in vita.

article-2600526-1CF5D58900000578-36_634x552Dal British Museum, invece, la mostra “Ancient Lives: new discoveries” riserva altre sorprese. Tra le otto mummie analizzate con la TAC, ce n’è una di un uomo vissuto a Tebe intorno al 600 a.C. L’autopsia virtuale ha rilevato la presenza di un oggetto nel cranio, una spatola di legno o un pezzo di canna, probabilmente spezzato durante la rimozione del cervello dalle narici (vedi a sinistra). Curioso, ma non un caso isolato (un altro esempio proviene dal Museo di Zagabria).

Una seconda mummia appartiene a Tamut, “cantante di Amon” nel 900 a.C. La donna morì intorno ai 35 anni, forse a causa di un infarto o un ictus. Infatti, gran parte dell’arteria femorale è occlusa da un pezzo di grasso. Il corpo, conservato in un ricco sarcofago (vedi in basso), presenta numerosi amuleti anche interni oltre che a lamine d’oro sulle dita dei piedi e a piastre metalliche sulle ferite lasciate dai sacerdoti. I capelli sono corti perché coperti da una lunga parrucca nera.

 

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