(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
Con gli anni ho imparato a non dare tutto per scontato. Molti concetti che ritengo ovvi, per molti altri possono non essere così semplici. Non è solo una questione di cultura generale o di conoscenza dello specifico argomento (in questo caso, l’egittologia), ma anche di processi mentali e collegamenti che magari funzionano solo nella mia testa. Nonostante ciò, però, non ho mai voluto eccedere in semplificazioni e spiegazioni perché mi piacerebbe che i miei lettori approfondissero ciò che trovano sul blog altrove o chiedendomi informazioni con domande dirette. Ed è per questo che, ad esempio, non sto a scrivere in ogni articolo – e non lo farò nemmeno ora – cosa sia un ushabti.
Tuttavia, per l’ennesima volta mi è stato inviato un video che circola ormai da anni sui social, ma che ho sempre ignorato bollandolo come una palese buffonata. Nel filmato si vede quella che dovrebbe essere una tomba egizia stracolma di oggetti d’oro, la cui ricchezza farebbe impallidire perfino il corredo di Tutankhamon… se fossero veri. Si tratta infatti di un mucchio di paccottiglia mal assortita da suq, di souvenir per turisti che riproducono, più o meno bene, reperti realmente esistenti o addirittura pacchiane reinterpretazioni inventate. Come detto, però, ciò che per me è un palese fake per molti è la testimonianza di un’eccezionale scoperta, quindi vale la pena occuparsene.
Che poi, a guardar bene, ci sono diverse versioni del documento con gli oggetti disposti in due modi. Ad esempio, le due grandi statue che nel primo video sono in piedi al centro della camera funeraria, nel secondo sono a terra parzialmente coperte dalla sabbia; il sarcofago di destra, invece, è avvolto da un telo solo in un caso .
Video 1:
Video 2:
La più vecchia variante del video a cui sono riuscito a risalire è stata pubblicata il 21 settembre 2014 sulla pagina Facebook di un uomo palestinese; non è un caso che la “scoperta” sia spesso collocata in Palestina.
Tra le altre fantastasiose ubicazioni della tomba che, di volta in volta, compaiono in post o articoli web c’è addirittura la Turchia in riferimento a una farneticante storia che vedrebbe Nefertiti fuggita in Anatolia nel 10.000 a.C. Ma i presumibilmente veri luogo e data del filmato sono palesati all’inizio del video 1 in cui si vedono una banconota da 5 sterline egiziane e un foglio su cui è scritto in arabo “giovedì 21 novembre 2013” e il nome “Farid”.
Tornando agli oggetti, facendo finta che non bastino la loro rozza fattura plasticosa e i geroglifici senza senso, abbiamo un insieme incoerente sia dal punto di vista temporale che funzionale. Appaiono infatti alcuni reperti, come statuette votive di divinità o sculture reali a grandezza naturale, che dovrebbero appartenere a un contesto templare e non funerario. Poi ci sono copie di pezzi che risalgono a periodi molto lontani tra loro. Nella prima foto in alto s’intravede il cartiglio di Amenofi III (1388-1351 a.C.), ma al tempo stesso ci sono ushabti e figurine di gatti tipicamente tardi (712-332); un modellino della statua in trono di Ramesse II (1279-1213) del Museo Egizio di Torino (imm. in basso a destra) è insieme a una testa amarniana (in basso al centro); il vaso in alabastro per unguenti di Tutankhamon (1333-1323; imm. in basso a sinistra) figura con un’improbabile versione tridimensionale di una scena dipinta nella tomba tebana di Sennedjem (prima del XIV secolo a.C.) che rappresenta Anubi chinato sulla mummia del funzionario (seconda foto in alto). L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma credo che questi esempi siano più che sufficienti a definire con certezza falsi sia la tomba che tutto il suo contenuto.
Più difficile è invece capire il motivo per cui sia stato girato il video. Credo sia imbrobabile che si tratti del set di un film; più verosimile è un tentativo di truffa. A volte, infatti, mi arrivano mail e messaggi privati su Facebook di cittadini egiziani che cercano di piazzarmi antichità – il più delle volte finte – allegando foto e video. Anche questo, quindi, potrebbe essere qualcosa del genere, soprattutto perché il foglio e la banconota all’inizio sembrano un espediente per dare maggiore credibilità al ritrovamento.
(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
Una delle iconografie più diffuse nell’antico Egitto è quella che vede il faraone stagliarsi enorme sopra nemici sopraffatti o sudditi offerenti. Questa taglia XL del re, resa sulle pareti di templi e tombe, è considerata da alcuni come la prova principe dell’esistenza di giganti nell’antichità. I mitici Nephilim biblici avrebbero popolato l’Egitto e, grazie alla loro stazza, permesso la costruzione delle piramidi e degli altri imponenti monumenti. So che è assurdo, ma bufale del genere girano da sempre, come quella dei cosiddetti “giganti del Wisconsin” finita addirittura sul New York Times nel 1912. Erano altri tempi; ma anche ultimamente il discorso è stato ritirato fuori. Non è un caso che oggi a Palermo, nel grande calderone di assurde tesi complottistiche presentate durante il convegno dei terrapiattisti italiani, siano stati citati anche i giganti d’Egitto.
Source: teachmiddleeast.lib.uchicago.edu
Tornando a noi, scene come quella di Ramesse III contro i Popoli del Mare (tempio di Medinet Habu; immagine in alto) si spiegano semplicemente con il concetto di proporzioni gerarchiche. La produzione figurativa egizia non è realistica non perché non si fosse in grado di ricreare così come è la natura – e basta vedere gli ostraka da Deir el-Medina per rendersene conto -, ma perché l’arte era funzionale al veicolare determinati messaggi. In questo caso, la convenzione stilistica vuol evidenziare la gerarchia dei personaggi rappresentati, dal più grande al più piccolo secondo il rango. Già nella Paletta di Narmer (particolare in alto al post), si vede che l’altezza del faraone è il doppio di quella dei funzionari che lo inquadrano, a loro volta più alti dei portatori degli stendardi. Non fa eccezione l’arte privata come, ad esempio, i rilievi della mastaba di Mereruka a Saqqara (VI dinastia) in cui le dimensioni del defunto sono decisamente titaniche se confrontate con quelle della moglie e del figlio maggiore ai suoi piedi (foto in basso).
Davies, The tomb of Rekh-Mi-Rē’ at Thebes, New York 1943, pl. LV (particolare)
Discorso a parte va fatto, invece, per le rappresentazioni pittoriche delle statue, a volte apparentemente indistinguibili dalle persone in carne e ossa se non fosse per il basamento sempre presente. Non considerando questo particolare, nel caso di sculture colossali, si potrebbe cadere nell’errore di vederci dei mostri. Ecco perché la persona da cui ho preso l’immagine qui in basso ha aggiunto una didascalia che recita: “ragazzo massaggia i piedi del re gigante”… non servono commenti.
Source: The Theban Royal Mummy Project
Infine, altro pretesto per parlare di giganti è quello delle dimensioni ‘sproporzionate’ di alcuni sarcofagi. Nella foto a sinistra, ad esempio, è ritratto l’enorme sarcofago della regina Ahmose-Nefertari, moglie di Ahmose (1543-1518). Date le sue misure (3,80 m), fu sfruttato dai sacerdoti che nascosero le mummie reali nella cachette di Deir el-Bahari (DB320) per conservare, oltre ai resti della regina, anche il sarcofago di Ramesse III. In effetti, è proprio questa la spiegazione: alcuni sarcofagi antropoidi sono così grandi perché, come delle matrioske, dovevano contenere altre bare gradualmente più piccole. Per fare l’esempio più celebre, la mummia Tutankhamon era deposta in un sarcofago antropoide in oro massiccio, a sua volta contenuto in uno ligneo ricoperto d’oro, ancora in un altro dello stesso tipo e, infine, in una grande cassa parallelepipeda in quarzite.
Tuttavia, esiste un caso -spesso citato dalla fantarcheologia- in cui le tombe effettivamente non sono state concepite per umani, ma comunque nemmeno per giganti. Nel Serapeo di Saqqara, 24 sarcofagi in granito (foto in basso) misurano 4 m di lunghezza, 2,30 m di larghezza e 3,30 m di altezza e pesano fino a 70 tonnellate perché destinati alle mummie dei tori Api, manifestazioni viventi del dio Ptah.
(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
Oggi faremo luce – espressione quanto mai azzeccata – sulla bufala che riguarda gli OOPArt (Out Of Place Artifact) più famosi d’Egitto, le “Lampade di Dendera”, considerate insieme alla cosiddetta “Pila di Baghdad” la principale prova dello sfruttamento già in antichità dell’energia elettrica. Queste lampadine ‘ante Edison’ si trovano a Dendera, località a circa 70 km a nord di Luxor, più precisamente nel tempio tolemaico di Hathor. Al di sotto dell’edificio, 12 camere sotterranee, ognuna dedicata a una diversa divinità, erano utilizzate per la conservazione degli arredi sacri probabilmente già nel Nuovo Regno, ma furono decorate solo sotto Tolomeo XII (80-51 a.C.) con testi geroglifici e scene che comprendono anche le lampade e altre immagini, come vedremo, mal interpretabili.
Source: taringa.net
Quarant’anni dopo la scoperta delle cripte, effettuata da Auguste Mariette nel 1857, lo scienziato britannico Norman Lockyer affermò che sulle lastre parietali fossero rappresentate grosse lampade a incandescenza simili ai “Tubi di Crookes“, dando vita così alla bufala. C’è chi crede addirittura che Crookes, nei primi anni ’70 dell’800, abbia preso spunto dalle pubblicazioni di Mariette per la sua invenzione. Peccato che i sei volumi di “Dendérah: description générale du grand temple de cette ville” furono stampati tra il 1870 e il 1875. In ogni caso, sempre più persone cominciarono a parlare di un sistema d’illuminazione composto da corpi globulari di vetro e filamenti metallici interni che si sarebbero surriscaldati fino a irradiare fotoni. Alcuni hanno anche provato a riprodurne il modello (vedi foto in alto).
Cauville S., Le Temple de Dendera, pag. 57
Ma come veniva creata la corrente? Semplice! Sarebbero esistiti generatori che, attraverso cavi, convogliavano l’elettricità in grandi accumulatori, come si vede nel rilievo della I Cripta Sud, consacrata ad Hathor-Iside (immagine a sinistra). Ovviamente sono sarcastico perché sto parlando dell’ennesimo esempio di quanto i ‘piramidioti’ cerchino il mistero anche dietro fatti acclarati. L’elemento rappresentato, infatti, è una versione particolarmente complessa di un oggetto ben noto agli egittologi: la menat. La menat (foto in basso a sinistra) è una collana formata da un ampio pettorale di perline e da un contrappeso che ricadeva dietro la schiena, utilizzata come strumento musicale e, essendo un attributo di Hathor, anche come simbolo cultuale. Quindi, non è un caso che quest’oggetto sia presente proprio nella cripta dedicata alla dea anche definita “La Signora della menat”. Fra l’altro, quelle che dovrebbero essere le cabine dell’ENEL sono invece quattro sistri, strumenti a percussione forse più conosciuti dal grande pubblico e altro attributo di Hathor, per questo raffigurati anche sui capitelli delle colonne della facciata del tempio (foto in basso a destra).
Source: archaicwonder.tumblr.com
Source: wikipedia.org
Proseguendo verso est, si arriva alla cripta di Horus Sematawi, dove finalmente troviamo i nostri OOPArt. Anche in questo caso, sono costretto a far ricorso alla pareidolia, cioè a quel processo mentale che ci fa vedere forme note in composizioni casuali. Le lampade, infatti, sono tali solo per il nostro cervello di uomini moderni, abituato a codificare quel tipo di oggetto ogni giorno e meno avvezzo ai miti cosmogonici egizi che sono il vero soggetto dei bassorilievi: un serpente spunta da un loto che, a sua volta, nasce dalle acque primordiali (Nun). Il serpente rappresenta il Sole Bambino, Horus Sematawi (“Colui che riunifica le Due Terre”), mentre sorge nel fiore che è un altro simbolo solare. Non a caso, la cripta si trova nell’angolo S-E del tempio rispettando la topografia celeste degli edifici religiosi egiziani. Ricapitolando, il filamento è invece il rettile, l’ampolla è il bocciolo, il cavo è il gambo, la base a vite della lampadina è il pilastro djed, segno di stabilità che sorregge il loto permettendo la prima creazione della vita e la sua ripetizione ciclica giornaliera. Il serpente è anche l’emblema della fertilità che veniva portato in processione durante le feste dedicate al dio che si celebravano i primi giorni del raccolto. Durante questi eventi, i sacerdoti trasportavano una barca sacra in cui veniva collocato proprio ciò che è raffigurato sulle pareti della cripta e che si può vedere meglio in un’altra versione in cui Horus ha le fattezze più comuni del falco:
Cauville S., Le Temple de Dendera, pag. 59
Quindi, le camere sotterranee non erano illuminate da faretti alogeni, ma rimanevano al buio tutto l’anno per conservare queste reliquie che erano mostrate alla popolazione solo in occasione delle relative feste. Se non fosse sufficiente la precedente interpretazione iconografica, basterebbe leggere i testi geroglifici che ci forniscono l’inventario delle cose custodite nella stanza:
“Horus-Sematawi, il grande dio che prende posto in Eliopoli, l’anima vivente nel loto e nella barca notturna, ferro, 4 palmi” (Cauville, Dendara V, 140,5)
Viene così descritta una barca di ferro di 30 cm che trasporta l’immagine del dio, in forma di serpente rampante su fiore di loto (Dend. V, 33,5), realizzata in oro (Dend. V, 144,3). In conclusione, nessuno dovrà pagare una salata bolletta della luce.
(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie che riguardano l’Egitto)
Odio quando la gente parla di cose che non conosce e, ancora di più, quando pretende di aver ragione. E, purtroppo, in archeologia succede spesso. Molti, troppi, con la scusa del «da piccolo avrei voluto fare l’archeologo, ma poi sono diventato ingegnere» (niente di personale, è solo un esempio) e con alle spalle una “solida” documentazione, quando va bene, su wikipedia, si arrogano il diritto di mettere in dubbio dati SCIENTIFICI supportati da anni di studi di professionisti che si occupano di antichità per lavoro, non nel tempo libero. Perché l’archeologia è un MESTIERE, non una passione (o, meglio, non solo), un hobby, un passatempo. Si è lottato tanto per il nostro riconoscimento, non solo a livello legislativo, ma una parte dell’opinione pubblica è ancora convinta che chiunque potrebbe occuparsi, allargando un po’ il discorso, di cultura. Non a caso, lo Stato se ne approfitta sfruttando “volontari” in musei, monumenti, scavi e in altre mansioni che dovrebbero essere affidate solo a persone competenti che hanno speso tempo e denaro per la loro formazione. Nel fine settimana, io non mi metto a curare carie o a progettare rotonde. Allora per quale motivo uno che fa tutt’altro nella vita dovrebbe pretendere di saperne di più di chi ha laurea, specializzazione, dottorato, esperienza sui libri e sul campo?
Tutto questo sfogo perché, ormai da qualche anno, mi occupo di divulgazione archeologica sul web e continuo a veder spuntare siti o blog di “amatori” che pubblicano SPAZZATURA. Niente in contrario con chi condivide con gli altri il proprio amore per la storia, anzi. Mi riferisco, piuttosto, a tutti quei cialtroni che, per ignoranza o, peggio, per guadagno, fanno girare vere e proprie fandonie senza alcun fondamento che, però, vengono prese per buone dal pubblico che non controlla le fonti. Questa situazione è ancora più grave per l’antico Egitto, la cui aurea di mistero ed esotismo è terreno fertile per fantarcheologi, ufologi, new ager, cospirazionisti e creazionisti. Non passa settimana che qualcuno non mi chieda di alieni, Atlantide, retrodatazioni, verità nascoste o roba simile e, alle mie risposte, gli interlocutori sembrano restare delusi. Infatti, la corretta spiegazione agli enigmi della storia è quasi sempre la più semplice.
Così, era da un po’ di tempo che pensavo di lanciare una nuova rubrica in cui confutare le grandi bufale che girano intorno al mondo dell’egittologie e l’occasione si è proposta negli ultimi giorni grazie a Benjamin Carson. A chi non segue l’attualità politica statunitense, non dirà niente questo nome che è saltato alla ribalta soprattutto sui social. Si tratta di un ex neurochirurgo in corsa alle primarie del Partito Repubblicano per le elezioni presidenziali del 2016; insomma, un pretendente alla Casa Bianca. Lo scorso 4 novembre (ricordo, il 93° anniversario della scoperta della tomba di Tutankhamon), un giornalista della CBS gli ha chiesto se credesse ancora in una sua teoria espressa diciassette anni fa, ottenendo una conferma. Nel 1998, infatti, durante una conferenza alla Andrews University, Carson affermò che le piramidi non sono costruzioni degli alieni (e fin qui, tutto bene) ma neanche tombe, bensì granai realizzati da Giuseppe figlio di Giacobbe. Già, quello delle vacche grasse e vacche magre. Se non ci credete, andate al minuto 3.44:
L’origine di queste dichiarazioni è spiegata dall’adesione di Carson alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno che crede nell’infallibilità delle Sacre Scritture. In questo modo, Giuseppe, dopo aver interpretato i sogni del faraone, sarebbe diventato visir e avrebbe fatto costruire le piramidi per immagazzinare il grano durante i periodi di fertilità. In realtà, però, la Bibbia non fa alcun riferimento alle piramidi; basta leggere i versetti in questione:
“Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto. Quindi Giuseppe si allontanò dal faraone e percorse tutta la terra d’Egitto. Durante i sette anni di abbondanza la terra produsse a profusione. Egli raccolse tutti i viveri dei sette anni di abbondanza che vennero nella terra d’Egitto, e ripose i viveri nelle città: in ogni città i viveri della campagna circostante. Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare, in grandissima quantità, così che non se ne fece più il computo, perché era incalcolabile”. (Genesi 41, 46-49)
Si parla, a seconda delle traduzioni, di “depositi” o “magazzini del re”. Allora come si è arrivati a una conclusione simile? Questa credenza si diffuse nel Medioevo, con le prime fonti che presentano le piramidi come grandi silos che risalgono al VI secolo, forse per un errore nell’etimologia del nome accostato a “pyros”, grano in greco. Tra gli esempi più famosi, si può ricordare l’Historia Francorum di Gregorio di Tours (1.10) del 574-593. I testi in questione, cristiani e arabi, nel corso dei secoli hanno influenzato anche l’arte religiosa, come si può osservare in uno splendido mosaico del XII secolo in una delle cupole di San Marco a Venezia (tra le mani di Carson nell’immagine in alto).
Source: moy.guide
Ma veniamo al momento delle smentite. Prima di entrare nel particolare con le spiegazioni, però, ragioniamo con l’ovvio. A sinistra potete vedere lo schema della struttura interna della Piramide di Cheope che, al di là di poche stanze e corridoi, è piena. Perché costruire un magazzino di 7 milioni di tonnellate per conservare qualche quintale di cereali? Inoltre, non mi sembra così comodo spingere ceste piene di materiale su per la ripida Grande galleria.
Ma faccio finta che queste osservazioni non bastino e passo alle prove. Non ci sono dubbi che le piramidi fossero tombe grazie a testimonianze scritte e archeologiche. Prima di tutto, sono ben chiari i passi che, nel corso dell’Antico Regno, hanno portato alla trasformazione delle sepolture reali. Nel Protodinastico, i faraoni erano sepolti nelle, o meglio, sotto le mastabe (dall’arabo “panca”), strutture monumentali in pietra o, più spesso, mattoni crudi dalla forma troncopiramidale. Queste tombe sono una regolarizzazione dei tumuli funerari e hanno anche un’origine ideologica. Nella teologia eliopolitana, infatti, il demiurgo, Atum o Ra, si autogenera sulla collina primordiale che emerge dalle acque indistinte del Nun. Quindi, la mastaba, come successivamente la piramide, è la riproduzione del monticello dove avviene per la creazione iniziale detta, appunto, sep-tepi , la “Prima volta”. Questa simbologia rimanda alla rinascita del faraone dopo la morte e al suo compito di reiterare ciclicamente la creazione originale. Con la III dinastia, si ha il primo passo verso la struttura sepolcrale definitiva che si avrà solo a Giza. La mastaba di Djoser (2680-2660) subì progressivi ampliamenti, secondo le fonti voluti dall’architetto Imhotep che aggiunse altri piani realizzando prima una piramide a quattro gradoni e poi la definitiva a sei alta 60 metri. Poi, all’inizio della IV dinastia, Snefru (2650-2609) si fece costruire addirittura tre piramidi, una a Meidum (in realtà, regolarizzò le facciate di una struttura a sette o otto gradoni preesistente, probabilmente opera di Huni) e due a Dashur, la “Piramide romboidale” e la “Piramide rossa”. La strana forma della anche detta “Piramide a doppia pendenza” evidenzia il mancato raggiungimento del progetto finale di Cheope (2605-2580) e dei suoi successori Chefren e Micerino. In ogni caso, questo tipo di tomba verrà adottato fino alla XIII dinastia e, in versione molto più ridotta, anche come segnacolo delle sepolture di Nuovo Regno.
Già che ci sono, e spero di non doverci tornare su, sfato un’altra leggenda metropolitana sull’Egitto: le piramidi sono in tutto il mondo, dalla Cina al Messico, perché opera di un’unica civiltà perduta, Atlantide o simili, dall’alto livello tecnologico (gli alieni non li prendo nemmeno in considerazione). L’evoluzione verso la forma piramidale ha anche motivazioni strutturali. Esperimento 1: prendete una manciata di sabbia e fatela cadere lentamente su uno stesso punto. Vedrete che si formerà un mucchietto a punta con l’inclinazione di circa 51 gradi, la stessa della Grande Piramide. Esperimento 2: prendete delle formine da bambini, quelle che riproducono le principali figure solide. Provando a capovolgere un cilindro, una sfera, un parallelepipedo o, appunto, una piramide, in quale caso impiegate più forza? Appunto. Tutto questo per spiegare empiricamente che la piramide è la forma più stabile, la soluzione ideale per realizzare grandi opere sviluppate verso l’alto ed è normalissimo che diverse culture siano arrivate a costruire monumenti simili senza il bisogno di essere entrate in contatto.