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“Assassinio sul Nilo”, 2022 (blooper egittologici)

Da due settimane è nelle sale italiane “Assassinio sul Nilo”, film tratto dall’omonimo romanzo (intitolato anche “Poirot sul Nilo”) di Agatha Christie e reboot di una pellicola del 1978 di cui ho già parlato sul blog. Da amante dei gialli e avendo letto il libro, aspettavo con impazienza quest’uscita, prevista per il 2020 ma rimandata a causa del Covid-19 e per strane vicende che hanno investito Armie Hammer, uno degli attori principali, accusato di molestie e addirittura di cannibalismo.

Il mio personale hype è salito anche per le buone recensioni che hanno caratterizzato il primo film della serie (“Assassinio sull’Orient Express”), sempre diretto e interpretato da Kenneth Branagh, e ovviamente per l’ambientazione egiziana. La trama infatti, senza fare troppi spoiler, gira attorno a una crociera sul Nilo del 1937, in cui sul lussuosissimo piroscafo Karnak la ricca ereditiera Linnet Ridgeway (Gal Gadot) trascorre la luna di miele con il marito Simon Doyle (Hammer). Tuttavia, durante il viaggio che, dal Cairo ad Abu Simbel, tocca alcuni tra i luoghi più iconici d’Egitto, si verificano dei delitti che il celebre investigatore belga Hercule Poirot (Branagh) dovrà risolvere indagando tra tutti i presenti, ognuno dei quali mostra possibili motivi per uccidere. Inutile mentirvi: chi ha letto il romanzo sa già come andranno più o meno le cose, seppur ci siano parecchie modifiche alla trama originaria. Il flash back introduttivo e il finale sono completamente inventati; alcuni fatti sono stati tagliati, stirati, compressi o completamente reinterpretati; il cast ha subito uno sconvolgimento figlio della recente – imposta e forse ipocrita – attenzione hollywoodiana alle minoranze. Se infatti i personaggi di Agatha Christie sono tutti bianchi e ricchi – o almeno presunti tali -, testimoniando la società colonialista europea dell’epoca, nel film alcuni importanti ruoli sono affidati ad attori di colore e viene presentata una relazione omosessuale tra due donne che nel romanzo non esiste. In tutta questa reinterpretazione è stato eliminato anche Guido Richetti, l’unico archeologo e per giunta italiano. Un’altra ‘novità’ introdotta dal regista è l’estesa esplorazione dell’animo e dei turbamenti di Poirot, a discapito dell’approfondimento degli altri personaggi e dell’ambiente circostante.

Per assurdo, infatti, proprio per questo motivo c’è pochissimo Egitto in “Assassinio sul Nilo”.

Da appassionata della storia del Vicino Oriente e avendo sposato in seconde nozze l’archeologo Max Mallowan (apprendista di Leonard Woolley nel sito di Ur), Agatha Christie frequentò diversi cantieri di scavo in Iraq e Siria e visitò più volte l’Egitto. Ne derivano una grande attenzione nella narrazione delle ambientazioni archeologiche orientali che si ripetono spesso nelle sue opere (“Non c’è più scampo”, un’altro romanzo su Poirot intitolato nell’originale “Murder in Mesopotamia”; sempre su Poirot, la storia breve “La maledizione della tomba egizia”; il giallo ambientato nella Tebe del 2000 a.C. “C’era una volta”; l’opera teatrale “Akhnaton”) e una minuzia di particolari nella descrizione di luoghi che la scrittrice visse in prima persona.

Questa atmosfera si respira nel film di Guillermin del 1978, dove gli attori si muovono effettivamente tra piramidi e templi; nella versione di Branagh, invece, non ci sono scene girate in Egitto e ci si deve accontentare di una brutta computer grafica o al massimo di ricostruzioni in teatri di posa. Inizialmente la produzione aveva pensato di andare in Egitto, per poi virare, visto le difficoltà riscontrate, verso gli Atlas Studios in Marocco (dove sono state girate alcune pellicole di cui mi sono occupato, come “La Mummia“, “Asterix & Obelix – Missione Cleopatra“, “Exodus – Dei e re“); ma alla fine si è deciso di restare in Inghilterra.

Uno scorcio impossibile a Giza

Se nel 1978 Peter Ustinov & Co. sono stati filmati sulla vera nave PS Sudan, a cui la Christie si ispirò per la Karnak, e nello storico Old Cataract Hotel (Sofitel Legend) di Assuan, nella versione del 2022 abbiamo monumenti e paesaggi in palese CGI o attrazioni da parco dei divertimenti. Il sito di Giza sembra lo sfondo di un videogame con evidenti licenze sulla posizione della sfinge – troppo vicina alle piramidi – e simmetrie forzate (basti guardare la piramide di Micerino che è un duplicato speculare di quella di Cheope; immagine in alto). Gli edifici dell’isola di File appaiono troppo piccoli. Ma i principali errori si trovano nella resa del Tempio Maggiore di Ramesse II ad Abu Simbel che, come dicevo, in alcune inquadrature sembra più “Ramses il risveglio” di Gardaland. La struttura interna è completamente inventata, con giganteschi mascheroni del faraone e piani superiori che fanno gioco alla sceneggiatura. Segnalo soprattutto una specie di terrazzo panoramico tra i due colossi di destra, che non esiste nella realtà, dove i due sposini salgono grazie a una scalinata nascosta per trovare un po’ di intimità… se non fosse per… (immagine in basso).

Da non considerare invece le castronerie che i vari personaggi dicono visitando i siti archeologici: la mastaba di Nefertari, le 8 spose di Ramesse II o le regine che sarebbero state sepolte vive insieme ai faraoni non sono errori storici da imputare agli sceneggiatori ma le classiche chiacchiere che i turisti si scambiano quando conoscono poco la materia egittologica. Ho sentito di peggio.

Infine, anche se capisco il facile riferimento, trovo leggermente ridicola la scena conclusiva con i cadaveri delle vittime portati giù dal battello bendati come mummie, perfino con le braccia incrociate.

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Il Re Scorpione (bloopers egittologici – con Paolo Medici)

Nel 2001, il secondo capitolo della trilogia cult della Mummia con Brendan Fraser aveva lanciato un personaggio che, nonostante il minutaggio limitato, aveva attirato il favore del pubblico. Il mostruoso villain del film, l’ibrido Re Scorpione – metà uomo metà aracnide – fu così riutilizzato l’anno dopo per uno spin-off della saga, che tuttavia reinterpretava completamente la storia. Infatti, il malvagio guerriero che aveva venduto l’anima ad Anubi ne “La Mummia – Il ritorno” divenne un mercenario accadico – buono – destinato a uccidere il vero cattivo della pellicola e a regnare per primo sull’Egitto unificato.

“Il Re Scorpione” è fra l’altro il debutto da protagonista di Dwayne Johnson, il wrestler meglio noto come The Rock, che, dopo la breve comparsata nella Mummia (dove spesso è sostituito dal suo orribile doppione in CGI) iniziò così una fortunata carriera da attore. Il film ebbe anche buoni incassi, tanto da essere seguito da un prequel e tre sequel per l’home video… che non ho il coraggio di vedere. È stata infatti già un’impresa finire di guardare questo blockbusterone da 60 milioni di dollari, figuriamoci i seguiti prodotti a basso costo.

Come detto, la storia si svolge più o meno nel 3000 a.C., quando un’armata inarrestabile guidata da Memnone porta morte e distruzione in tutto il Vicino Oriente. Nella mitologia greca, Memnone è un eroe semidivino, re degli Etiopi, che combattè la guerra di Troia al fianco di Priamo. L’Etiopia era il termine con cui, ad esempio, Erodoto indicava le terre a sud di Assuan; per questo i Greci ribattezzarono le due gigantesche statue del tempio funerario di Amenofi III a Tebe Ovest come “Colossi di Memnone”, credendo ritraessero proprio il personaggio. Questo è il primo blooper storico perché convenzionalmente guerra di Troia si colloca nel XII secolo a.C.

In ogni caso, le poche tribù rimaste libere assoldano un mercenario accadico, Mathayus – il futuro Re Scorpione -, per uccidere la maga indovina Cassandra (altro riferimento omerico buttato a caso) che indirizza le campagne militari di Memnone grazie alle sue visioni. Ed ecco il secondo di un’infinita serie di anacronismi perché l’impero accadico parte dal 2334 a.C. con Sargon di Akkad; e pur considerando la precedente fase nomadica delle popolazioni semitiche corrispondenti, siamo comunque fuori strada.

Per farla breve, Mathayus riuscirà più o meno da solo a sbaragliare tutti i nemici, sopravvivere al veleno di uno scorpione, conquistare il cuore della bella Cassandra e diventare il legendario re che, da lì a breve, avrebbe regnerato sull’Egitto unificandolo. Questa volta non vale nemmeno la pena fare un’analisi più accurata perché gli errori storici sono fin troppi: spade in ferro nell’antica Età del bronzo; shuriken e altre armi giapponesi; polvere da sparo; cavalli con selle e briglie; tigri; obelischi e statue di Anubi; menzioni di popolazioni e città molto più recenti come Micenei e Pompei. Più interessante è invece conoscere meglio la figura storica che ha ispirato – almeno nel nome – il protagonista del film. Chi era veramente Re Scorpione? Lo chiediamo a un esperto del periodo, Paolo Medici, laureato in Archeologia del Vicino Oriente a Venezia con tesi triennale sulla nascita della scrittura egizia e magistrale sul ruolo di Hierakonpolis nella formazione dello stato egizio, infine dottorato in Egittologia presso la Freie Universität di Berlino sulla formazione statale egizia e sull’evoluzione della complessità sociale nel periodo Pre e Protodinastico.

Baines, J. and Malek, J. 1980. Atlas of Ancient Egypt, p. 79. Disegno: Adams, B. 2008. Protodynastic Egypt, p. 8

Quale dei due?

Eh sì perché ce ne sono addirittura due! Quello che si vede nel film dovrebbe fare riferimento al secondo cioè quello della Dinastia 0 che si colloca verso la fine del IV millennio a.C, mentre il primo sarebbe un regnante Predinastico di due secoli precedente. Prima però è bene chiarire il quadro storico in cui sarebbe dovuto vivere il re Scorpione (II).

Il primo a definire il concetto di Dinastia 0 fu l’archeologo inglese James Quibell durante gli scavi condotti a Hierakonpolis. La definizione di Dinastia 0, però, presentò fin dall’inizio alcune criticità. In primo luogo suscita perplessità la scelta dei confini cronologici e la lista dei sovrani che vi figurano all’interno. Una seconda problematica riguarda la definizione stessa di dinastia che risulta impropriamente applicata a tali re. Con il termine dinastia ci si riferisce normalmente a un corpo omogeneo di governanti legati fra loro da legami famigliari e più in generale di parentela. La cosiddetta Dinastia 0, al contrario, include governanti e capi non collegati fra loro e riferibili a siti diversi e distanti, come Abydos, Buto, Helwan, Hierakonpolis, Qustul, Tura e Tarkhan. L’unico tratto ad accomunare questi personaggi è, dunque, è la cronologia: tutti i governanti elencati nella Dinastia 0 appartengono, infatti, al un periodo che va da Naqada IIIA/B a Naqada IIIC1 (circa 3350-3100 a.C.), o fino a Narmer per alcuni autori, sebbene Narmer sia spesso considerato il primo monarca della I Dinastia. I dibattiti su questi regnanti sono ancora in corso e, in particolare, il re Scorpione è uno dei più discussi; ci sono ad oggi poche prove archeologiche di questo sovrano e scarse rappresentazioni che lo ritraggono. L’unica tra queste che è collegata a un contesto reale potrebbe essere la testa di mazza di Scorpione trovata nel deposito principale di Hierakonpolis (foto in alto).

Friedman, R. 2008. The Cemeteries of Hierakonpolis, in Archeo-Nil, p. 13

Purtroppo, non sono state trovate tombe chiaramente collegate a lui, anche se alcuni autori gli attribuiscono il complesso della tomba 1 nel cimitero d’élite HK6 di Hierakonpolis (nell’immagine in alto, la tomba più a destra).

Stevenson, A. 2015. Locating a Sense of Immortality in Early Egyptian Cemeteries. In Renfrew, C., Boyd, M. and Morley I. (Eds.). Death Rituals, Social Order and the Archaeology of Immortality in the Ancient World: ‘Death Shall Have No Dominion’, pp. 371-381

L’egittologo tedesco Günter Dreyer, invece, ha sostenuto che la tomba B50 di Abydos sia il luogo di sepoltura di Scorpione. Tuttavia, non ci sono prove certe a sostegno di ciò e, come la maggior parte degli autori ritiene, non ci sono testimonianze che Scorpione avesse alcun potere su Abydos. D’altra parte, Kemp sostiene che sia Scorpione sia Narmer provenissero da Hierakonpolis.

In realtà la stessa lettura del segno dello scorpione come nome del sovrano è controversa. Vale la pena soffermarsi prima sul segno della rosetta. Quest’ultima, paragonabile alla rosetta vicino al nome di Narmer nella sua tavolozza e vicino ad altre figure dominanti su altri oggetti, indicherebbe la parola “re”, sebbene ciò non sia mai stato definitivamente dimostrato. Tenuto conto che il simbolo non è mai stato trovato in periodi successivi tra i geroglifici standard, non ci sono elementi che vengano in aiuto per la sua comprensione. Alcuni hanno avanzato anche l’ipotesi che il simbolo dello scorpione possa indicare una divinità locale di Hierakonpolis. La mancanza di documenti amministrativi che portano il suo nome ci impedisce di svelare la vera natura di questo ipotetico “re Scorpione”. Gli unici oggetti rinvenuti, ipoteticamente, riferibili a lui sono alcune placchette d’avorio trovate ad Abydos, Minshat Abu Omar e Tarkhan e recanti un simbolo estremamente stilizzato che mette in disaccordo gli studiosi. Questi si dividono su due interpretazioni: Scorpione o Ka (le braccia alzate messe in orizzontale; foto in basso).

È abbastanza chiaro che, da un punto di vista sia archeologico sia storico, permangono ancora alcune perplessità sull’esistenza di questi due sovrani. Ma cerchiamo di tirare le fila e riassumere il discorso.

Il nome Scorpione sembra fare riferimento a due possibili regnanti: uno teoricamente vissuto attorno al 3400-3200 a.C. e seppellito nella tomba U-j, mentre l’altro vissuto tra il 3200 e il 3000 a.C. e deposto ad Hierakonpolis nella tomba 1 del cimitero HK6, oppure, meno facilmente, nella tomba B50 di Abydos.

Per il primo le testimonianze sono alcune placchette ritrovate nella sua tomba con il simbolo di uno scorpione, a cui si aggiunge un’iscrizione presente nel deserto Tebano in cui è rappresentato il simbolo di uno scorpione che sconfigge non meglio identificati nemici, forse rivali del proto-regno di Naqada.

Il re Scorpione II compare invece sulla testa di mazza a cui si è precedentemente accennato, di cui però non si conosce la provenienza tombale originaria. La stessa lettura della rosetta e dello scorpione come “re scorpione” è dubbia, considerando che potrebbe essere interpretabile come un altro titolo o addirittura come una divinità locale.

In conclusione se si accettasse l’esistenza di questi due regnanti, di origine certamente egizia, allora sarebbe necessario specificare che il primo potrebbe aver avuto un ruolo legato principalmente ad Abydos, dove sarebbe anche stato sepolto, probabilmente come regnante locale quando ancora vi erano 3 proto-regni nell’Alto Egitto (Abydos, Hierakonpolis e Naqada). Il secondo re Scorpione, invece, dovrebbe aver avuto Hierakonpolis come area d’influenza e il sito HK6 come luogo di sepoltura. Nella definizione dei re Scorpioni emerge con chiarezza la complessità politica di questo periodo storico. Un momento in cui si assiste al passaggio dalla presenza contemporanea di diverse figure che esercitarono il potere su territori limitati all’accorpamento progressivo di queste entità politiche in veri e propri proto-regni. È proprio da questo magma di forze politiche in contrasto che emergerà infine la figura Narmer, che regnò sicuramente su un Alto Egitto unito, e forse anche su un Egitto completamente unificato, ma questa è un’altra storia.

Wildung, D. 1981. Ägypten vor den Pyramiden, Mainz
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Gli Oscar dell’Egittologia

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Statuetta di Ptah, legno dorato, dalla tomba di Tutankhamon (Museo Egizio del Cairo, JE 60939)

Questa notte a Los Angeles si terrà la cerimonia di premiazione degli Academy Awards durante la quale verranno assegnati oltre 20 Oscar. Nella storia del premio, qualche statuetta è finita anche a film che, in un modo o nell’altro, si sono occupati dell’antico Egitto e che ho recensito per la rubrica “Blooper egittologici”. Ovviamente, per la tipologia di pellicole in questione, si tratta di quasi tutti riconoscimenti di carattere tecnico. Ecco quali (tra parentesi, l’anno di assegnazione):

Cleopatra (1935)

  • Miglior fotografia: Victor Milner

I Dieci Comandamenti (1957)

  • Migliori effetti speciali: John Fulton

Cleopatra (1964)

  • Miglior fotografia (colore): Leon Shamroy
  • Miglior scenografia (colore): John DeCuir, Jack Martin Smith, Hilyard Brown, Herman Blumenthal, Elven Webb, Maurice Pelling, Boris Juraga, Walter M. Scott, Paul S. Fox e Ray Moyer
  • Migliori costumi (colore): Irene Sharaff, Vittorio Nino Novarese e Renié
  • Migliori effetti speciali: Emil Kosa Jr.

Assassinio sul Nilo (1979)

  • Migliori costumi: Anthony Powell

I Predatori dell’Arca Perduta (1982)

  • Miglior scenografia: Norman Reynolds, Leslie Dilley e Michael Ford
  • Miglior montaggio: Michael Kahn
  • Miglior sonoro: Bill Varney, Steve Maslow, Gregg Landaker e Roy Charman
  • Migliori effetti speciali: Richard Edlund, Kit West, Bruce Nicholson e Joe Johnston
    • Miglior montaggio degli effetti sonori: Ben Burtt e Richard L. Anderson

Il Principe d’Egitto (1999)

  • Miglior canzone: “When You Believe”, musica e testo di Stephen Schwartz
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“Frankenstein vs. The Mummy” (Blooper egittologici – Speciale Halloween)

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Che Halloween sarebbe senza un horror egittizzante da smontare frame dopo frame? Ormai è diventata una tradizione cercare per questa ricorrenza pellicole brutte su mummie e maledizioni, ma quest’anno mi sono superato… Vi basti sapere solo che la chicca che ho scoperto ha un gradimento dell’11% sul sito Rotten Tomatoes (per fare un paragone, l’inguardabile “The Pyramids” raggiunge il 22%). Tuttavia, a parziale giustificazione, va detto che “Frankenstein vs. The Mummy” (2015) è una produzione indipendente a basso costo pensata per il solo mercato home video e “sfortunatamente” non ancora arrivata in Italia. Quindi dubito che l’abbiate mai vista (e che lo farete in futuro, mi auguro). Come è ovvio già dal titolo, l’idea del regista e sceneggiatore Damien Leone era di far combattere tra loro due icone del cinema horror classico. In questo senso, da un lato segue la moda hollywoodiana e non solo del “Tizio contro Caio” in voga già dagli anni ’40, dall’altro anticipa il Dark Universe iniziato quest’anno con “La Mummia”. Ma il problema principale è che questo “memorabile” scontro tra mostri, come vedremo, dura solo 3 minuti alla fine del film.

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I fatti si svolgono a New York, dove due giovani professori universitari iniziano una relazione sentimentale: Victor Frankenstein (Max Rhyser) insegna filosofia della medicina, mentre Naihla Khalil (Ashton Leigh) è un’egittologa (foto in alto). Così, se si escludono poche scene di tensione, il regista ci ammorba per la prima ora con la loro storia d’amore infarcita di giochi di sguardi, fiorellini, inviti a cena, baci in biblioteca; insomma, il vero orrore! Questa tenera routine viene interrotta dalla pazzia di lui e dalla sfiga di lei. Il Doctor V., infatti, dietro il viso pulito da bravo ragazzo, nasconde manie di onnipotenza e una morbosa ossessione per la vita eterna; per questo, conduce esperimenti in uno scantinato lercio con parti di cadaveri recuperati dall’inquietante bidello dell’ateneo. Ora, d’accordo l’ambientazione splatter e l’ispirazione al racconto ottocentesco di Mary Shelley, ma in un laboratorio del III millennio, seppur clandestino, almeno un frigobar per conservare gli organi umani me lo aspetterei. E poi ci si meraviglia che il cervello arrivato in un sacchettino di plastica sia andato a male. Ma, evidentemente, il servizio non comprendeva il “soddisfatti o rimborsati” e, al rifiuto di pagamento, Frankenstein uccide il suo fornitore e ne usa l’encefalo per completare la sua creatura.

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Naihla, invece, oltre ad insegnare in una classe di decerebrati che crede che gli alieni abbiano costruito le piramidi, è appena tornata da una missione archeologica a Giza. Veniamo a sapere che, in quell’occasione, era stata ritrovata la mummia reale di Userkara, poi trasportata in USA per essere studiata. Peccato che in Egitto la partage – la spartizione dei reperti ritrovati tra scopritori stranieri e paese ospitante – sia stata abolita gradualmente dal 1922. Tale riforma fu accelerata dalla scoperta della tomba di Tutankhamon e dei suoi inestimabili tesori. In ogni caso, Userkara è effettivamente il nome di un faraone della VI dinastia che regnò intorno 2330 a.C. circa, secondo alcuni studiosi usurpando il trono per pochi anni tra Teti e Pepi I. Forse proprio per questo gli sceneggiatori lo hanno scelto per riferirsi a una mummia maledetta. Durante l’autopsia – condotta in maniera non proprio professionale – l’antropologo Prof. Walton trova un amuleto udjat in faience sotto le braccia e lo sradica letteralmente dalla cassa toracica con un bisturi. Così facendo, viene investito da un getto di gas velenoso che lo rende schiavo di Userkara la cui anima è intrappolata nel corpo imbalsamato. Infatti, in questo stato, il faraone non può muoversi e, per poter finalmente spezzare la maledizione e il suo tormento eterno, ha bisogno prima di risvegliarsi con sangue umano e poi di seguire le direttive scritte nella parte finale – ovviamente andata persa – del papiro ritrovato nella sua tomba.

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Così, dopo un’ora e mezza, inizia finalmente la parte sanguinolenta del film con i mostri che cominciano ad effettuare i rispettivi efferati omicidi. Le due scie di sangue convergono verso la povera egittologa che il mostro di Frankenstein vuole sfruttare per convincere il suo creatore a dargli un corpo più giovane e sano, mentre la mummia crede essere l’unica in grado di formulare l’incantesimo che la libererebbe. Questa convinzione deriva dal fatto che le vede un ciondolo con l’occhio di Horus in uno sfondo di desktop photoshoppato male (immagine in alto) e poi che la sente parlare in un egiziano antico di fantasia.

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Siamo all’epilogo:

  • 1h42′: arriva lo scontro finale;
  • 1h45′: finisce il combattimento con il mostro di Frankenstein che strappa il cuore alla mummia e la uccide (di nuovo);
  • 1h51′: un morente Victor riesce a far fuggire la sua fidanzata piantando un machete nel cranio della sua creatura;
  • 1h54′: titoli di coda.

Riassumendo, l’epica battaglia tra gli antagonisti del film, pompata già nella locandina, si riduce a tre miseri minuti a ridosso della fine che, comunque, lascia il campo libero a un seguito (che si spera nessuno avrà il coraggio di girare).

 

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“La Mummia – Il ritorno” (blooper egittologici)

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Dopo la “Mummia” del 1999, continuo la recensione dei film di Stephen Sommers con il secondo capitolo della trilogia: “La Mummia – Il ritorno”. Questo sarà anche l’ultimo della serie in questa rubrica visto che, in “La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone”, la narrazione si sposta in Cina. In realtà, sarà il penultimo perché mancherebbe ancora “Il Re Scorpione”, prequel/spin-off nato proprio dal film che sto per analizzare in questo articolo.

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Siamo nel 3067 a.C. e il temibile esercito del Re Scorpione (il wrestler “The Rock”) si presenta minaccioso alle porte di Tebe: già su questo primo frame ci sarebbe da parlare per un’ora… L’Egitto in cui è ambientato il flashback iniziale dovrebbe essere quello a cavallo tra predinastico e protodinastico, intorno al momento dell’unificazione delle Due Terre. Un discorso a parte andrebbe poi fatto sulla vera identificazione di Scorpione, nome che si lega a due faraoni della cosiddetta Dinastia 0, ma di cui scriverò più approfonditamente nell’articolo dedicato al film “Il Re Scorpione”. Tebe, invece, è il nome che i Greci diedero a Waset, città di cui si sa poco per la sua fase arcaica. Capoluogo del IV nomo dell’Alto Egitto e capitale di Kemet solo a partire dall’XI dinastia, poi localmente durante il Secondo Periodo Intermedio e soprattutto nel Nuovo Regno, Tebe era probabilmente una piccola località provinciale nell’Antico Regno (le prime tracce si limitano a tombe della III-IV dinastia), figuriamoci per per periodi più antichi di cui non abbiamo attestazioni. I veri centri del potere amministrativo e religioso dell’Egitto pre/protodinastico erano Hierakonpolis (da cui provengono la celebre Paletta di Narmer e le teste di mazza del Re Scorpione II) e Abido (sede, più precisamente a Umm el-Qa’ab, delle necropoli reali delle dinastie 0, I e in parte II), insieme a Naqada e, più tardi, Thinis. In ogni caso, nemmeno queste città avevano l’aspetto della monumentale metropoli mostrata nel film che si adatta – volendo essere buoni – più all’immaginario del Nuovo Regno. Solo per fare un esempio, il principale tempio di Nekhen (Hierakonpolis) era quello di Horus ed era composto ‘semplicemente’ da un recinto di canne intonacate, un tumulo ovale e una struttura in legno. Uno scenario molto lontano da mura ciclopiche, alte scalinate, piloni, obelischi (non monolitici…) e statue colossali ricostruiti in CGI. Anacronistiche sono anche le armi utilizzate dai soldati: al posto di mazze, lance e pugnali, qui viene mostrato il khopesh, spada-falce introdotta nella guerra solo secoli dopo.

Tornando alla storia, Re Scorpione viene sconfitto ed esiliato nel deserto di Ahm Shere dove resta l’unico in vita. Desideroso di vendetta e di potere, il guerriero – un Faust ante litteram – si vende ad Anubi in cambio della sua invincibile armata cinocefala. Conquistato l’Egitto, però, il dio non si accontenta del tempio e della piramide d’oro eretti in suo onore nell’oasi di Ahm Shere, ma si prende subito l’anima di Scorpione dissolvendo i suoi guerrieri sciacallo.

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Esattamente 5000 anni dopo, tra le rovine di una desertica Tebe (come dimenticarsi dell’esistenza della moderna Luxor), ritroviamo i nostri eroi: l’egittologa Evelyn Carnahan (Rachel Weisz), l’avventuriero Rick O’Connell (Brendan Fraser) e, nuovo personaggio, loro figlio Alex. Nei sotterranei di un tempio, Evelyn si muove come se conoscesse già il posto grazie alle visioni che hanno cominciato a colpirla con l’entrata dell’Anno dello Scorpione. Inutile dirvi che gli Egizi non usavano il calendario cinese. Riesce poi a trovare il sacro Bracciale di Anubi e l’emblema del Re Scorpione che era convinta fosse solo un mito senza attestazioni archeologiche precedenti, quando, già nel 1897-8, il britannico James Quibell ne aveva scoperto le sopracitate teste di mazza nel deposito di fondazione del tempio di Horus a Hierakonpolis.

Nel frattempo, nella mitica città dei morti di Hamunaptra, una setta capeggiata da Baltus Hafez (Alun Armstrong), curatore del British Museum, scava alla ricerca del corpo maledetto di Imhotep (Arnold Vosloo). Quest’organizzazione segreta, infatti, mira ad impadronirsi dell’Armata di Anubi e il malvagio sacerdote, con i suoi poteri soprannaturali, è l’unico in grado di contrastare il Re Scorpione una volta resuscitato. Per arrivare nell’oasi di Ahm Shere, hanno bisogno anche del Bracciale di Anubi, una sorta di proiettore olografico della mappa (immagine in basso a sinistra), che però ha già indossato Alex attivando la maledizione.

Negli scantinati del British (in realtà, viene mostrata la facciata dell’università londinese UCL: immagine in alto a destra), compaiono tutti i cari oggetti senza senso di cui avevamo fatto la conoscenza nel capitolo precedente: il Libro dei Morti a forma di diario segreto e i CINQUE canopi. La mummia di Imhotep si risveglia e subito ne approfitta per pomiciare con la bella Meela Nais (Patricia Velásquez), assistente di Baltus e  copia esatta dell’amante del sacerdote, Ankh-Su-Namun. Non è la sola reincarnazione della storia perché si viene a scoprire che Evelyn, in una vita passata, era stata Nefertiti, non la sposa di Akhenaton come avrete pensato, ma una figlia di Seti I. Infatti, durante una delle visioni dell’archeologa, le due donne combattono di fronte al faraone utilizzando, manco fossero Raffaello delle Tartarughe Ninja, l’arma giapponese chiamata “sai” (foto in basso). La presenza di queste rimembranze e dei frequenti dialoghi in egiziano antico, fanno sì che, rispetto a “La Mummia”, qui la consulenza dell’egittologo Stuart Tyson Smith sia stata molto più sfruttata.

 

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La corsa contro il tempo verso la piramide dorata di Ahm Shere fa tappa in ognuno dei siti più iconici d’Egitto, tutti ovviamente stravolti dalla computer grafica: le Piramidi di Giza nel lato sbagliato del Nilo; un irriconoscibile complesso di Karnak (nell’immagine con il treno) posto, come già detto, in mezzo al deserto; l’isola di File che dovrebbe essere parzialmente sommersa dalle acque a causa della prima diga di Assuan (innalzata due volte nel 1907-1912 e nel 1929-1933); il Tempio maggiore di Abu Simbel ancora coperto di sabbia quando, negli anni ’30, era stato già completamente scavato. Un piccolo easter egg che ho apprezzato nel corso del viaggio è il travestimento che indossa Imhotep prima di riacquistare le sue sembianze umane, un pesante mantello nero e la stessa maschera metallica di Belfagor – Il fantasma del Louvre.

Buoni e cattivi, infine, arrivano nell’oasi che si trova in Sudan. Il tempo scade e l’Armata di Anubi si risveglia, fronteggiata senza speranze dai guerrieri Medjai di Ardeth Bey (vi ricordo che questo nome, nel film originale del 1932, era lo pseudonimo di Imhotep stesso); qui si verifica un altro colpo di scena – o buco nella trama – perché O’Connell capisce di essere a sua volta un medjai riconoscendo, in alcuni rilievi della piramide, il tatuaggio che ha sull’avambraccio e che non compare nel primo film. Rick è quindi il prescelto a uccidere il Re Scorpione, un ibrido mostruoso metà uomo metà aracnide, con l’ausilio dello Scettro di Osiride. Lo scontato happy ending vede tutti i villain fare una brutta fine, compreso Imhotep risucchiato nell’aldilà, questa volta per sempre (salvo un improbabile ennesimo sequel di cui farei volentieri a meno).

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“XXVII Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico” (Rovereto, 4-8 ottobre 2016)

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Torna l’appuntamento annuale con la divulgazione archeologica a mezzo cinematografico: a Rovereto (TN), dal 4 all’8 ottobre, si terrà la “27ª Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico”. La manifestazione, organizzata dalla Fondazione Museo Civico di Rovereto con la collaborazione della rivista Archeologia Viva, vedrà la presenza di 50 film da tutto il mondo appartenenti al “settore della ricerca archeologica, storica, paletnologica, antropologica e comunque aventi come scopo la tutela e la conservazione dei beni culturali”. Tra questi, tre pellicole si occupano di tematiche inerenti all’antico Egitto: “A la dècouverte du temple d’Amenhophis III” del fotografo e cineasta francese Antoine Chéné che da anni lavora con il Centre Franco-Égyptien d’Études de Temples de Karnak, ma che, questa volta, si è occupato del tempio funerario di Kom el-Hettan;  “Ancient Egypt – Life and Death in the Valley of the Kings”, i due documentari realizzati da Ian Hunt per la BBC con protagonista l’egittologa Joann Fletcher.

A margine delle proiezioni, Francesco Tiradritti, direttore della Missione Archeologica Italiana a Luxor (MAIL), terrà una conferenza dal titolo “Ricerche nel cenotafio di Harwa: iniziazione e resurrezione nell’Egitto del VII secolo a.C.”, confermando, così, Tebe Ovest come filo conduttore dell’egittologia presente a Rovereto nell’edizione 2016.

Il pubblico presente in sala eleggerà il film vincitore del consueto Premio “Città di Rovereto – Archeologia Viva” e si conferma la menzione speciale* conferita da una giuria di archeoblogger di cui ho l’onore e il piacere di far parte insieme a:

Inoltre, quest’anno avrò la possibilità di essere presente di persona all’evento e di accedere all’importante banca dati fotografica del Museo Civico che contiene oltre 30.000 scatti di Maurizio Zulian da diverse località di Alto e Medio Egitto. Quindi, continuate a seguirmi qui sul blog e sui vari social (Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat: @djedmedu) per essere informati dei prossimi aggiornamenti.

Per il programma completo: http://www.rassegnacinemaarcheologico.it/rica_context.jsp?ID_LINK=114023&area=316&id_context=406393&page=2

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*La menzione speciale archeoblogger è stata conferita a: “Alla scoperta del Trentino. Luoghi e simboli del territorio: la Preistoria” (S. Uccia, 2015)

 

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“Gods of Egypt” (blooper egittologici)

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Per la prima volta da quando è nato questo blog, sono andato al cinema appositamente per scrivere un articolo da inserire nella rubrica Blooper egittologici: non avrei potuto scegliere occasione peggiore. “Gods of Egypt”, infatti, va dritto sul podio delle più brutte opere finora recensite, seppur non riuscendo a superare il primato assoluto che, in extremis, rimane a “The Pyramid”. E il fatto che non abbia potuto apprezzare a pieno tutte le potenzialità del film – nella mia città non era disponibile la versione in 3D – non fornisce di certo alcuna attenuante. Proprio per l’insolita genesi di questo post, esprimerò le mie reazioni a caldo senza soffermarmi sui particolari e utilizzerò immagini prese dalle pagine social ufficiali della pellicola.

CTtf7TtUwAApGdw.jpgIl film, diretto da Alex Proyas (“Il corvo”, “Io, Robot”), partiva con grandi ambizioni grazie a un budget di 140 milioni di dollari e a una pressante campagna pubblicitaria, cavalcando una moda egittomaniaca che sembra aver contagiato il grande e il piccolo schermo negli ultimi due o tre anni (“Exodus”, “The Pyramid”, “Notte al museo – Il segreto del faraone”, “Tut”). Nonostante ciò, negli USA, gli incassi sono stati veramente scarsi e, in Inghilterra, è probabile che sarà rilasciata solo la versione in DVD. Inoltre, ancor prima dell’uscita nelle sale, il regista è stato costretto a scusarsi per la scelta di un cast troppo ‘caucasico’; polemiche del genere sono frequenti nei film che trattano di Egitto antico, ma, questa volta, si è decisamente esagerato visto che gli attori di colore sono solo due – con parti marginali, per giunta – e quelli bianchi hanno tratti tutt’altro che mediterranei. Fra l’altro, sembra che nella versione originale Gerard Butler, il villain della situazione, non si sia nemmeno sforzato di mascherare il suo accento scozzese.

La storia racconta di un giovane principe che lotta per il suo legittimo trono e vendica la morte del padre sconfiggendo il malvagio zio che si era appropriato della corona. No, non è il Re Leone ma una libera, molto libera, reinterpretazione del mito di Horus e Seth, arrivato fino a noi attraverso diverse versioni che, come vedremo, si discostano tutte dalla sceneggiatura del film. Siamo in un periodo fantastico in cui uomini e dèi vivono insieme nella Valle del Nilo. Effettivamente, all’inizio del “Canone Regio” di Torino (il papiro con un’importantissima lista dei faraoni redatta probabilmente sotto Ramesse II), sono indicati proprio Ptah e altre divinità al governo del Paese; il problema è che, in “Gods of Egypt”, le uniche differenze che questi esseri mitici hanno con le normali persone sono una maggiore altezza (avranno preso spunto dalla particolare scala gerarchica dell’arte egizia che, di solito, viene sfruttata come ‘prova’ dai fantarcheologi convinti dell’esistenza dei giganti) e la possibilità di trasformarsi. Quest’ultima caratteristica è forse la cosa peggiore del film: gli dèi sono tutti antropomorfi, ma possono acquisire i loro connotati zoomorfi con una specie di armatura da Cavalieri dello Zodiaco che spunta con effetti degni della prima serie dei Power Rangers. Per di più, Horus & Co. sono tutti mortali; d’accordo, la mitologia egizia dice che Osiride muore per mano di Seth, ma, qui, gli dèi possono rimetterci le penne anche precipitando dall’alto, schiacciati dalle macerie, avvelenati da serpenti, bruciati dal fuoco e perfino di vecchiaia dopo 1000 anni. In pratica, abbiamo poco più di supereroi con qualche potere speciale. La stessa CGI che ‘veste’ i protagonisti è stra-abusata per la creazione di un’ambientazione da parco tematico che sembra essere stata partorita dallo stesso scenografo del video “Dark Horse” di Katy Perry. Gli attori avranno passato mesi a recitare davanti a pannelli verdi e, se sono vere le proprietà psicologiche di quel colore, almeno avranno stemperato in parte lo stress dovuto alla partecipazione a un flop clamoroso. L’Egitto così rappresentato è il trionfo trash dell’oro, presente anche, se non bastasse già quello spalmato ovunque, nelle vene degli dèi. Dalle loro ferite, infatti, sgorga il prezioso metallo fuso rifacendosi, almeno per una volta, alla tradizione faraonica che vede le membra divine fatte proprio d’oro (ed è l’unica cosa che ho apprezzato in 127 minuti). Inutile, poi, analizzare l’attendibilità di edifici che appartengono a un mondo parallelo, a un universo fantasy glitterato in cui piramidi spuntano su isole nel Nilo e un obelisco supera i 1.100 metri (il grattacielo più alto oggi arriva a 828).

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Tornando alla storia, Osiride – che assomiglia al Re di cuori delle carte francesi – vorrebbe cedere il trono al giovane figlio Horus (Nikolaj Coster-Waldau), ma il fratello Seth (Gerard Butler) lo uccide insieme a Iside, strappa entrambi gli occhi al nipote e rende schiavi dèi e uomini. Il breve combattimento tra Horus e Seth è, senza esagerare, la fotocopia della scena di “300” in cui Leonida, qui con barba un po’ più corta e lustrini a coprire il petto, si lancia contro i Persiani con alternanza di rallenty e fast motion. In realtà, il mito narra che l’invidioso Seth sigilla con uno stratagemma il fratello in una bara e lo fa annegare, per poi trucidarlo e sparpagliarne i pezzi lungo il Nilo. Iside, dea anche della magia, riesce a recuperare tutti i brandelli del cadavere dello sposo a eccezione del pene – sostituito con un membro posticcio -, ricomporli e ad avere un rapporto sessuale con il cadavere di Osiride. Solo in questo momento viene concepito Horus che, quindi, non era ancora nato alla morte del padre. Il dio falco viene nascosto da Iside durante la giovinezza e poi perde SOLO un occhio durante lo scontro con Seth, prima di compiere la sua vendetta e prendersi il trono dell’Egitto (particolarmente interessante è la versione del Papiro Chester Beatty I in cui i due si contendono la corona di fronte a un vero e proprio tribunale con tentativi di depistaggio, inganni, liti, prove da superare e perfino scene prossime al porno).

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Nel film, invece, Horus, ormai cieco, è esiliato da Seth nel deserto dove viene contattato da un giovane ladro, Bek (Brenton Thwaites), che si propone di recuperare i suoi occhi in cambio della liberazione della ragazza, Zaya (Courtney Eaton). La giovane, infatti, è diventata la schiava dell’architetto di Seth ed è così in grado di arrivare ai progetti dei magazzini dove sono custoditi gli udjat. In questi sotterranei, Zak supera con la massima scioltezza diverse trappole mortali, in un misto tra “Indiana Jones” e “Prince of Persia”, ma riesce a prendere un solo occhio. Intanto, Zaya viene uccisa e, accompagnata da Anubi, arriva quasi al giudizio dell’anima durante il quale, a differenza di quello che si legge nel capitolo 125 del Libro dei Morti, si salvano solo i ricchi i cui tesori pesano più della piuma di Maat. A questo punto, c’è bisogno dell’aiuto del dio supremo Ra (Geoffrey Rush), che vive in una specie di stazione orbitante oltre l’atmosfera terrestre e che combatte, giorno dopo giorno, contro il serpente del caos Apofi (praticamente il Nulla de “La Storia Infinita” con la bocca di un Tremor). Horus e Bek raggiungono quest’astronave attraversando uno Stargate (come avete notato, il film è permeato da un continuo, fastidioso senso di déjà-vu che aggrava la scarsa originalità della storia) e prendono un’ampolla di un’acqua sacra da versare nel pozzo che va al centro del mondo, fonte del potere di Seth (anche questo non vi ricorda qualcosa?). Per arrivare alla meta, però, Horus e Bek, con l’aiuto del saggio Toth, risolvono perfino l’enigma della Sfinge. Peccato che questa caratteristica del leone a testa umana sia stata introdotta solo con Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) nel mito di Edipo. In ogni caso, saltando un’altra inutile mezz’ora di girato, si va verso lo scontro finale tra Horus e Seth che combattono con lance laser alla “Star Wars” e allo scontatissimo finale che non vi anticipo.

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Il giudizio complessivo del film, pur volendo soprassedere sulla visione completamente distorta dell’antico Egitto e della sua religione, è ovviamente molto negativo. Per tutto ciò che ho scritto in precedenza, sconsiglio a chiunque di perdere tempo a guardarlo, nemmeno con l’ottica di farsi due risate con gli amici perché, nonostante sia un blockbuster uscito male, “Gods of Egypt” si prende sul serio mancando di una qualsiasi traccia di ironia o, soprattutto, di autoironia. Dal lato opposto, non c’è nemmeno l’epicità che ci si aspetterebbe da una storia mitologica. Le scene si susseguono velocemente senza pathos o suspense (Es. Horus: “Ra, ti prego, aiutami, non riesco a trasformarmi senza entrambi gli occhi”; un secondo dopo, puff, ecco l’armatura) e non sembrano nemmeno legate tra loro; i combattimenti sono troppo brevi; le altre scene d’azione sono stereotipate, per non dire scopiazzate altrove; tutte le reazioni sono innaturali; la sensualità dell’unica situazione ‘scabrosa’ è pari a quella di una soap argentina. In più, la computer grafica è veramente oppressiva e mal impiegata, soprattutto quando – e qui c’è voluto occhio – ci si accorge che alcune piramidi galleggiano senza un contatto fisico con la sabbia sottostante.

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“The Pyramid” (blooper egittologici)

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«Dobbiamo trovare una via d’uscita!», gridarono gli spettatori nelle sale…

Per Halloween ho deciso di recensire un horror egizio e, sfortunatamente, ho scelto il più recente: “The Pyramid” (titolo tradotto in Italia, questa volta letteralmente, con “La Piramide”), film della fine del 2014 che è riuscito nell’insperato intento di strappare a “Natale sul Nilo” la palma di peggiore pellicola della rubrica “Blooper egittologici”.

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L’opera prima di Grégory Levasseur (meglio avesse continuato a fare solo lo sceneggiatore) è un falso documentario ambientato nell’Egitto post-rivoluzionario del 2013. Una troupe televisiva arriva nel Paese per girare un servizio su una stupefacente scoperta compiuta da una missione americana: una nuova piramide! Così, archeologi e giornalisti entrano nella struttura, ma vi incontreranno presenze malvagie (udite, udite, non si tratta di una mummia!). Il found footage con le riprese in prima persona (il mockumentary è piuttosto inflazionato nei film del terrore), location misteriosa, spazi angusti e labirintici, creature orribili sfuggenti sono gli ingredienti perfetti per incutere una paura claustrofobica. O meglio, avrebbero potuto esserlo perché il risultato è un andirivieni noiosissimo di 90 minuti dei protagonisti che corrono nel buio (ho perso qualche diottria nel vedermelo) da un angolo all’altro della piramide prima che vengano fatti fuori uno dopo l’altro da mostri realizzati (male) in CGI. Gli attori hanno espressioni facciali da soap argentina, si avventurano in discorsi demenziali e reagiscono alle situazioni in un modo per niente naturale (es. mentre uno dei personaggi sta morendo con un masso che gli spappola la gamba, si continua a parlare di geroglifici). Da questa premessa, sembrerebbe che stia parlando di un prodotto di serie B dell’Asylum, invece si tratta di una produzione da 6,5 milioni di dollari della 20th Century Fox.

Ho già cominciato con gli spoiler dall’introduzione, ma chi se ne frega! Tanto si sa che, negli horror, la bella protagonista è l’unica che si salva e lo scemo di turno muore per ultimo per garantire al film qualche battuta che allenti la tensione. Quindi, partiamo con la storia.

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Il Dott. Miles Holden (Denis O’Hare) e sua figlia Nora (Ashley Hinshaw) scoprono 400 chilometri a sud del Cairo un’intera piramide sepolta nel deserto tramite immagini satellitari e altri sistemi futuribili. Quest’idea sarà sicuramente nata dalla bufala circolata nel 2012 di una autodefinitasi “satellite archaeology researcher” che sosteneva di aver individuato quattro piramidi, in realtà conformazioni naturali, con Google Earth. È evidente quanto possa essere improbabile che una costruzione alta 180 metri (quella di Cheope raggiunge “solo” i 146) e perfettamente conservata possa essere ricoperta dalla sabbia senza il minimo dislivello sul terreno. La particolarità del monumento è la base triangolare; per questo, il Dott. Holden l’attribuisce a quella di Akhenaton descritta dalle fonti, mentre la figlia è convinta che sia molto più antica. Bisogna ricordare, però, che l’utilizzo di questa tipologia di grandi tombe reali termina ben quattro secoli prima dell’età amarniana e, ovviamente, non esiste alcun testo che parli di una “piramide perduta”. I super sensori del satellite, a quanto pare, riescono a penetrare per metri anche nella roccia, così si scopre uno strano tunnel che, dal pyramidion, gira attorno alla struttura e arriva all’entrata nella base. Ma, nell’aprire l’ingresso, i presenti vengono investiti da una nube verde tossica (uno dei tanti cliché che caratterizza l’accezione popolare dell’antico Egitto); quindi, si manda avanti “Shorty”, un rover della NASA ispirato ai robot, Upuaut e poi Djedi, usati per indagare i canali di areazione della Piramide di Cheope. Una volta dentro, però, il mezzo perde il contatto radio a causa, secondo la squadra, di qualche cane randagio.

PyramidMovieNightNon è facile lasciare un’attrezzatura da tre milioni di dollari sotto terra e Michael, l’ingegnere responsabile, decide di andarla a recuperare, seguito dagli Holden, dalla giornalista Sunni e dal cameraman Fitzie. Il gruppo, nonostante sia equipaggiato di tutto punto (il kit “archeologico” prevede anche un cavo d’acciaio, respiratori, luminol e torcia UV), si perde tra i cunicoli e, ben presto, si accorge che Shorty non era stato danneggiato da qualche cane. Uno dopo l’altro muoiono a causa di trappole (altro cliché), di “gatti sfinge” cannibali messi lì da millenni come guardiani della piramide (eppure gli Sphynx sono così dolci) e di qualcosa di decisamente più grosso. Solo quando rimangono in due (come anticipato, la bella e lo scemo), si capisce che la creatura è addirittura Anubi. Nella camera funeraria, infatti, Nora legge sul sarcofago che quella è la tomba di Osiride, costruita dagli antichi Egizi per imprigionare il sanguinario dio sciacallo. Anubi, per seguire il padre nell’Aldilà, ha bisogno di trovare un cuore puro, così continua a mietere vittime  legandole a una bilancia, strappando loro il muscolo cardiaco e pesandolo con una statuetta di Maat. Si tratta del giudizio dei defunti descritto nel capitolo 125 del Libro dei Morti. Tra gli altri, anche Miles subisce questa sorte e, quando Anubi, erroneamente definito “Il divoratore”, mangia il suo cuore corrotto, si mummifica all’istante. Proprio qui sta l’errore più grande del film. Nella psicostasia, è effettivamente il dio a mettere sulla bilancia cuore e piuma, ma, in caso di esito negativo, è Ammit a papparsi l’anima. Eppure, poco prima, il gruppo era passato proprio davanti a una rappresentazione della “pesatura dell’anima” in cui compare anche la “Grande divoratrice”, mostro ibrido formato da parti di coccodrillo, leone e ippopotamo (vedi in basso). In ogni caso, Anubi cattura anche Nora che, però, riesce a slegarsi e a scappare attraverso un condotto fin quasi all’imbocco del tunnel (ah, dimenticavo, scavato da massoni alla fine dell’800…). Qui, stremata, viene raggiunta da un bambino che raccoglie la sua telecamera e… finale che lascia campo a un seguito, purtroppo.

Alcune cose non dovrebbero mai essere scoperte, come certi film.7

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“Natale sul Nilo” (blooper egittologici)

Q2Ss7Si avvicina Natale. Cade la neve, le vetrine dei negozi si riempiono di lucine colorate, le strade si congestionano per il traffico dei ritardatari del regalo e nelle multisale si proiettano i cinepanettoni. Ebbene sì, speravo che questo momento non arrivasse mai, ma mi tocca parlare di “Natale sul Nilo”

Per realizzare questo degno erede del filone di “Vacanze di Natale”, De Laurentiis decise di spostare la location dai campi di sci di St. Moritz e Cortina a mete più esotiche, purtroppo cominciando con l’Egitto. Così, nel 2002, la Filmauro affidò la direzione del film a Neri Parenti, “maestro” del genere e regista di svariati Fantozzi. La sceneggiatura è sempre la stessa: un’intreccio banale di storie demenziali condite da battute da scuola media, parolacce, tette, peti e deiezioni corporali varie. Basta ricordare la scena in cui le bende di una mummia vengono utilizzate come carta igienica. I protagonisti sono Boldi e De Sica, non ancora divorziati, Enzo Salvi, Biagio Izzo e i Fichi d’India, mentre, per la colonna sonora, come al solito si è sfruttato il tormentone estivo dell’anno, in questo caso Aserejé delle Las Ketchup. Non esattamente da premio oscar; ma, da un film che inizia e finisce con Maria De Filippi, cosa vi aspettate? Nonostante, o, più probabilmente, grazie a queste premesse, “Natale sul Nilo” ha incassato ben 28 milioni di euro, il 6° risultato più alto tra i film italiani e l’11° generale tra tutti quelli trasmessi nel Paese che ha dato i natali a gente come Fellini, Rossellini, Bertolucci, Visconti, Pasolini e De Sica (padre). Alla luce di tutto ciò, i blooper egittologici non smuovono di una virgola il risultato finale di una pellicola che, se non fosse stato per questa maledetta rubrica, non avrei mai visto. Ma, almeno, non troverò niente di peggio.

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Per diversi motivi, che non ho assolutamente voglia di spiegare, i protagonisti si trovano tutti a passare le vacanze di Natale-Capodanno in Egitto e, come quasi sempre succede nei film ambientati nella Valle del Nilo, si procede attraverso tappe fisse stereotipate: Cairo, Luxor, Abu Simbel. Si inizia dalla Piana di Giza e, più precisamente, da quello che dovrebbe essere l’interno della Piramide di Chefren. Dovrebbe, perché ciò che si vede, in realtà, è la sala ipostila del Tempio Maggiore di Abu Simbel (distante solo 1100 km), palese dai pilastri osiriaci e, in fondo, dal sancta sanctorum con le statue di Ptah, Amon-Ra, Ramesse II e Ra-Harakhty (vedi foto in alto). Nella “piramide”, una guida parla della fantomatica leggenda degli “anelli della buona e della cattiva sorte di Chefren” che vengono scoperti dai Fichi d’India in un nascondiglio segreto (in basso a sinistra. Ho trovato alcuni miei quadernini delle elementari in cui disegnavo i geroglifici allo stesso modo). Intanto, in un’altra sala, Boldi ha problemi di dissenteria e non trova altro modo per pulirsi che approfittare di una mummia impilata a mo’ di kebab che la solita guida definisce come «l’unica perfettamente conservata» (a Ramesse II non piace questo elemento) e vecchia di 4000 anni (inutile dire che Chefren sia morto almeno 500 anni prima).

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Dopo decine di altre gag da spanciarsi dalle risate (sarcasmo mode ON), tutti partono per una crociera sul Nilo e pazienza che si veda il Lago Nasser. Comunque, si viene a sapere che il figlio del fedifrago De Sica è uno studente di egittologia che vuol presentare ai genitori la sua collega e fidanzata, ma lei, ovviamente, finirà a letto con il “suocero”. Il battello arriva, questa volta veramente, ad Abu Simbel dove ci sono «quei quattro capoccioni che mettono ansia» (a Ramesse II non piace questo elemento #2) e qui si ferma fino alla fine delle vacanze.

5Ma, senza tener conto della geografia, alcuni personaggi raggiungono Luxor e tornano indietro in serata. Sembra proprio che il problema delle distanze sia comune a quasi tutti i film che ho analizzato finora. Salvi, che interpreta un’impresario televisivo, chiama le sue ballerine dal minareto della Moschea di Abu el-Haggag (quella che si trova sulle rovine del Tempio di Luxor), mentre i Fichi d’India, subendo fortuna e sfiga provocata dai rispettivi anelli, vengono schiacciati da un blocco caduto dalla cima della Grande Sala Ipostila di Karnak. Stessa circostanza che si ritrova in “Assassinio sul Nilo” e, come vedremo, in “007 – La spia che mi amava” quindi, se fossi in voi, guarderei in alto visitando il tempio. Per il resto, c’è poco da dire, a parte una preziosa anfora del periodo Micerino in cui Boldi urina e il ciondolo magico di Cheope (la conoscenza egittologica degli sceneggiatori era limitata alla IV dinastia) che assomiglia a uno di quei cammelli “Made in China” che vendono nei suq.

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Le “mummie” della Hammer Film Productions (blooper egittologici)

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Cursemummystomb220px-The-Mummys-Shroud-posterBloodmummytombDopo i film degli anni ’40 della Universal Pictures, il filone di pellicole sulle mummie era tutt’altro che prosciugato. A “resuscitarlo” fu la Hammer Film Productions che, nel 1959, riprese le stesse sceneggiature hollywoodiane e ne ricavò dei remake più o meno ufficiali. La casa di produzione britannica è famosa soprattutto per gli horror prodotti dai ’50 ai ’70 e che hanno raccontato la storia di tutti i mostri dell’immaginario popolare. In modo particolare, con il passaggio dal bianco e nero al colore, tre opere sono diventate dei cult per il genere: “La maschera di Frankenstein” (1957), “Dracula il Vampiro” (1958) e proprio “La Mummia” (1959). Questi tre film sono accomunati dalla regia di Terence Fisher, dalla sceneggiatura di Jimmy Sangster e dalle interpretazioni di Peter Cushing e di Christopher Lee, la cui parte più nota è probabilmente quella di Saruman ne “Il Signore degli Anelli”, ma che, con i suoi 196 cm di altezza, era perfetto per interpretare creature spaventose (fu per 12 volte un vampiro). Con il passare degli anni, però, la fortuna della Hammer è andata affievolendosi a causa dell’incapacità di stare al passo con il cinema americano e i suoi effetti speciali. Così, come nel caso dei tre sequel della mummia, abbiamo solo b-movies, tra il gore e il sexy, che non meritano di essere analizzati seriamente.

 

“La mummia” (1959)

29137_410590554200_4607017_nLa Hammer riesce a strappare un accordo alla Universal per l’utilizzo di sceneggiature del Ciclo di Kharis. Così, viene girato un re-remake de “La Mummia” del 1932 sfruttando personaggi e tematiche già visti in “The Mummy’s Hand”, “The Mummy’s Tomb”“The Mummy’s Curse”.

Siamo in Egitto (o meglio, in uno studio con pietre di polistirolo, sabbia sul pavimento e fondali dipinti) nel 1895 e una famiglia di archeologi inglesi scopre la tomba della principessa Ananka, intatta da 4000 anni. John Bunning (Peter Cushing), suo padre Stephen e lo zio Whemple violano i sigilli della sepoltura non curanti degli avvertimenti di un egiziano, Mehemet Bey, che, in realtà, è un sacerdote del culto segreto del dio Karnak (sì, viene ancora riproposto questa inesistente divinità). Il primo ad entrare nella sala del sarcofago è Stephen che, leggendo il “Rotolo della Vita” (simile al “Rotolo di Thoth” del film originale), risveglia la mummia di Kharis (Lee), sacerdote innamorato di Ananka e condannato ad essere imbalsamato vivo per aver cercato di riportarla in vita. Anche in questo caso, viene riproposto un flashback con la morte della principessa, il corteo funebre, il sacrilegio e la punizione di Kharis che viene bendato e rinchiuso in una sorta di armadio a muro nella tomba. Per la scelta dei colori, questa scena mi ha ricordato molto il video di “Dark Horse” di Katy Perry… Comunque, a causa di questa visione terrificante, l’archeologo impazzisce e viene internato in un manicomio in Inghilterra, dove Bey, insieme alla mummia, arriva con l’intenzione di uccidere i tre membri della missione.

Nonostante la morte di quattro persone, la sorte peggiore e reale è toccata a Christopher Lee. L’attore, infatti, durante le riprese, si è ferito le gambe inciampando su tubi coperti dal fango, si è slogato la spalla sfondando una porta erroneamente bloccata, si è ustionato a causa degli effetti per i colpi di pistola e, dulcis in fundo, ha subito uno strappo alla schiena portando in braccio Yvonne Furneaux (anche ne “La Dolce Vita”) nella classica scena del rapimento della bella. Alla fine, rimane in vita solo John, salvato dalla somiglianza della moglie Isobel con Ananka che distrae Kharis e lo fa scappare verso la palude con la sua “amata”. Ma, a differenza di “The Mummy’s Curse”, qui c’è il lieto fine: la ragazza si salva e la mummia sparisce nella melma crivellata di proiettili.

 

“Il Mistero della Mummia” (1964)

851_curse-mummys-tombCome vedremo, i quattro film della Hammer non sono legati tra loro, quindi ho impropriamente parlato di sequel di “The Mummy”. “The Curse of the Mummy’s Tomb” (per una volta che c’è la parola maledizione nel titolo originale, in quello tradotto non la mettono) di Michael Carreras, pur avendo, per l’ennesima volta, come evento scatenante la scoperta di una tomba egizia e la conseguente maledizione, presenta una trama autonoma. Si nota anche un cambiamento nella concezione di cinema horror con il sangue più visibile e le prime scene un po’ truculente (per la precisione, un paio di mani mozzate). L’atmosfera gotica della Londra del 1900 attenua anche le ricostruzioni storiche kitsch. Quindi, direi che questo è il film che preferisco tra i quattro descritti in quest’articolo (è disponibile in italiano su youtube).

Stessa scenografia iniziale, stessi fondali dipinti, stessa tomba con reperti “presi in prestito” dal corredo di Tutankhamon (ma almeno qui li hanno ricoperti di polvere e ragnatele), ma non abbiamo più né Kharis né Ananka. La sepoltura appartiene al principe Ra-Antef, la cui storia viene spiegata con un flashback. Ra è il figlio prediletto di Ramesse VIII (1127 a.C., quindi la datazione di 3000 anni presentata nel film è piuttosto accettabile) e fratello del malvagio Vi che, geloso del suo successo, lo fa apparire agli occhi del popolo come un pericoloso mago e costringe il padre ad esiliarlo nel deserto. Nel Sahara, Ra incontra una tribù di nomadi e ne diventa il re acquisendo un antichissimo amuleto che ha il potere di risvegliare i morti. Quindi, al posto del classico rotolo di papiro, questa volta abbiamo un pendaglio con la forma che ricorda la Paletta di Narmer. Il suo regno, però, dura poco perché Vi manda dei sicari (che indossano la kefiah…) ad ucciderlo.

Il finanziatore della missione, il magnate americano Alexander King (Fred Clark), decide di sfruttare la scoperta mostrando il corredo in giro nel mondo (un po’ come è successo con il tesoro di Tutankhamon con Zahi Hawass). La prima tappa dell’esposizione itinerante è a Londra dove arriva anche il sarcofago con la mummia di Ra-Antef (Dickie Owen) che verrà resuscitata da un misterioso personaggio e che cercherà la vendetta sui profanatori della sua tomba. Vi ricorda qualcosa? Un mostro portato, con conseguenze disastrose, da un luogo esotico nella società civile per creare uno spettacolo sfruttando il clamore sulla gente: King Kong! Intanto, due degli archeologi, John Bray (Ronald Howard) e sua moglie Annette Dubois, sono ospitati nella capitale britannica da Adam Beauchamp che, in realtà, è Vi reso immortale dalla maledizione del padre morente. Stanco della vita, è proprio lui che risveglia il fratello, l’unico in grado di ucciderlo e porre fine alla sua punizione. Quindi, per la prima volta, l’antagonista non è un sacerdote egizio, cosa che rende il film un po’ meno razzista degli altri.

Le novità riguardano anche i metodi adottati dalla mummia per far fuori le sue vittime: abbandonato il classico strangolamento, preferisce gettare persone dalle scale, annegare, calpestare teste e fracassare crani con oggetti contundenti (finalmente l’evoluzione in Mumia habilis). Nel finale, Adam/Vi  seduce la “fedelissima” Annette con il solo scopo di portala con sé nell’Aldilà, ma Ra, vendicandosi del male subito, uccide solo il fratello e mette fine anche alla sua esistenza facendosi crollare addosso il soffitto.

 

“Il Sudario della Mummia” (1967)

The_Mummys_Shroud_06Nel 1932, il truccatore Jack Pierce impiegava 8 ore a trasformare Karloff in un’icona del terrore. Trentacinque anni dopo, Eddie Powell deve solo infilarsi in un tutone e chiudere la zip, tra l’altro visibilissima. Questo è il sunto di ciò che fa la differenza tra il capolavoro di Freund e la “cagata pazzesca” (cit.) di John Gilling. La trama è sempre la stessa, gli oggetti di scena vengono tramandati negli anni, la qualità però peggiora.

I primi sette minuti narrano la nascita, nel 2000 a.C., dell’erede al trono Kah-To-Bey, figlio di Man-Tah. Qualche anno dopo, il faraone viene ucciso in una congiura di palazzo ordita dal fratello Ar-Man-Tah, ma riesce a far fuggire nel deserto il giovane principe con l’aiuto del servo Prem. La lunga marcia senza acqua né cibo, però, è fatale a Kah-To-Bey che viene sepolto da Prem in una grotta. La tomba è scoperta solo nel 1920 da una missione diretta da Sir Basil Walden (André Morell) e finanziata dal ricco Stanley Preston (John Phillips). Data la situazione di emergenza appena descritta, il defunto non è mummificato, ma è semplicemente avvolto nel “sacro sudario” e ricoperto di sabbia, anche se l’archeologo dice che visceri e cuore (che non era conservato nei canopi) sono in una cassettina. Lo scarno corredo e i resti del principe vengono portati al Museo Egizio del Cairo, ma Ashmid, il beduino guardiano della tomba, ruba il sudario e recita le formule magiche che fanno tornare in vita Prem. Le sembianze della mummia sono state riprese da una realmente esistente di epoca romana esposta presso il British Museum e recentemente protagonista della mostra “Ancient Lives”. Forse l’avrete riconosciuta dalle basette. L’essere comincia ad uccidere tutti coloro che hanno profanato la tomba del suo padrone (c’è la morte più cruda di tutta la serie di film dedicati alle mummie, cioè con l’acido da sviluppo fotografico), manovrato dalla madre di Ashmid che vede tutto dalla sua sfera di cristallo. La scia di cadaveri è interrotta solo quando Maggie Claire de Sangre, assistente del professor Walden, riesce ad impossessarsi del sudario e a pronunciare le parole in egiziano antico che bloccano la mummia e la polverizzano.

 

“Exorcismus – Cleo, la dea dell’amore” (1971)

blood_from_mummys_tomb_01A Seth Holt viene affidato l’ultimo lavoro della Hammer sulle mummie, anche se la classica iconografia del mostro bendato è sostituita dal corpo magicamente integro ritrovato nella tomba della crudele principessa Tera (d’altronde, sarebbe stato proprio un peccato nasconderla con un costume). Ma partiamo dalla traduzione non proprio letterale del titolo originale “Blood from the Mummy’s Tomb”. 1) Exorcismus: non c’è traccia di esorcismi, ma il film è stato distribuito in Italia nel 1975, due anni dopo dell’uscita de “L’Esorcista” di cui si voleva sfruttare il successo; 2) Cleo: come anticipato, la cattiva della situazione si chiama Tera e non Cleo, ma, anche in questo caso, si è voluto cavalcare l’onda lunga della “Cleopatra” (1963) di Liz Taylor; 3) la dea dell’amore: Tera è una principessa e tutt’altro che “amorevole” visto che prima seduce il padre faraone e poi lo fa uccidere insieme a tutti i suoi collaboratori.

La storia è liberamente ispirata al romanzo di Bram Stoker “Il gioiello delle sette stelle” (1903) e verrà ripresa nel 1980 con “Alla 39ª Eclisse”. Agli inizi degli anni ’70, la Hammer è ormai in declino e, per cercare di trattenere il pubblico che cominciava ad abituarsi ad horror di ben altro tenore (nel ’68 era uscito “La notte dei morti viventi” di Romero), aggiunge un pizzico di erotismo che non rende più piccante la solita minestra riscaldata. L’archeologo britannico Julian Fuchs (Andrew Keir) scopre la tomba di Tera e ne diventa ossessionato a tal punto da portare a Londra tutto il corredo funebre e da costruire una cappella segreta sotto la sua abitazione per conservarlo. Nel momento stesso che viene aperto il sarcofago, nasce la figlia di Fuchs che verrà impossessata dallo spirito della principessa. Come detto, la “mummia” è perfettamente conservata (e l’attrice Valerie Leon non fa niente per nascondere i movimenti della respirazione), tranne che per una mano mozzata dai sacerdoti che usano una paletta protodinastica come tagliere (aspettatevi delle scene degne della Famiglia Addams). Diciotto anni dopo, Margaret è maggiorenne ed è identica al corpo imbalsamato. Così, contro la sua volontà, va alla ricerca degli altri tre membri della missione che posseggono i tre sacri oggetti, il cobra, il gatto e il teschio di sciacallo, fondamentali per far risuscitare Tera. Tutti muoiono sgozzati da un misterioso vento e gli amuleti tornano al cospetto di “Cleo” che risorge, almeno fino all’intervento di Fuchs che la pugnala scatenando un crollo che distrugge la cripta. Il finale lascia gli spettatori con un dubbio: in un ospedale, l’unica sopravvissuta è finalmente ricoperta da bende, anche se da ingessatura, ma è Margaret o Tera?

 

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