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“La Mummia – Il ritorno” (blooper egittologici)

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Dopo la “Mummia” del 1999, continuo la recensione dei film di Stephen Sommers con il secondo capitolo della trilogia: “La Mummia – Il ritorno”. Questo sarà anche l’ultimo della serie in questa rubrica visto che, in “La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone”, la narrazione si sposta in Cina. In realtà, sarà il penultimo perché mancherebbe ancora “Il Re Scorpione”, prequel/spin-off nato proprio dal film che sto per analizzare in questo articolo.

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Siamo nel 3067 a.C. e il temibile esercito del Re Scorpione (il wrestler “The Rock”) si presenta minaccioso alle porte di Tebe: già su questo primo frame ci sarebbe da parlare per un’ora… L’Egitto in cui è ambientato il flashback iniziale dovrebbe essere quello a cavallo tra predinastico e protodinastico, intorno al momento dell’unificazione delle Due Terre. Un discorso a parte andrebbe poi fatto sulla vera identificazione di Scorpione, nome che si lega a due faraoni della cosiddetta Dinastia 0, ma di cui scriverò più approfonditamente nell’articolo dedicato al film “Il Re Scorpione”. Tebe, invece, è il nome che i Greci diedero a Waset, città di cui si sa poco per la sua fase arcaica. Capoluogo del IV nomo dell’Alto Egitto e capitale di Kemet solo a partire dall’XI dinastia, poi localmente durante il Secondo Periodo Intermedio e soprattutto nel Nuovo Regno, Tebe era probabilmente una piccola località provinciale nell’Antico Regno (le prime tracce si limitano a tombe della III-IV dinastia), figuriamoci per per periodi più antichi di cui non abbiamo attestazioni. I veri centri del potere amministrativo e religioso dell’Egitto pre/protodinastico erano Hierakonpolis (da cui provengono la celebre Paletta di Narmer e le teste di mazza del Re Scorpione II) e Abido (sede, più precisamente a Umm el-Qa’ab, delle necropoli reali delle dinastie 0, I e in parte II), insieme a Naqada e, più tardi, Thinis. In ogni caso, nemmeno queste città avevano l’aspetto della monumentale metropoli mostrata nel film che si adatta – volendo essere buoni – più all’immaginario del Nuovo Regno. Solo per fare un esempio, il principale tempio di Nekhen (Hierakonpolis) era quello di Horus ed era composto ‘semplicemente’ da un recinto di canne intonacate, un tumulo ovale e una struttura in legno. Uno scenario molto lontano da mura ciclopiche, alte scalinate, piloni, obelischi (non monolitici…) e statue colossali ricostruiti in CGI. Anacronistiche sono anche le armi utilizzate dai soldati: al posto di mazze, lance e pugnali, qui viene mostrato il khopesh, spada-falce introdotta nella guerra solo secoli dopo.

Tornando alla storia, Re Scorpione viene sconfitto ed esiliato nel deserto di Ahm Shere dove resta l’unico in vita. Desideroso di vendetta e di potere, il guerriero – un Faust ante litteram – si vende ad Anubi in cambio della sua invincibile armata cinocefala. Conquistato l’Egitto, però, il dio non si accontenta del tempio e della piramide d’oro eretti in suo onore nell’oasi di Ahm Shere, ma si prende subito l’anima di Scorpione dissolvendo i suoi guerrieri sciacallo.

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Esattamente 5000 anni dopo, tra le rovine di una desertica Tebe (come dimenticarsi dell’esistenza della moderna Luxor), ritroviamo i nostri eroi: l’egittologa Evelyn Carnahan (Rachel Weisz), l’avventuriero Rick O’Connell (Brendan Fraser) e, nuovo personaggio, loro figlio Alex. Nei sotterranei di un tempio, Evelyn si muove come se conoscesse già il posto grazie alle visioni che hanno cominciato a colpirla con l’entrata dell’Anno dello Scorpione. Inutile dirvi che gli Egizi non usavano il calendario cinese. Riesce poi a trovare il sacro Bracciale di Anubi e l’emblema del Re Scorpione che era convinta fosse solo un mito senza attestazioni archeologiche precedenti, quando, già nel 1897-8, il britannico James Quibell ne aveva scoperto le sopracitate teste di mazza nel deposito di fondazione del tempio di Horus a Hierakonpolis.

Nel frattempo, nella mitica città dei morti di Hamunaptra, una setta capeggiata da Baltus Hafez (Alun Armstrong), curatore del British Museum, scava alla ricerca del corpo maledetto di Imhotep (Arnold Vosloo). Quest’organizzazione segreta, infatti, mira ad impadronirsi dell’Armata di Anubi e il malvagio sacerdote, con i suoi poteri soprannaturali, è l’unico in grado di contrastare il Re Scorpione una volta resuscitato. Per arrivare nell’oasi di Ahm Shere, hanno bisogno anche del Bracciale di Anubi, una sorta di proiettore olografico della mappa (immagine in basso a sinistra), che però ha già indossato Alex attivando la maledizione.

Negli scantinati del British (in realtà, viene mostrata la facciata dell’università londinese UCL: immagine in alto a destra), compaiono tutti i cari oggetti senza senso di cui avevamo fatto la conoscenza nel capitolo precedente: il Libro dei Morti a forma di diario segreto e i CINQUE canopi. La mummia di Imhotep si risveglia e subito ne approfitta per pomiciare con la bella Meela Nais (Patricia Velásquez), assistente di Baltus e  copia esatta dell’amante del sacerdote, Ankh-Su-Namun. Non è la sola reincarnazione della storia perché si viene a scoprire che Evelyn, in una vita passata, era stata Nefertiti, non la sposa di Akhenaton come avrete pensato, ma una figlia di Seti I. Infatti, durante una delle visioni dell’archeologa, le due donne combattono di fronte al faraone utilizzando, manco fossero Raffaello delle Tartarughe Ninja, l’arma giapponese chiamata “sai” (foto in basso). La presenza di queste rimembranze e dei frequenti dialoghi in egiziano antico, fanno sì che, rispetto a “La Mummia”, qui la consulenza dell’egittologo Stuart Tyson Smith sia stata molto più sfruttata.

 

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La corsa contro il tempo verso la piramide dorata di Ahm Shere fa tappa in ognuno dei siti più iconici d’Egitto, tutti ovviamente stravolti dalla computer grafica: le Piramidi di Giza nel lato sbagliato del Nilo; un irriconoscibile complesso di Karnak (nell’immagine con il treno) posto, come già detto, in mezzo al deserto; l’isola di File che dovrebbe essere parzialmente sommersa dalle acque a causa della prima diga di Assuan (innalzata due volte nel 1907-1912 e nel 1929-1933); il Tempio maggiore di Abu Simbel ancora coperto di sabbia quando, negli anni ’30, era stato già completamente scavato. Un piccolo easter egg che ho apprezzato nel corso del viaggio è il travestimento che indossa Imhotep prima di riacquistare le sue sembianze umane, un pesante mantello nero e la stessa maschera metallica di Belfagor – Il fantasma del Louvre.

Buoni e cattivi, infine, arrivano nell’oasi che si trova in Sudan. Il tempo scade e l’Armata di Anubi si risveglia, fronteggiata senza speranze dai guerrieri Medjai di Ardeth Bey (vi ricordo che questo nome, nel film originale del 1932, era lo pseudonimo di Imhotep stesso); qui si verifica un altro colpo di scena – o buco nella trama – perché O’Connell capisce di essere a sua volta un medjai riconoscendo, in alcuni rilievi della piramide, il tatuaggio che ha sull’avambraccio e che non compare nel primo film. Rick è quindi il prescelto a uccidere il Re Scorpione, un ibrido mostruoso metà uomo metà aracnide, con l’ausilio dello Scettro di Osiride. Lo scontato happy ending vede tutti i villain fare una brutta fine, compreso Imhotep risucchiato nell’aldilà, questa volta per sempre (salvo un improbabile ennesimo sequel di cui farei volentieri a meno).

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“La Mummia” (2017): blooper egittologici

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Ancora una mummia a minacciare le nostre esistenze… soprattutto quelle di chi, come me, è andato al cinema negli ultimi giorni. Ieri sera, infatti, ho visto in sala l’ennesimo prodotto cinematografico basato sul franchise del non-morto egizio che si risveglia dal suo sonno millenario per uccidere e conquistare il mondo. Questa volta, però, il mostro è donna e sexy (ma, come vedremo, non è nemmeno una trovata così originale). La seguente sarà un’analisi a caldo de “La Mummia” di Alex Kurtzman, uscita in Italia lo scorso giovedì, quindi meno particolareggiata delle altre recensioni della rubrica. Mi baserò su spunti notati a una prima visione e – siete avvertiti – ci saranno spoiler. Fra l’altro, oggi inizia l’ArcheoWeek, evento digitale nato in Francia ma diffusosi in tutto il mondo, proprio con una giornata dedicata alle #ArcheoFiction.

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Seguendo la moda delle serie dei cinecomics, anche la Universal Pictures ha deciso di creare il proprio universo narrativo condiviso popolandolo dei suoi mostri classici. La mummia è solo la prima creatura a comparire nella lunga lista del Dark Universe in cui vedremo anche il mostro di Frankhenstein, l’uomo invisibile, l’uomo lupo, Dracula, il mostro della laguna nera, il gobbo di Notre Dame, il fantasma dell’Opera, ecc. L’idea di fondo è che il Male (con la “m” maiuscola in quanto entità suprema; chiamatelo Satana se volete), fin dall’inizio dei tempi, abbia sempre provato a raggiungere il mondo incarnandosi in un corpo terreno. Da questi tentativi derivano i vari orripilanti personaggi cacciati da una società segreta, la Prodigium, che è diretta da Dr. Jekyll/Mr. Hyde (Russel Crowe). Si prospetta quindi un’alleanza di mostri buoni che combattono mostri cattivi sulla falsa riga della “Leggenda degli uomini straordinari”.

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“La Mummia” serve soprattutto a introdurre questo nuovo universo e, per farlo, toglie spazio alla vera protagonista che risulta un po’ troppo in ombra. Perciò, il prodotto non può essere considerato neanche un reboot di quello diretto da Sommers nel 1999, pur strizzando l’occhio ai suoi fan con molte citazioni (il colpo di pistola per attivare antichi meccanismi, il volto nel muro di sabbia, il libro di Amun-Ra ecc.). Dal punto di vista ‘egittologico’, c’è poco da dire anche perché, se si esclude il flashback iniziale e l’ultimissima scena conclusiva, nemmeno un secondo della narrazione è ambientato in Egitto. Nel complesso, ho trovato il film meno peggio di quello che mi aspettavo seppur macchiato da due gravi problemi: i buchi di trama – vengono inseriti espedienti assurdi nella sceneggiatura – e Tom Cruise, per niente credibile nel suo ruolo. Ma la pecca più grave è stata l’avermi illuso con “Paint It, Black” – una delle mie canzoni preferite – nel trailer per poi non utilizzare una singola nota degli Stones nella colonna sonora!

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La principessa Ahmanet (Sofia Boutella) è figlia ed erede al trono di un generico faraone di Nuovo Regno (anche se a volte si dice erroneamente 5000 anni fa, altre 3000; poi compare anche un cartiglio di Unas che ha regnato durante l’Antico Regno intorno al 2350 a.C.). Vedendo minacciata la sua successione dalla nascita di un altro principe maschio, stringe un patto con Seth -erroneamente definito dio dei morti- venendone impossessata e uccidendo tutti i membri della famiglia. La presenza malvagia nel suo corpo si manifesta con lo sdoppiamento delle iridi (un po’ come succede a me dopo una giornata passata a tradurre geroglifici…) e la comparsa di tatuaggi sulla pelle che sembrano più segni semitici. Il rituale per far venire al mondo il dio prevederebbe, come nelle classiche storie dell’Anticristo,  il concepimento di un bambino da un mortale e il suo sacrificio con il pugnale di Seth. Ma Ahmanet viene bloccata dai sacerdoti e condannata alla mummificazione in vita. Il suo sarcofago, poi, viene sepolto lontano, molto lontano dall’Egitto. Quindi, il villain non è più l’iconico Imhotep ma una donna, idea che, se seguite questa rubrica, non vi suonerà nuova. Già nel 1971, infatti, la Hammer aveva pensato a una mummia femminile in “Blood from the Mummy’s Tomb” (in Italia “Exorcismus – Cleo, la dea dell’amore”), ripreso 9 anni più tardi da Mike Newell per “The Awakening” (“Alla 39ª eclisse”).

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Da qui iniziano le trovate senza senso per tener in piedi il canovaccio del racconto e per giustificare l’ambientazione divisa tra Iraq e Inghilterra. Nel 1127, un gruppo di cavalieri crociati britannici invase l’Egitto (in realtà, lo fecero tra 1154 e 1169) portando in patria una serie di reliquie tra cui il Pugnale di Seth. Le loro tombe vengono scoperte fortuitamente nel sottosuolo di Londra durante lo scavo di una galleria ferroviaria. Di fronte all’eccezionale ritrovamento, gli uomini della Prodigium prendono in mano la direzione dei lavori e riescono a individuare solo la gemma rossa dell’arma. Nel frattempo, in Mesopotamia, nei pressi di Ninive, due soldati americani, Nick Morton (Tom Cruise) e  Chris Vail, approfittano della distruzione iconoclasta dell’ISIS per razziare a loro volta antichità e rivenderle al mercato nero. In particolare, si trovano nel leggendario sito di Haram portati da una mappa che Nick aveva rubato all’archeologa Jenny Halsey. Qui, dopo un bombardamento aereo, si apre una voragine nel terreno che rivela la presenza di una gigantesca caverna sotterranea con un mascherone egittizzante: si tratta del luogo di sepoltura di Ahmanet… ne hanno fatta di strada i sacerdoti! In fondo all’antro, un pozzo pieno di mercurio liquido, sorvegliato da sei statue di Anubi, custodisce il gotico sarcofago della principessa che viene issato con una fune e trasportato penzoloni in elicottero come se nulla fosse. Nel tirar su la bara, la principessa entra nella mente di Nick, ormai suo prescelto, maledendolo; i dialoghi nella visione sono resi abbastanza bene con la vocalizzazione convenzionale del tardo egiziano, cosa che presuppone la consulenza di egittologi che, però, non compaiono nei crediti. Il trasporto del sarcofago verso gli USA (perché?) avviene con un C-130 che, per esperienza personale, non è pressurizzato né silenzioso come nel film. L’aereo non arriva a destinazione perché Ahmanet lo fa precipitare nel mezzo dell’Inghilterra, proprio nelle vicinanze di una chiesa crociata dove è nascosto il pugnale. Lo scopo è chiaro: terminare il rituale d’invocazione di Seth usando questa volta Nick, sopravvissuto illeso all’incidente. La decrepita mummia comincia a riformarsi nel corpo succhiando l’anima di tutti coloro che le si parano davanti, ma non riesce nel suo intento perché la gemma rossa è stata divisa dall’arma con cui avrebbe dovuto uccidere la sua vittima sacrificale. Inoltre, catturata dagli uomini di Jekyll, viene portata nella loro base segreta sotto il Natural History Museum di Londra.

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È qui che la Prodigium raccoglie oggetti magici (tra cui il Libro di Amun-Ra) e i corpi dei mostri uccisi; stessa cosa vorrebbe fare con Ahmanet che, però, riesce a liberarsi e a distruggere mezza City con una tempesta di sabbia. S’impossessa perfino del pugnale e della gemma riunendoli per il rito finale, ma Nick, nonostante sia comandato mentalmente, decide di autopugnalarsi per prendere i poteri di Seth, sconfiggere il nemico e resuscitare la sua amata egittologa che nel frattempo era annegata. Qualcosa evidentemente non torna. Al di là dell’insensatezza della mummia che, pur controllando il soldato, non gli ordina cosa fare e si fa rubare il pugnale dalle mani, non si capisce la facilità di Nick nel ribellarsi dalla possessione di un dio e, anzi, di servirsene. Fatto sta che l’incarnazione di Seth sarà probabilmente tra i paladini che combatteranno il male nei prossimi film della Universal. Magari al fianco di Quasimodo…

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“La Mummia” (1999): blooper egittologici

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Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato… Non potevo di certo dimenticarmi di un film che, nel bene o nel male, è entrato di prepotenza nell’immaginario comune; soprattutto perché, tra poco (8 giugno), uscirà nelle sale l’ennesima versione di uno dei soggetti più amati e sfruttati dal cinema d’avventura/horror: “La Mummia”. Questa volta parlerò della pellicola del 1999 di Stephen Sommers che riprese la vecchia storia del malvagio Imhotep (lanciata già nel 1932 da Karl Freund) e del suo risveglio maledetto per colpa dell’archeologo di turno. Poco di nuovo, quindi, se si esclude un massiccio utilizzo di effetti speciali, particolarmente gradito dall’attore Arnold Vosloo che, così, si è risparmiato le 8 ore di trucco che il povero Karloff doveva subire per trasformarsi nel mostro. In ogni caso, nonostante il mio personalissimo e già evidente giudizio negativo, il film ha avuto un gran successo al botteghino che ha fatto sì che fossero prodotti due sequel (“La mummia – Il ritorno” e “La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone”) e un prequel/spin-off (“Il Re Scorpione” che, a sua volta, ha avuto diversi seguiti minori per l’home-video).

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Come detto, l’antagonista è il sommo sacerdote Imhotep, presentato all’inizio del film nella Tebe di Seti I (1290-1279) – anche se vengono mostrate piramidi, la Sfinge e gigantesche statue di divinità con la testa timidamente abbassata (cominciamo bene…) – insieme all’amante del faraone, Anck-Su-Namun (nome leggermente diverso dal classico Anck-es-en-Amon). Il loro amore proibito viene scoperto, così i due sono costretti ad uccidere il re e a scappare, con esito positivo solo per Imhotep. Questo particolare è ovviamente frutto della fantasia  dei sceneggiatori perché la mummia di Seti, oggi conservata presso il Museo Egizio del Cairo, non presenta tracce di morte violenta. Tornando alla storia, la giovane si suicida per non finire nelle mani delle guardie del re e il suo corpo viene trafugato dall’amato con l’intento di farla resuscitare, anche grazie all’ausilio degli altri sacerdoti che sembrano la versione dorata dei Rockets. Qui troviamo due tra gli errori più grossolani dell’intero film, evidenti già dall’immagine in basso a sinistra: un Libro dei Morti rilegato (ne parleremo poi) e 5, dico CINQUE, vasi canopi. Infatti, un improbabile quinto vaso (quello al centro), con coperchio a testa di leone, è utilizzato per conservare il cuore. È vero che le tecniche d’imbalsamazione erano molto meno standardizzate di quanto si pensi e che, da recenti studi, si è visto che spesso il muscolo cardiaco non veniva lasciato nei cadaveri, ma di certo non esisteva un canopo per questo scopo. Inizialmente, gli organi interni erano riposti in cassette con quattro scomparti, fino all’introduzione nel Medio Regno di contenitori che, a partire dalla XIX dinastia (proprio quella di Seti I), assunsero le fattezze dei Figli di Horus, i quattro geni tutelari della mummificazione: Imsety (uomo) per il fegato, Hapi (babbuino) per i polmoni, Qebehsenuef (falco) per gli intestini e Duamutef (sciacallo) per lo stomaco. Nessun leone.

Tuttavia, il rituale magico è interrotto dalle guardie e l’anima di Anck-Su-Namun torna nell’Aldilà. Tutti i sacerdoti vengono mummificati vivi, ma la pena peggiore è riservata proprio per Imhotep: l’Hom-Dai, la condanna – molto più cristiana, in realtà – a soffrire per l’eternità senza poter morire, sigillato in un sarcofago con scarabei carnivori.

Imhotep viene così sepolto nella mitica città dei morti di Hamunaptra dove, dopo un salto temporale, ci si ritrova nel 1923 (non a caso, un anno dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon) con l’avventuriero americano Rick O’Connell (Brendan Fraser) che guida un’unità di legionari francesi alla ricerca degli incommensurabili tesori che la leggenda vuole in quel luogo. La spedizione non va a buon fine, anche per l’intervento dei Medjai (il vero termine si riferisce ad antiche popolazioni del deserto orientale e poi effettivamente a corpi di polizia d’élite), i discendenti delle guardie del faraone capeggiati da Ardeth Bay che sulla fronte ha tatuata la parola imHt, “aldilà”, in geroglifico (in basso a destra). In questo senso, il film del 1999 si discosta da quello del 1932 dove Ardeth Bay (anagramma di “Death by Ra”) era lo pseudonimo della mummia tornata in vita. Le scene tra le rovine della città, così come tutte le altre in esterno, non sono state girate in Egitto ma, come spesso capita per film storici (“Alexander”, “Il Gladiatore”, “Asterix & Obelix – Missione Cleopatra”, “Troy”, ecc.), in Marocco, dove sono nati veri e propri studi cinematografici specializzati (Atlas Corporation Studios).

L’unica cosa che O’Connell riesce a portar via da quel luogo maledetto è una specie di scatoletta a scatto (su cui è scritto “djed-medu 😛 in nesu-bit Men-Maat-Ra”: “Parole dette dal re dell’Alto e del Basso Egitto Seti I”; in basso a destra) al cui interno è nascosta la mappa per Amunaptra. Così, arrivato al Cairo, insieme a una bibliotecaria del Museo Egizio (anche questo ricostruito – male – in Marocco; in basso a sinistra) e a suo fratello Johnatan, un trafficante di antichità, torna indietro per cercare il tesoro più grande: il libro in oro massiccio di Amun-Ra. Il nome scelto per l’egittologa, Evelyn Carnahan (Rachel Weisz), è un chiaro riferimento a Lady Carnarvon, figlia del famoso finanziatore della missione di Howard Carter la cui morte improvvisa fece nascere la bufala della maledizione di Tutankhamon.

In stretta competizione con un’altra squadra di avventurieri americani (ennesimo spunto preso dalla saga di Indiana Jones, a mio avviso fin troppo citata per non sconfinare nel plagio), il gruppo riesce ad accedere alla sala della mummificazione della Città dei Morti dove – classico cliché – trappole mortali fanno fuori uno dopo l’altro i membri delle due missioni. Nonostante ciò, viene scoperto il sarcofago di Imhotep, aperto come una cassaforte con la scatoletta inserita in un ingranaggio da girare. La pesantissima bara è posta inutilmente in verticale solo per far più scena quando la mummia spunta improvvisamente fuori all’apertura del coperchio. La chiave, poi, si rivela utile anche per sbloccare il Libro dei Morti (in basso a destra) che, come anticipato, è rappresentato erroneamente come un vero e proprio volume con pagine da girare. In realtà, la definizione “libro” è stata introdotta dal tedesco Karl Richard Lepsius (il primo, nel 1842, a curarne l’edizione), in quanto si trattava di una serie di formule funerarie – il cui nome originale era “Formule per uscire al giorno” – scritte su diversi supporti come papiri, sarcofagi, bende di mummia, statuette ecc. Eppure, la produzione si è avvalsa della consulenza dell’egittologo Stuart Tyson Smith (impiegato anche nella realizzazione di “Stargate”; a sua discolpa, il professore della University of California – Santa Barbara, ha affermato di aver avvertito Sommers di questi errori). Fra l’altro, il Libro era nascosto in un contenitore su cui uno degli archeologi legge – nel verso sbagliato – una maledizione che semi-cita quella inventata dai giornalisti per l’entrata della KV62: «La morte verrà su rapide ali per colui che oserà aprire questa cassa».

La bibliotecaria incautamente legge una formula scritta nel Libro dei Morti che risveglia la mummia e riporta sulla Terra le dieci piaghe d’Egitto. Imhotep è inarrestabile e uccide una persona dopo l’altra per rubarne gli organi e rigenerarsi il corpo; scappa solo di fronte a un gattino di cui ha paura perché – non so dove l’abbiano letto – i felini sarebbero i guardiani dell’oltretomba. Poi rapisce Evelyn per far tornare in vita anche Anck-Su-Namun attraverso il suo sacrificio.

L’unico modo per fermare il malvagio sacerdote è trovare il dorato Libro di Amun-Ra che, anche in questo caso, è un volume rilegato (in basso a destra). L’oggetto si trova in una stanza del tesoro che s’illumina con un gioco di specchi debunkato dal punto di vista della fisica dai MythBusters. Alla fine, tra sparatorie e mummie inaspettatamente agili, Johnatan riesce a leggere la formula (a quanto pare, anche lui conosce il geroglifico), dando modo a Rick di spedire Imhotep nell’Aldilà… ma per poco, giusto il tempo di girare il seguito.

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Le “mummie” della Hammer Film Productions (blooper egittologici)

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Cursemummystomb220px-The-Mummys-Shroud-posterBloodmummytombDopo i film degli anni ’40 della Universal Pictures, il filone di pellicole sulle mummie era tutt’altro che prosciugato. A “resuscitarlo” fu la Hammer Film Productions che, nel 1959, riprese le stesse sceneggiature hollywoodiane e ne ricavò dei remake più o meno ufficiali. La casa di produzione britannica è famosa soprattutto per gli horror prodotti dai ’50 ai ’70 e che hanno raccontato la storia di tutti i mostri dell’immaginario popolare. In modo particolare, con il passaggio dal bianco e nero al colore, tre opere sono diventate dei cult per il genere: “La maschera di Frankenstein” (1957), “Dracula il Vampiro” (1958) e proprio “La Mummia” (1959). Questi tre film sono accomunati dalla regia di Terence Fisher, dalla sceneggiatura di Jimmy Sangster e dalle interpretazioni di Peter Cushing e di Christopher Lee, la cui parte più nota è probabilmente quella di Saruman ne “Il Signore degli Anelli”, ma che, con i suoi 196 cm di altezza, era perfetto per interpretare creature spaventose (fu per 12 volte un vampiro). Con il passare degli anni, però, la fortuna della Hammer è andata affievolendosi a causa dell’incapacità di stare al passo con il cinema americano e i suoi effetti speciali. Così, come nel caso dei tre sequel della mummia, abbiamo solo b-movies, tra il gore e il sexy, che non meritano di essere analizzati seriamente.

 

“La mummia” (1959)

29137_410590554200_4607017_nLa Hammer riesce a strappare un accordo alla Universal per l’utilizzo di sceneggiature del Ciclo di Kharis. Così, viene girato un re-remake de “La Mummia” del 1932 sfruttando personaggi e tematiche già visti in “The Mummy’s Hand”, “The Mummy’s Tomb”“The Mummy’s Curse”.

Siamo in Egitto (o meglio, in uno studio con pietre di polistirolo, sabbia sul pavimento e fondali dipinti) nel 1895 e una famiglia di archeologi inglesi scopre la tomba della principessa Ananka, intatta da 4000 anni. John Bunning (Peter Cushing), suo padre Stephen e lo zio Whemple violano i sigilli della sepoltura non curanti degli avvertimenti di un egiziano, Mehemet Bey, che, in realtà, è un sacerdote del culto segreto del dio Karnak (sì, viene ancora riproposto questa inesistente divinità). Il primo ad entrare nella sala del sarcofago è Stephen che, leggendo il “Rotolo della Vita” (simile al “Rotolo di Thoth” del film originale), risveglia la mummia di Kharis (Lee), sacerdote innamorato di Ananka e condannato ad essere imbalsamato vivo per aver cercato di riportarla in vita. Anche in questo caso, viene riproposto un flashback con la morte della principessa, il corteo funebre, il sacrilegio e la punizione di Kharis che viene bendato e rinchiuso in una sorta di armadio a muro nella tomba. Per la scelta dei colori, questa scena mi ha ricordato molto il video di “Dark Horse” di Katy Perry… Comunque, a causa di questa visione terrificante, l’archeologo impazzisce e viene internato in un manicomio in Inghilterra, dove Bey, insieme alla mummia, arriva con l’intenzione di uccidere i tre membri della missione.

Nonostante la morte di quattro persone, la sorte peggiore e reale è toccata a Christopher Lee. L’attore, infatti, durante le riprese, si è ferito le gambe inciampando su tubi coperti dal fango, si è slogato la spalla sfondando una porta erroneamente bloccata, si è ustionato a causa degli effetti per i colpi di pistola e, dulcis in fundo, ha subito uno strappo alla schiena portando in braccio Yvonne Furneaux (anche ne “La Dolce Vita”) nella classica scena del rapimento della bella. Alla fine, rimane in vita solo John, salvato dalla somiglianza della moglie Isobel con Ananka che distrae Kharis e lo fa scappare verso la palude con la sua “amata”. Ma, a differenza di “The Mummy’s Curse”, qui c’è il lieto fine: la ragazza si salva e la mummia sparisce nella melma crivellata di proiettili.

 

“Il Mistero della Mummia” (1964)

851_curse-mummys-tombCome vedremo, i quattro film della Hammer non sono legati tra loro, quindi ho impropriamente parlato di sequel di “The Mummy”. “The Curse of the Mummy’s Tomb” (per una volta che c’è la parola maledizione nel titolo originale, in quello tradotto non la mettono) di Michael Carreras, pur avendo, per l’ennesima volta, come evento scatenante la scoperta di una tomba egizia e la conseguente maledizione, presenta una trama autonoma. Si nota anche un cambiamento nella concezione di cinema horror con il sangue più visibile e le prime scene un po’ truculente (per la precisione, un paio di mani mozzate). L’atmosfera gotica della Londra del 1900 attenua anche le ricostruzioni storiche kitsch. Quindi, direi che questo è il film che preferisco tra i quattro descritti in quest’articolo (è disponibile in italiano su youtube).

Stessa scenografia iniziale, stessi fondali dipinti, stessa tomba con reperti “presi in prestito” dal corredo di Tutankhamon (ma almeno qui li hanno ricoperti di polvere e ragnatele), ma non abbiamo più né Kharis né Ananka. La sepoltura appartiene al principe Ra-Antef, la cui storia viene spiegata con un flashback. Ra è il figlio prediletto di Ramesse VIII (1127 a.C., quindi la datazione di 3000 anni presentata nel film è piuttosto accettabile) e fratello del malvagio Vi che, geloso del suo successo, lo fa apparire agli occhi del popolo come un pericoloso mago e costringe il padre ad esiliarlo nel deserto. Nel Sahara, Ra incontra una tribù di nomadi e ne diventa il re acquisendo un antichissimo amuleto che ha il potere di risvegliare i morti. Quindi, al posto del classico rotolo di papiro, questa volta abbiamo un pendaglio con la forma che ricorda la Paletta di Narmer. Il suo regno, però, dura poco perché Vi manda dei sicari (che indossano la kefiah…) ad ucciderlo.

Il finanziatore della missione, il magnate americano Alexander King (Fred Clark), decide di sfruttare la scoperta mostrando il corredo in giro nel mondo (un po’ come è successo con il tesoro di Tutankhamon con Zahi Hawass). La prima tappa dell’esposizione itinerante è a Londra dove arriva anche il sarcofago con la mummia di Ra-Antef (Dickie Owen) che verrà resuscitata da un misterioso personaggio e che cercherà la vendetta sui profanatori della sua tomba. Vi ricorda qualcosa? Un mostro portato, con conseguenze disastrose, da un luogo esotico nella società civile per creare uno spettacolo sfruttando il clamore sulla gente: King Kong! Intanto, due degli archeologi, John Bray (Ronald Howard) e sua moglie Annette Dubois, sono ospitati nella capitale britannica da Adam Beauchamp che, in realtà, è Vi reso immortale dalla maledizione del padre morente. Stanco della vita, è proprio lui che risveglia il fratello, l’unico in grado di ucciderlo e porre fine alla sua punizione. Quindi, per la prima volta, l’antagonista non è un sacerdote egizio, cosa che rende il film un po’ meno razzista degli altri.

Le novità riguardano anche i metodi adottati dalla mummia per far fuori le sue vittime: abbandonato il classico strangolamento, preferisce gettare persone dalle scale, annegare, calpestare teste e fracassare crani con oggetti contundenti (finalmente l’evoluzione in Mumia habilis). Nel finale, Adam/Vi  seduce la “fedelissima” Annette con il solo scopo di portala con sé nell’Aldilà, ma Ra, vendicandosi del male subito, uccide solo il fratello e mette fine anche alla sua esistenza facendosi crollare addosso il soffitto.

 

“Il Sudario della Mummia” (1967)

The_Mummys_Shroud_06Nel 1932, il truccatore Jack Pierce impiegava 8 ore a trasformare Karloff in un’icona del terrore. Trentacinque anni dopo, Eddie Powell deve solo infilarsi in un tutone e chiudere la zip, tra l’altro visibilissima. Questo è il sunto di ciò che fa la differenza tra il capolavoro di Freund e la “cagata pazzesca” (cit.) di John Gilling. La trama è sempre la stessa, gli oggetti di scena vengono tramandati negli anni, la qualità però peggiora.

I primi sette minuti narrano la nascita, nel 2000 a.C., dell’erede al trono Kah-To-Bey, figlio di Man-Tah. Qualche anno dopo, il faraone viene ucciso in una congiura di palazzo ordita dal fratello Ar-Man-Tah, ma riesce a far fuggire nel deserto il giovane principe con l’aiuto del servo Prem. La lunga marcia senza acqua né cibo, però, è fatale a Kah-To-Bey che viene sepolto da Prem in una grotta. La tomba è scoperta solo nel 1920 da una missione diretta da Sir Basil Walden (André Morell) e finanziata dal ricco Stanley Preston (John Phillips). Data la situazione di emergenza appena descritta, il defunto non è mummificato, ma è semplicemente avvolto nel “sacro sudario” e ricoperto di sabbia, anche se l’archeologo dice che visceri e cuore (che non era conservato nei canopi) sono in una cassettina. Lo scarno corredo e i resti del principe vengono portati al Museo Egizio del Cairo, ma Ashmid, il beduino guardiano della tomba, ruba il sudario e recita le formule magiche che fanno tornare in vita Prem. Le sembianze della mummia sono state riprese da una realmente esistente di epoca romana esposta presso il British Museum e recentemente protagonista della mostra “Ancient Lives”. Forse l’avrete riconosciuta dalle basette. L’essere comincia ad uccidere tutti coloro che hanno profanato la tomba del suo padrone (c’è la morte più cruda di tutta la serie di film dedicati alle mummie, cioè con l’acido da sviluppo fotografico), manovrato dalla madre di Ashmid che vede tutto dalla sua sfera di cristallo. La scia di cadaveri è interrotta solo quando Maggie Claire de Sangre, assistente del professor Walden, riesce ad impossessarsi del sudario e a pronunciare le parole in egiziano antico che bloccano la mummia e la polverizzano.

 

“Exorcismus – Cleo, la dea dell’amore” (1971)

blood_from_mummys_tomb_01A Seth Holt viene affidato l’ultimo lavoro della Hammer sulle mummie, anche se la classica iconografia del mostro bendato è sostituita dal corpo magicamente integro ritrovato nella tomba della crudele principessa Tera (d’altronde, sarebbe stato proprio un peccato nasconderla con un costume). Ma partiamo dalla traduzione non proprio letterale del titolo originale “Blood from the Mummy’s Tomb”. 1) Exorcismus: non c’è traccia di esorcismi, ma il film è stato distribuito in Italia nel 1975, due anni dopo dell’uscita de “L’Esorcista” di cui si voleva sfruttare il successo; 2) Cleo: come anticipato, la cattiva della situazione si chiama Tera e non Cleo, ma, anche in questo caso, si è voluto cavalcare l’onda lunga della “Cleopatra” (1963) di Liz Taylor; 3) la dea dell’amore: Tera è una principessa e tutt’altro che “amorevole” visto che prima seduce il padre faraone e poi lo fa uccidere insieme a tutti i suoi collaboratori.

La storia è liberamente ispirata al romanzo di Bram Stoker “Il gioiello delle sette stelle” (1903) e verrà ripresa nel 1980 con “Alla 39ª Eclisse”. Agli inizi degli anni ’70, la Hammer è ormai in declino e, per cercare di trattenere il pubblico che cominciava ad abituarsi ad horror di ben altro tenore (nel ’68 era uscito “La notte dei morti viventi” di Romero), aggiunge un pizzico di erotismo che non rende più piccante la solita minestra riscaldata. L’archeologo britannico Julian Fuchs (Andrew Keir) scopre la tomba di Tera e ne diventa ossessionato a tal punto da portare a Londra tutto il corredo funebre e da costruire una cappella segreta sotto la sua abitazione per conservarlo. Nel momento stesso che viene aperto il sarcofago, nasce la figlia di Fuchs che verrà impossessata dallo spirito della principessa. Come detto, la “mummia” è perfettamente conservata (e l’attrice Valerie Leon non fa niente per nascondere i movimenti della respirazione), tranne che per una mano mozzata dai sacerdoti che usano una paletta protodinastica come tagliere (aspettatevi delle scene degne della Famiglia Addams). Diciotto anni dopo, Margaret è maggiorenne ed è identica al corpo imbalsamato. Così, contro la sua volontà, va alla ricerca degli altri tre membri della missione che posseggono i tre sacri oggetti, il cobra, il gatto e il teschio di sciacallo, fondamentali per far risuscitare Tera. Tutti muoiono sgozzati da un misterioso vento e gli amuleti tornano al cospetto di “Cleo” che risorge, almeno fino all’intervento di Fuchs che la pugnala scatenando un crollo che distrugge la cripta. Il finale lascia gli spettatori con un dubbio: in un ospedale, l’unica sopravvissuta è finalmente ricoperta da bende, anche se da ingessatura, ma è Margaret o Tera?

 

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I sequel anni ’40 de “La Mummia” (blooper egittologici)

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Il grandissimo successo de “La Mummia” ingolosì a tal punto i produttori della Universal Pictures che furono realizzati, negli anni ’40, quattro film impropriamente definiti sequel dell’originale del 1932. Infatti, nonostante siano stati riciclati scenografia e addirittura spezzoni della pellicola di Freund, la storia non continua quella precedente, ma è una sorta di reboot con personaggi diversi. Si racconta sempre del risveglio di una mummia maledetta, ma è quella del principe Kharis e non più del sacerdote Imhotep; per questo, si parla anche di “Ciclo di Kharis”.

Tale premessa è sufficiente a far capire lo spessore di questa tetralogia che è stata prodotta a bassissimi costi girando lungometraggi di poco più di un’ora che si svolgono in location limitate e che sfruttano, come già scritto, materiale esistente. Non vale la pena presentare un’analisi accurata per questi b-movies, come di solito faccio nella rubrica “blooper egittologici”, e ho deciso di presentarveli tutti insieme con le loro curiosità e divertenti castronerie. Inoltre, ho faticato un po’ a trovarli perché non sono mai usciti nelle sale italiane, quindi è probabile che non li abbiate visti e che non li vedrete nemmeno dopo aver letto l’articolo.

 

“The Mummy’s Hand” (1940)

6a00d8341c630a53ef0133ee4a4479970bCon soli 80.000 $ (per rendersi conto, otto anni prima il budget era stato di quasi 200 mila), Christy Cabanne gira un film che non può nemmeno essere accostato a “La Mummia” (qui potrete vederlo LEGALMENTE in inglese). Tutto è a risparmio: scenografie (in parte riutilizzate), ambientazioni (tre di numero), attori (il divo Boris Karloff è sostituito da Tom Tyler solo perché gli somigliava leggermente) e trucco (come si vede nell’immagine in alto, la mummia sembra portare dei pantaloni e, per quasi tutte le scene, il trattamento del volto è semplificato con una maschera di gomma). Inoltre, all’inizio, per introdurre la storia, vengono montati gli spezzoni del 1932 che raccontano la storia d’amore tra Imhotep e Anck-es-en-amun, la morte della principessa, il sacrilegio del sacerdote e la sua mummificazione forzata. Ovviamente, i primi piani di Karloff sono stati sostituiti con quelli di Tyler (anche per evitare di pagare i diritti di immagine alla star).

Come anticipato, i personaggi cambiano. La principessa si chiama Ananka, mentre la mummia appartiene al principe Kharis, condannato a vigilare sulla tomba della sua amata per l’eternità. Ma a proteggere la tomba c’è anche una setta segreta di seguaci del vecchio culto guidata dal sacerdote del dio Karnak (non serve che puntualizzi, vero?) Adhoneb. Quando due archeologi disoccupati, l’eroico Steve Banning (Dick Foran) e il comico Babe Jenson (Wollace Ford), grazie a un vaso acquistato in un mercato al Cairo, risalgono all’esistenza della sepoltura, Adhoneb fa risvegliare la mummia di Kharis con una pozione magica. La mummia uccide alcuni membri della missione, tra cui il direttore del Museo Egizio del Cairo, il Dott. Petrie (un chiaro riferimento a Flinders Petrie, grande egittologo britannico e padre della moderna archeologia), e rapisce la bella figlia del finanziatore dello scavo, rispettando uno dei più famosi stereotipi degli horror classici. Come Anck-es-en-amun, anche Ananka (e apprezzate l’allitterazione!) ha bisogno del sacrificio di una giovane in cui reincarnarsi, ma i due archeologi riescono a fermare il piano sparando al sacerdote e dando la mummia alle fiamme. Il film termina con i tre che tornano in America insieme al corpo della principessa e al suo corredo funebre.

L’effetto comico della coppia di egittologi fu così riuscito che, nel 1955, “The Mummy’s Hand” venne parodiato da un film di Gianni e Pinotto, “Il mistero della piramide” (Abbott and Costello Meet the Mummy”), sempre prodotto dalla Universal.

 

“The Mummy’s Tomb” (1942)

The Mummy's TombLa formula sembra funzionare, così la Universal decide di lanciare un seguito affidandolo a Harold Young, che occupa buona parte dei 61 minuti del film con spezzoni de “La Mummia” e “The Mummy’s Hand” più altro materiale d’archivio. Vedendo il finale precedente, è chiaro che la realizzazione di “The Mummy’s Tomb” non fosse prevista. Infatti, ci sono dei colpi di scena stiracchiati per far stare in piedi la trama: sono passati 30 anni dalla scoperta della tomba di Ananka e si viene a scoprire che Adhoneb (George Zucco) non è morto per le pallottole di Jenson (qui, inspiegabilmente diventa Hanson) e, desideroso di vendetta, invia negli USA il suo successore, Mehmet Bey (stesso cognome fittizio adottato da Imhotep nella Mummia originale), e la mummia di Kharis (che sembra non avere nemmeno una bruciacchiatura, ma tanto farà la stessa fine) per uccidere tutti i componenti rimasti della missione archeologica di Banning e i loro discendenti (avranno viaggiato in prima classe?). Il sacerdote si fa assumere come guardiano del cimitero di Mapleton, Massachusetts, dove somministra l’elisir di foglie di tana alla mummia e la fa risorgere. Il mostro, da qui in poi impersonato da Lon Chaney Jr., è ancora più impacciato trascinando la gamba sinistra e piegando perennemente il braccio destro contro il petto; ma, nonostante ciò, riesce a strangolare l’ormai anziano Banning e altre persone. Hanson avverte tutti, senza essere creduto, che gli omicidi sono opera di Kharis, fino a quando alcuni esami su una sostanza grigia trovata nei luoghi del delitto rilevano muffa di mummia… Poi, Bey fa rapire Isobel, la fidanzata del figlio dell’archeologo, per continuare la stirpe reale, ma lo sceriffo spara al sacerdote e un’orda inferocita armata di torce intrappola la mummia dando fuoco all’abitazione dove si trova (ogni riferimento a Frankenstein è puramente casuale). Happy end con la fine della maledizione e il matrimonio tra Isobel e John Banning.

La storia di “The Mummy’s Tomb”, insieme a quella di “The Mummy’s Hand”, verrà ripresa nel 1959 dalla Hammer Film Production per la sceneggiatura di “The Mummy”.

 

“The Mummy’s Ghost” (1944)

ImmaginefTerzo film della serie e unico a non utilizzare flashback. Un punto a favore di Reginald Le Borg e della sua originalità? No, semplicemente mancanza di volontà nel dare spiegazioni che colleghino la storia di “The Mummy’s Ghost” a ciò che era successo prima. In ogni caso, siamo negli anni ’70 e il decrepito Adhoneb, questa volta sacerdote di Arkham (???), invia in America un nuovo adepto, Yousef Bey, a riprendersi le mummie di Kharis e Ananka. Intanto, il Prof. Norman, egittologo di Mapleton, compie degli esperimenti con le mistiche foglie di tana studiando antichi geroglifici, ma Kharis appare (non chiedetevi il perché, Bey non è nemmeno ancora negli USA) strangolandolo. Il sacerdote e la mummia si recano presso un inventato “Scripps Museum” di New York (vedi immagine), dove è conservato il corpo della principessa e tutto il suo corredo, ma improvvisamente i resti di Ananka si polverizzano perché l’anima si reincarna in Amina Mansouri (Ramsay Ames), giovane studentessa di storia di origini egiziane. Kharis non la prende bene e, con un’inaspettata agilità, distrugge tutti i reperti esposti e uccide una guardia. Yousef capisce tutto e torna a Mapleton dove Amina, ipnotizzata, sviene ed è rapita dalla mummia. Ma succede che entrambi i cattivoni s’innamorano della ragazza e si sa… tra i due litiganti, il mostro immortale super potente gode; Bey vola dalla finestra e Kharis se ne va con la donna. Da qui in poi, ci sono scene trite e ritrite: l’orda inferocita di abitanti del luogo insegue la creatura, la creatura fugge nella foresta con la bella, la creatura viene fermata e uccisa, la bella viene salvata. No, un momento, colpo di scena! Amina muore! Mentre è tra le braccia della mummia, invecchia di colpo di 3000 anni e i due s’inabissano per sempre (in realtà, come vedremo, solo per qualche anno) in una palude.

 

“The Mummy’s Curse” (1944) 

The_mummy's_curseSempre nel 1944, esce il quarto ed ultimo (meno male!) episodio del “Ciclo di Kharis” e tornano i lunghi flashback di seconda/terza mano (qui il film completo in inglese). Il regista Leslie Goodwins fa ripartire la storia a 25 anni dagli ultimi eventi (quindi dovremmo essere intorno al 1995, ma non c’è alcun tentativo di rappresentare il futuro) in Louisiana dove, durante alcuni lavori di dragaggio di un fiume, viene ritrovata la mummia di Kharis. Come sia finita lì dal Massachusetts è un mistero perché ce n’è di strada da fare! Sul cantiere, si presentano due studiosi dello Scripps Museum in cerca delle mummie perdute, ma uno dei due, Ilzor Zandaab (Peter Coe), altro non è che l’ennesimo sommo sacerdote che non lascia in pace il povero principe maledetto. Ilzor, insieme a un suo sottoposto, porta la mummia nelle rovine di un monastero abbandonato e, con la solita pozione, la riporta in vita. Nel frattempo, anche Ananka, impersonata qui da Virginia Christine, si risveglia sbucando lentamente dal fango in quella che probabilmente è la sequenza più horror dell’intera tetralogia. Nonostante fosse invecchiata alla fine del film precedente, la principessa rinasce giovane e attraente e, dopo un bagno nel fiume, anche truccata e pettinata. La ragazza non ricorda niente e vaga in stato di shock tra gli arbusti fino a quando un operaio la trova e la porta nella locanda del posto. Ma nel locale rimane per poco perché Kharis la trova e, dopo aver lasciato in giro qualche cadavere, la trascina verso il monastero. Lì, intanto, scoppia una colluttazione tra Zandaab e il suo discepolo, ora pentito, Ragheb che scatena l’ira della mummia. Come abbiamo visto, l’agilità non è la prima qualità della creatura e, infatti, durante la lotta, abbatte un muro portante facendo crollare la struttura che seppellisce tutti ponendo fine, questa volta definitivamente, alla maledizione. Infine, la gente accorsa trova Ananka chiusa nel sarcofago di nuovo avvizzita.

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“La Mummia” (1932): blooper egittologici

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Dopo aver analizzato “Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta”, continuo le pseudo-recensioni di film che parlano di Egitto prendendo in considerazione “La Mummia”, classico dell’horror del 1932 diretto da Karl Freund e interpretato da un magistrale Boris Karloff. Questa è la prima pellicola che ha diffuso nel pubblico cinematografico la mania per l’Egitto e per i suoi misteri preconfezionati. In realtà, già nel 1918 era stato girato un film muto in Germania sull’argomento, “Die Augen der Mumie Ma“, ma è solo con la Universal Pictures che nasce una vera e propria serie che porterà a diversi remake, fino a quello inguardabile del 1999 (nel frattempo, ne è stato girato un altro!). Negli anni ’30, Hollywood era invasa da mostri come “Dracula” con Bela Lugosi, “L’uomo invisibile” e “Frankenstein” che rese celebre lo stesso Karloff. Così, la Universal decise di cavalcare questa moda sfruttando un evento che aveva colpito l’opinione pubblica 10 anni prima e la cui eco non si era ancora affievolita: la scoperta della tomba di Tutankhamon.

Da quando, nel 1922, Howard Carter aveva individuato la sepoltura del giovane faraone, si diffuse in tutto il mondo un interesse paragonabile a quello per i concerti dei Beatles. La straordinaria ricchezza dei reperti del corredo, unita a un alone di mistero spesso creato ad arte dai giornalisti, diede il via alla Tutmania che influenzò i gusti degli anni ’20. Il finanziatore della missione, Lord Carnarvon, aveva venduto l’esclusiva a un solo giornale statunitense e le notizie uscivano con il contagocce; così, le testate concorrenti cominciarono a scrivere articoli palesemente inventati che alimentarono la leggenda della maledizione di Tutankhamon, secondo la quale tutti i partecipanti alla scoperta sarebbero morti di lì a poco in circostanze misteriose (malattie, avvelenamenti, omicidi, incidenti). In realtà, l’unico deceduto un anno dopo fu Carnarvon per un’infezione con varie complicazioni. Tutti gli altri ebbero, in media, una vita abbastanza lunga. Lo stesso Carter trapassò 17 anni dopo, mentre la figlia del conte addirittura nel 1980.

Non esiste nessuna maledizione contro i predatori della tomba, ma ormai la bufala era stata lanciata e vendeva (anzi, vende tutt’oggi); per questo fu trasposta sul grande schermo. Il film racconta di Imhotep (nome del famoso architetto della piramide di Djoser) riportato alla vita dopo che la sua mummia viene scoperta dagli archeologi del British Museum. Tornato nel mondo dei viventi, il sacerdote cerca di far resuscitare anche la sua amata Anck-es-en-Amon (anche in questo caso, viene usato un nome noto, quello della moglie di Tutankhamon), figlia del faraone “Amenophis il Magnifico” della XVIII dinastia (1700 a.C.), lasciando dietro di sé una scia di terrore e morte. In sostanza, è la storia di un amore così forte da superare le imposizioni religiose e il passare dei millenni; così forte da portare alla pazzia e al male puro. Dal punto di vista archeologico, “La Mummia” è molto più attendibile di “Indiana Jones”, sempre considerando che si tratta di un film fantastico di oltre 80 anni. Anzi, la prima parte è piuttosto accurata anche nei particolari; poi si scade nei luoghi comuni e in una ricostruzione storica meno attenta. Anche in questo caso, vi avverto che ci saranno spoiler, ma d’altronde avete avuto 82 anni per guardarvi il film!

I titoli di testa (foto a sinistra) scorrono su un modellino della Piana di Giza, anche se l’ambientazione iniziale è Tebe Ovest. Poi una voce narrante spiega la storia introducendo il “Rotolo di Thoth”, antico papiro che reca le formule magiche con cui Iside riportò in vita Osiride. E’ evidente che tale documento sia ispirato al “Libro dei Morti” (la vignetta con Anubi sul rotolo è parte della psicostasia del Papiro di Hunefer) che, bisogna ricordare, non era un libro come lo intendiamo noi ma una raccolta di formule magico-religiose utili a proteggere il defunto nell’aldilà. Quindi, da questo punto di vista, anche se usa un nome di fantasia, “La Mummia” del 1932 è più corretta rispetto a quella del 1999 in cui viene presentata una sotto specie di diario segreto del cuore con tanto di lucchetto.

Il film vero e proprio inizia nel 1921 (volutamente un anno prima della scoperta della tomba di Tutankhamon) con una serie di riprese del tempio di Hatshepsut a Deir el Bahari, Tebe Ovest, e con il cantiere di scavo della missione del British Museum diretta da Sir Joseph Whemple. L’archeologo, insieme al suo assistente Ralph Norton e al Dr. Müller, un non identificato esperto in arti occulte, cataloga i ritrovamenti appena fatti. Sir Whemple appare subito molto più esperto e giudizioso del giovane Norton proferendo frasi decisamente deontologiche come «Il metodo è tutto in archeologia»«La scienza ha più da imparare da questi pezzi di terracotta che da scoperte eccezionali». Poi, i tre si concentrano sulla mummia di Imhotep (il povero Karloff doveva sorbirsi 8 ore di trucco) e scoprono che il corpo non presenta il taglio dell’imbalsamatore, non è stato eviscerato e presenta i muscoli contratti. La cosa viene interpretata come una mummificazione forzata, un’esecuzione per alto tradimento o sacrilegio. In realtà, la conservazione del corpo dopo la morte era fondamentale per la vita nell’aldilà, quindi un sacrilego peccatore non avrebbe mai subito un trattamento del genere. Müller, tra il serio e il faceto, aggiunge un’ipotesi (che si rivelerà giusta): Imhotep potrebbe essersi messo nei guai con qualche sacra vestale, una sacerdotessa del Sole e figlia del faraone. La vestale, però, è una figura che riguarda il mondo romano e non quello egizio. Viene letta un’iscrizione nel sarcofago: “Imhotep, Gran Sacerdote del Tempio del Sole a Karnak”. Premesso che la dicitura non è esatta, almeno i geroglifici che sono riuscito a scorgere sono giusti (nell’immagine in alto a destra), […] Hm nTr tp(y) Ii-m-Htp (= “Il primo sacerdote Imhotep”). Dall’altra parte della bara, invece, i segni che proteggono lo spirito negli inferi sono stati cancellati, quando ci si sarebbe aspettata l’eliminazione del nome come in ogni damnatio memoriae.

Insieme al sarcofago, era stata scoperta anche una cassa di legno contenente uno scrigno d’oro con il sigillo intatto del faraone Amenophis (qui, invece, come si vede in alto a sinistra, i segni non corrispondono) al cui interno c’è un’altra cassa più piccola decorata con figure del dio Thoth sugli angoli (a destra). Nonostante la maledizione,“Morte, punizione eterna per chiunque osi aprire questo scrigno nel nome di Amon-Ra, re degli dei”, il giovane assistente apre lo stesso lo scrigno, prende il Rotolo di Thot e legge le formule che riportano in vita la mummia:

Norton impazzisce e Sir Whemple decide di non tornare più in Egitto; infatti, nel 1932, è il raccomandato figlio (nella versione italiana è il nipote) Frank a dirigere la missione del British, missione a dir poco fallimentare fino a quando si presenta un misterioso locale, Ardath Bey (in realtà, Imhotep) che conduce gli archeologi inglesi alla tomba di Anck-es-en-Amon. Questa situazione non è così insolita, soprattutto per l’egittologia ottocentesca. Ad esempio, la famiglia di tombaroli di Abdel Rassoul, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, consentì la scoperta della cachette di Bab el-Gasus e della tomba di Amenofi II. Le scene del cantiere, girate nella Death Valley in California, ricordano alla perfezione l’atmosfera degli scavi dell’epoca, con file di operai che si passano ceste piene di terra sotto le grida del rais (quante volte ho sentito anch’io “yalla yalla!”). Prima, vengono portati alla luce tre gradini e poi una porta con i sigilli ancora integri (chiaro riferimento alle immagini che provenivano da dieci anni dalla Valle dei Re): il cartiglio della principessa (in basso a sinistra) e il “Suggello degli sciacalli” (a destra) che mostra i quattro figli di Horo, ma che dovrebbe far riferimento al sigillo della necropoli reale di Tebe.

I giornali annunciano la grande scoperta e al Museo Egizio del Cairo si allestisce un’intera galleria per il corredo della principessa. Tra gli oggetti in mostra, spiccano il sarcofago, un canopo un po’ troppo cresciuto, vari gioielli e la copia di un vaso di alabastro della KV62. Così, Ardath si reca al museo per trovare la mummia della sua amata, si nasconde fino alla chiusura e comincia a recitare le formule per far tornare in vita Anck-es-en-Amun; ma un guardiano, che fa una brutta fine, interrompe il rituale e l’anima della principessa si reincarna in Helen Grosvenor, figlia del governatore britannico del Sudan e di una donna egiziana. Da questo punto, Helen si divide tra l’influenza magica di Ardath e il fascino dell’inutile belloccio Frank che la porta a casa mentre è ancora in trance. Il momento coincide con l’inizio della seconda parte del film caratterizzata da una improvvisa e poco credibile storia d’amore (fra l’altro, segnalo la frase più romantica nella storia del cinema: il giovane Whemple dice a Helen che si è innamorato di lei perché somiglia alla mummia di Anck-es-en-Amon…) e un mix tra avvenimenti sovrannaturali e una ricostruzione storica da recita scolastica (ricordo ancora, siamo nel 1932 e le pellicole moderne non sono di certo migliori). La donna invoca nel sonno Imhotep in egiziano antico, ma se ne accorge solo Sir Whemple confermando l’incompetenza del figlio che non capisce il significato delle parole sussurrate. Muller comprende tutto (d’altronde è lui l’esperto in arti occulte) e suggerisce all’anziano egittologo di bruciare il Rotolo di Thoth, ma Ardath sfrutta i poteri del suo anello-scarabeo per fermarlo: osserva tutta la scena dalla vasca della sua casa del Cairo (come la strega di Biancaneve nello specchio magico), uccide Whemple procurandogli un collasso cardiaco e si fa portare il papiro da un servitore della villa che diventa il suo “schiavo nubiano”.

17) passatoArdath cerca di uccidere anche Frank che si salva grazie a un amuleto con le fattezze di Iside ma, nonostante ciò, perde i sensi lasciando che Helen possa seguire il richiamo del sacerdote e raggiungerlo a casa dove, nella solita vasca a 62 pollici, vede il suo passato. Ihmotep, al capezzale della figlia del faraone, è talmente innamorato che non si dà pace per la morte della principessa. Viene mostrato tutto il corteo funebre con prefiche, carri trainati da buoi che trasportano gli oggetti del corredo, officianti, il faraone Amenophis e lo stesso protagonista con la pelle di leopardo (come i sacerdoti sem) che poi ruba il sacro scrigno con il Rotolo nascosto sotto una statua di una divinità non identificata (per farlo sfiora appena la base che si apre come una porta automatica da supermercato). Il suo tentativo di far risorgere Anck-es-en-Amon, però, è scoperto e Imhotep, accusato di sacrilegio, subisce la bendatura da vivo. Il suo sarcofago perde ogni simbolo di élite e viene sepolto insieme al rotolo stesso per far sì che un’azione così abietta non si ripetesse mai più. La damnatio menoriae si conclude con l’uccisione dei servi che avevano lavorato alla tomba, ma ormai tutti dovrebbero essere a conoscenza del mito sfatato della schiavitù egizia.

Helen si riprende dalla visione, ma viene condotta di notte nel Museo Egizio dove, rivestita dei gioielli del corredo, attende il piano malefico di Imhotep che vuole che l’incarnazione sia completata bruciando la vera mummia di Anck-es-en-Amon, sacrificando la donna sul “Tavolo di Anubis” e mummificandola per riportarla di nuovo in vita con le formule del Rotolo (nel frattempo, lo schiavo nubiano prepara il “bagno di natron” in un calderone fumante quando, in realtà, avrebbe dovuto essere il sale utilizzato per disidratare i cadaveri).

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Ma, proprio mentre Imhotep sta per affondare il pugnale in selce, Muller e Frank irrompono nella galleria e riescono a far svegliare Helen che invoca la protezione di Iside con antiche preghiere che le tornano in mente. La statua della dea alza la mano che regge un ankh (l’altra ha un sistro) e carbonizza il Rotolo di Thot polverizzando di conseguenza il corpo del malvagio sacerdote. Curioso che la croce della vita abbia portato la morte.

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