Source: National Geographic “Lost Treasures of Egypt” 03×04
Era stata una delle più importanti scoperte archeologiche del 2019 in Egitto, ma, a quanto pare, la tomba di Khuy continua a riservare sorprese. La mastaba, situata a Saqqara Sud, aveva stupito per lo straordinario stato di conservazione delle pitture dell’anticamera, la cui ricchezza ben si confà allo status di un alto funzionario vissuto alla fine della V dinastia, tra i regni di Djedkara e Unas (2400 a.C. circa).
Nella camera funeraria erano stati ritrovati quattro vasi canopi in calcare (foto in basso) e pochi resti del sarcofago sopra frammenti di una mummia. Ma le prime analisi sul corpo del defunto, affidate a Salima Ikram (American University in Cairo), hanno rivelato una tecnica d’imbalsamazione finora mai vista per un periodo così antico. Ancora una volta è stato un episodio Lost Treasures of Egypt, il quarto per la precisione, a diffondere la notizia.
La pratica di mummificare i morti era già conosciuta nell’Antico Regno (ci sono tracce d’imbalsamazione intenzionale che risalgono addirittura al predinastico), ma si limitava più che altro all’essiccazione dei corpi e raramente all’asportazione degli organi interni. Il caso della tomba di Khuy, invece, presenta un bendaggio di lino di altissima qualità e costose resine importate da terre straniere. Queste peculiarità hanno portato la Ikram ad accostare in un primo momento la mummia a quelle della XXI dinastia, ben 1400 anni dopo, e quindi a un possibile riutilizzo della tomba che effettivamente è attestato all’esterno della struttura. Tuttavia, l’interno non pare mostrare un’appropriazione tarda della sepoltura e la datazione delle ceramiche e del resto degli oggetti del corredo porta senza dubbio alla V dinastia. Quindi, se il corpo fosse veramente quello di Khuy, si sarebbe di fronte a raffinate tecniche di mummificazione mai attestate per casi risalenti all’Antico Regno.
Per avere le prime conferme, sono state effettuate scansioni ai raggi X sui pochi resti rimasti della mummia – di cui manca la testa -, portando all’identificazione di un uomo, piuttosto alto e grasso, senza evidenti segni di lavoro usurante sulle ossa. Questo primo identikit ben si adatterebbe a un alto ufficiale come Khuy, ma, al netto dei titoli sensazionalistici visti in queste settimane, occorrono ancora molti esami per arrivare a dati definitivi. A partire dalle analisi delle resine, per verificare che quelle trovate nei canopi, sicuramente di V dinastia, coincidano come sembra con quelle cosparse sul corpo; infine, si attendono i risultati della datazione al C14, previsti non prima del maggio del 2022.
Source: National Geographic “Lost Treasures of Egypt” 03×03
La nuova serie di documentari National Geographic “Lost treaures of Egypt” (trasmessa in queste settimane come “I grandi tesori d’Egitto” in Italia) non sta anticipando solo scoperte, ma anche aggiornamenti da scavi in corso già da anni.
Nella terza puntata, ad esempio, si parla della missione di Ola El-Aguizy (Università del Cairo) nella tomba di Iurkhy, scoperta a Saqqara nel 2018 (qui il mio articolo). Iurkhy era un importante generale, forse di origine siriana, vissuto sotto Seti I (1290-1279 a.C.) e Ramesse II (1279-1212). La sua sepoltura-santuario aveva subito colpito per i rilievi e per la grandezza della struttura – consistente in una corte esterna, un peristilio, la stanza della statua, ripostigli con volta stuccata e cappelle a ovest (foto in alto) -, ma ha riservato altre sorprese.
Proprio al centro della sala con pilastri è stato scavato un pozzo funerario profondo 8 metri che conduce a una prima stanza ipogea vuota da cui a sua volta si accede, attraverso un altro pozzo di 12 metri, alla camera sepolcrale vera e propria. Anche quest’ultima non presenta reperti a causa di antichi tombaroli; tuttavia, un passaggio murato nella sala superiore si è rivelato l’ingresso a un dedalo di gallerie e sale secondarie, ancora da indagare perché ingombre di detriti. Appare evidente che anche questi ambienti, forse riutilizzati per sepolture più tarde, siano stati violati da ladri, ma restano comunque ossa umane e oggetti del corredo, come frammenti ceramici, ushabti, una testa di vaso canopo in alabastro e blocchi di calcare con scene funerarie (foto in basso).
Source: Lost Treasurs of Egypt, ep.1 (National Geographic)
Lo scorso 4 marzo, in contemporanea in diversi paesi tra cui l’Italia, National Geographic ha lanciato una serie di documentari che illustrano le ultime novità delle missioni archeologiche in Egitto finanziate dalla National Geographic Society. Proprio nel primo episodio, dedicato in particolare a Tutankhamon, si è parlato di una scoperta, o per meglio dire di una riscoperta riguardante il faraone bambino.
Durante le operazioni di trasferimento verso il nuovo Grand Egyptian Museum di alcuni reperti conservati nel Luxor Museum, il direttore di quest’ultimo, Mohamed Atwa (foto in basso a sinistra), e i suoi collaboratori hanno notato una vecchia scatola di legno impolverata di cui non si avevano dati. Aprendola, è arrivata una vera sorpresa, a conferma che non si finisce mai di ‘scavare’ nemmeno nei depositi museali. Sopra un foglio di giornale del 5 novembre 1933, infatti, si trovavano alcuni pezzi – creduti perduti – di uno dei 18 modellini d’imbarcazioni scoperti nella KV62: un albero, corde e sartiame vario e una testa osiriaca con ancora tracce di doratura.
Più precisamente, è stata trovata una chiara corrispondenza con la barca che ho indicato con la freccia rossa nella una foto (colorata) di Burton della cosiddetta Camera del Tesoro, in primo piano nell’immagine in basso a sinistra dai magazzini del GEM. Si tratta del reperto che Carter aveva registrato con il numero 321 e che, dopo essere stato portato al Cairo, era stato inventariato con la sigla JE 61330.
Un mese fa vi avevo parlato di un sequestro di reperti egizi nel porto di Salerno. Nell’articolo che ho scritto per National Geographic Italia, tutti gli aggiornamenti e approfondimenti.
Source: MoA
Negli ultimi anni, siamo stati abituati al rinnovato sforzo profuso dalle autorità italiane nel recuperare frammenti del nostro patrimonio storico-artistico acquistati illegalmente da collezionisti privati o musei stranieri. Ultimo caso celebre, ad esempio, è quello del cosiddetto Atleta di Fano, capolavoro bronzeo (IV-II sec. a.C.) attribuito allo scultore greco Lisippo, scoperto al largo della città marchigiana, ma finito attraverso il mercato nero al Getty Museum di Malibu che si sta opponendo strenuamente alla restituzione. Tuttavia, per una volta sarà il nostro paese a rendere al legittimo proprietario reperti archeologici che probabilmente avrebbero foraggiato l’attività terroristica dell’Isis. In questo caso, però, non c’è alcun contenzioso né lunghe trafile legali, ma la libera collaborazione tra Italia ed Egitto, luogo di origine di 118 oggetti confiscati lo scorso marzo nel porto di Salerno.
Ieri mattina (20 giugno), il procuratore generale egiziano, Nabil Sadek, ha annunciato l’approvazione da parte del suo omologo campano della rogatoria inviata qualche settimana fa, grazie alla quale la “refurtiva” tornerà presto al Cairo per essere esposta in una mostra temporanea nel Museo Egizio di Piazza Tahrir. La vicenda era stata resa nota il 21 maggio in un servizio di Stefania Battistini per il TG1, ma il sequestro, ad opera dei carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Napoli e dell’ufficio delle Dogane di Salerno, era stato effettuato a marzo e prontamente comunicato all’Ambasciata egiziana a Roma. In un container diplomatico, infatti, erano stipati ben 23.700 reperti archeologici di cui 118 provenienti dall’Egitto. Tra questi, databili dal periodo faraonico all’età islamica, spiccano vasi in ceramica, monete, canopi, frammenti di sarcofagi, una maschera funeraria dorata e diversi modellini in legno che riproducono barche con relativi rematori e donne che realizzano pane e birra.
Foto dei pezzi erano subito state inviate al ministero egiziano delle Antichità, ma la conferma della loro autenticità è arrivata solo il 5 giugno, quando una delegazione del Supreme Council of Antiquities si è recata presso la caserma Tofano di Nocera Inferiore per un controllo da vicino. Secondo quanto riferito da Shabaan Abdel Gawad, direttore generale del Dipartimento per il Rimpatrio delle Antichità, i reperti non compaiono in nessun registro ufficiale quindi non sarebbero stati trafugati da musei o magazzini del ministero, ma proverrebbero da scavi clandestini in siti archeologici. Purtroppo in Egitto, soprattutto dopo la rivoluzione del 2011, l’attività dei tombaroli ha avuto una crescita esponenziale, nonostante l’inasprimento delle pene che possono arrivare fino a multe di 10 milioni di lire egiziane (quasi 500.000 euro) o addirittura all’ergastolo. Il fenomeno è ancor più grave in zone difficilmente controllabili come quelle del Sinai in cui si sono diffusi gruppi jihadisti affiliati all’Isis.
Proprio dalla penisola sarebbe arrivato il carico, poi imbarcato ad Alessandria per l’Italia. Non è un caso che le indagini dei carabinieri si siano da subito indirizzate verso i traffici degli uomini del Califfato. La vendita di beni archeologici, infatti, è diventata una delle principali fonti di guadagno del Daesh che ha sfruttato i siti in Siria, Iraq e Libia come veri e propri supermercati dove attingere denaro facile. In questo caso, inoltre, ci sarebbe anche lo zampino della malavita locale, come testimonia un’indagine della Procura di Salerno che ha posto fine nel 2016 a un traffico analogo orchestrato da camorra e ‘ndrangheta nella vicina Vietri sul Mare.
A Kom Ombo è stato rinvenuto un ritratto in marmo dell’imperatore romano. Altra importante scoperta a Karnak, dove è stata riportata alla luce una cappella dedicata ad Osiride
Quando si parla di Karnak, il più esteso complesso templare al mondo che si trova nell’attuale città di Luxor, si è soliti pensare solo ai tre santuari maggiori dedicati alla triade tebana: Amon, Mut e Khonsu. In realtà, basterebbe uscire di poco dai consueti percorsi turistici e addentrarsi nei campi inclusi nella cinta in mattoni crudi per capire quanti fossero i templi minori e i piccoli sacelli disseminati nell’area. Tra questi isolati edifici di culto, alcuni furono costruiti per Osiride nella zona nord-est del recinto di Amon tra la XXV e la XXVI dinastia (VIII-VI sec. a.C.; lo studio di questi edifici è attualmente affidato al team francese dell’IFAO e del CFEETK).
Tuttavia, la missione diretta da Essam Nagy ha recentemente individuato una cappella osiriaca in un nuovo settore, a sud del X pilone (il grande portale fatto costruire da Merenptah per chiudere l’asse N-S del tempio principale), tra il Viale delle Sfingi e il passaggio che unisce il Tempio di Amon con il Tempio di Mut. Secondo quanto riferito dal segretario generale del Supreme Council of Antiquities, Aiman Ashmawy, gli archeologi egiziani hanno quindi scoperto i resti di un edificio consacrato a Osiride-Ptah-Neb-Ankh, che conserva ancora ingresso, basi di colonne, muri interni di tre sale e la pavimentazione in calcare.
La cappella, rientrando perfettamente nel programma edilizio dedicato al dio dei morti tra la fine del III Periodo Intermedio e l’inizio dell’Epoca Tarda, vede i nomi degli ultimi due re della dinastia dei “faraoni neri”: Taharqa (690-664 a.C.) e Tanutamani (664-653). Tra i reperti rinvenuti, oltre a numerosi vasi di ceramica, spiccano la base di una statuetta seduta in trono e un frammento di stele con gli animali associati ad Amon, l’anatra e l’ariete, e il disco solare simbolo della sua assimilazione con Ra.
Inoltre, nello stesso dispaccio del Ministero delle Antichità, è stata annunciata un’altra scoperta effettuata circa 150 km più a sud. A Kom Ombo, nei pressi del tempio tolemaico dedicato in particolare al dio coccodrillo Sobek, è stata recuperata la testa in marmo di Marco Aurelio (161-180 d.C.). Il ritratto, rarissimo per l’Egitto, è riconoscibile dalla barba e dai folti capelli ricci che caratterizzano l’imperatore filosofo. In questo caso, però, il ritrovamento non è frutto di uno scavo archeologico, bensì il risultato casuale dei lavori di drenaggio della falda freatica, partiti lo scorso settembre per proteggere il tempio dalla risalita dell’acqua dal suolo.
Qualche mese fa, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo, sono comparsi titoli sensazionalistici sulla famigerata iscrizione di Beyköy, un lungo testo in geroglifico anatolico che avrebbe parlato di Popoli del Mare e della fine dell’Età del Bronzo. Perché, nonostante il fenomeno interessi anche l’Egitto, non ho riportato la notizia sul blog? Perché era una bufala. L’intera vicenda mi è subito apparsa sospetta, viste la mia esperienza con le fake news egittologiche e la familiarità con l’argomento che avevo scelto per la tesi di triennale.
Qualche mese fa, sulle testate giornalistiche di tutto il mondo sono comparsi titoli sensazionalistici riguardo una presunta scoperta che avrebbe dovuto far luce su uno dei periodi più enigmatici dell’antichità: la fine dell’Età del Bronzo. La decifrazione di un testo di 3200 anni dall’odierna Turchia, infatti, sembrava poter spiegare definitivamente le cause del collasso del sistema politico-economico palaziale. Ma, già prima della pubblicazione completa della traduzione, era sorto più di qualche dubbio tra gli esperti.
I Popoli del Mare e la fine di un’epoca
Intorno al 1200 a.C., le tre superpotenze dell’epoca – Micene, Hatti ed Egitto – subirono un netto declino. Con il cosiddetto Medioevo ellenico, evidenti tracce di distruzione in alcuni centri della Grecia attestarono la fine della civiltà micenea; il grande impero ittita si frazionò in una serie di entità più piccole chiamate Stati neo-ittiti; l’Egitto – tra la fine della XIX e l’inizio della XX dinastia – riuscì a fronteggiare continui attacchi da nord, ma iniziò gradualmente a perdere il controllo sulla terra di Canaan. Questa crisi globale viene imputata, forse in modo troppo semplicistico, ai cosiddetti Popoli del Mare, coalizione eterogenea di genti che avrebbe attaccato le principali città costiere del Mediterraneo Orientale.
Tali popolazioni – note nelle fonti egizie con i nomi di Shardana, Shekelesh, Peleset, Tjekker, Lukka, Danuna, Eqwesh, Tursha, Weshwesh – si mossero probabilmente dall’area dell’Egeo per compiere incursioni in Anatolia, Siria, Palestina e Cipro. La loro avanzata si fermò solo in Egitto dove, almeno secondo i documenti ufficiali faraonici, furono definitivamente sconfitte e ricacciate indietro. Perfino il grande Ramesse II (1279-1213), così come il successore Merenptah (1213-1203), si trovò a fronteggiare queste scorribande; ma la minaccia più grave deve essersi verificata sotto Ramesse III (1185-1153) che dedicò ben il 36% delle scene militari nel suo tempio funerario a Medinet Habu (Tebe Ovest) alle campagne contro la confederazione dei “barbari settentrionali”.
L’iscrizione scomparsa
In questo apparente scenario di caos e devastazione, una parte da protagonista sarebbe stata ricoperta dal fantomatico Kupanta-Kurunta, Gran Re di Mira (uno degli Stati del Tardo Bronzo dell’Anatolia occidentale), in grado d’inanellare una serie di conquiste militari lungo la costa del Mediterraneo Orientale proprio intorno al 1190-1180 a.C. La sua invincibile flotta, comandata dal principe Muksus di Troia, avrebbe attaccato perfino la biblica Ascalona, nell’attuale Israele, al confine con la zona d’influenza egizia.
Questa e altre gesta erano narrate da un’iscrizione in luvio geroglifico che purtroppo non esiste più, o meglio, come spieghiamo più avanti, verosimilmente non è mai esistita. Il “documento” in questione era inciso su un fregio di calcare, lungo 29 metri e alto 35 cm, scoperto nel 1878 a Beyköy, 34 km a nord dalla città turca di Afyonkarahisar. Il testo, però, è stato tradotto e pubblicato solo lo scorso dicembre dal geoarcheologo svizzero Eberhard Zangger e dal linguista olandese Fred Woudhuizen. Le motivazioni di un simile ritardo stanno nella storia stessa del reperto, più intricata e avventurosa del racconto che avrebbe veicolato. Il blocco originario, infatti, sarebbe sparito subito, utilizzato dagli abitanti del luogo come materiale edile per le fondamenta di una moschea; ma, poco prima, il francese Georges Perrot sarebbe riuscito a disegnarne il contenuto. Da questo momento, comincia una lunga serie di trascrizioni degli schizzi originari, a loro volta perduti, che arrivano fino alla controversa figura di James Mellaart, archeologo britannico noto più per gli scandali in cui è stato coinvolto che per le sue scoperte. Mellaart avrebbe copiato il testo di Beyköy a Istanbul nel 1979 dagli appunti dello studioso locale Ulug Bahadir Alkim, per poi tentare, fino all’ultimo giorno della sua vita, la decifrazione di quella scrittura che però non conosceva. Dopo la morte avvenuta nel 2012, lasciò addirittura scritto nel suo testamento che fosse cercato qualcuno in grado di continuare il suo lavoro.
La pubblicazione del testo e il clamore mediatico
Per il difficile compito, la scelta del figlio di Mellaart è ricaduta su Eberhard Zangger, presidente della fondazione Luwian Studies e autore di teorie altrettanto controverse sull’interpretazione di Troia come Atlantide e sulle responsabilità dei Luvi nel collasso delle civiltà dell’Età del Bronzo. Non a caso, la traduzione di Woudhuizen, già dalle prime anticipazioni, sembrava confermare il ruolo attivo di una coalizione di Stati dell’Asia Minore nell’invasione dei Popoli del Mare. Tutto molto sospetto. Nonostante ciò, la notizia è diventata subito virale ancor prima della pubblicazione ufficiale sull’ultimo numero di Talanta – Proceedings of the Dutch Archaeological and Historical Society.
I primi dubbi sono poi stati confermati dalle informazioni fornite da Recai Tekoglu, professore dell’Università di Smirne e uno dei pochi studiosi al mondo in grado di tradurre il geroglifico anatolico: Perrot si recò l’ultima volta nell’Impero ottomano nel 1871 e quindi non può essere stato presente al momento della presunta scoperta (1878); la moschea di Beyköy risalirebbe addirittura a quasi 50 anni prima; inoltre, dal punto di vista strettamente linguistico, il testo presenta numerosissimi complementi fonetici (segni che esprimono un suono), caratteristica della scrittura del I millennio a.C. e non di quella del II che, invece, si basa su un sistema di logogrammi (segni che esprimono un’intera parola).
Gli appunti di Mellaart contenenti informazioni storiche e ricostruzioni testuali
Un falsario seriale A questi dati, già da soli sufficienti a invalidare la notizia, si aggiunge la fama negativa del vero protagonista della faccenda: James Mellaart. L’archeologo inglese scoprì l’importante sito neolitico di Çatalhöyük nel 1958, ma pochi anni dopo fu bandito dalla Turchia con l’accusa di traffico illegale di antichità. In più, tra la comunità scientifica, già da tempo era noto soprattutto per aver parlato di una serie di pitture parietali la cui esistenza non è mai stata provata, come scene con sconosciuti riti religiosi, la più antica rappresentazione di un’eruzione vulcanica e la prima mappa stradale. Gravi sospetti che sono stati confermati poche settimane fa, quando Eberhard Zangger in persona ha visitato il suo appartamento rimanendone sconcertato.
Al giornalista Owen Jarus di Live Science, infatti, Zangger ha riferito di essersi recato a Londra in cerca di foto e note originali sull’iscrizione appena pubblicata e di aver scoperto, invece, un vero e proprio laboratorio domestico di falsi. Decine di lastre di scisto erano state utilizzate per provare i disegni spacciati come ritrovamenti di Çatalhöyük, mentre un corposo dossier era servito a confezionare l’iscrizione di Beyköy: informazioni storiche, liste di nomi di personaggi, popoli e luoghi, appunti di grammatica testimoniano il meticoloso lavoro di Mellaart che, a quanto pare, mentiva anche quando affermava di non conoscere il luvio geroglifico. Per oltre 50 anni, quindi, si sarebbe reiterata la creazione di falsi documenti atti a rafforzare teorie fantasiose mai supportate da dati oggettivi.
Lastre di scisto con prove dei disegni di Çatalhöyük. Ph: Luwian Studies
Così come il 2017, anche il 2018 sarà un anno di grandi risultati per l’archeologia egiziana. È la promessa fatta stamattina dal ministro delle Antichità Khaled El-Enany durante una conferenza stampa ufficiale tenutasi a poche centinaia di metri dalla Grande Piramide. El-Enany ha infatti annunciato la scoperta di una tomba risalente alla V Dinastia (2400 a.C. circa) effettuata nella necropoli occidentale di Giza.
Il cimitero in questione, scelto per migliaia di sepolture di funzionari di Antico Regno, è stato indagato già dalla metà dell’Ottocento fino ai più recenti scavi di Zahi Hawass; tuttavia, la ricerca nell’area è ripresa da pochi mesi grazie a 12 missioni locali. Quella che ha portato al ritrovamento è iniziata lo scorso ottobre ed è diretta da Mostafa Waziry, segretario generale del Supreme Council of Antiquities, che ha fornito ulteriori dettagli sulla tomba.
La mastaba, ora denominata G9000, è appartenuta a Hetepet [Hetpet nella forma meno corretta], donna che si fregiava dei titoli di “Sacerdotessa di Hathor” e “Conoscente del Re”. Al momento, non si conosce molto altro della defunta se non l’importanza che si può desumere dalla sua deposizione indipendente, apparentemente non legata a uno sposo.
L’edificio funerario è composto da una struttura architettonica in blocchi di calcare e pareti in mattoni di fango. All’interno, un corridoio “a L” conduce alla cappella con un bacino di purificazione e una tavola per l’incenso e le altre offerte per l’aldilà.
Ma quello che colpisce è la perfetta conservazione delle pitture parietali, dai colori ancora vividi, che ritraggono scene di vita quotidiana: uomini e donne sono ritratti mentre pescano, cacciano, coltivano i campi, macellano bovini, fondono metalli, lavorano il cuoio, intrecciano canne di papiro per la realizzazione di barche, danzano, suonano e portano doni a Hetepet.
In particolare, curiosa è la rappresentazione di due scimmie, all’epoca normali animali domestici, l’una intenta nel cogliere frutti da un albero mettendoli in una cesta, l’altra nel ballare durante il banchetto funebre.
Questa scoperta, però, potrebbe non essere completamente inedita perché di Hetepet abbiamo già diversi rilievi in calcare, tra cui due false porte, conservati presso il Liebieghaus Museum di Francoforte e il Neues Museum di Berlino.
I blocchi furono recuperati nel 1909 dalla spedizione tedesca di Carl Maria Kaufmann che, purtroppo, non segnalò il punto esatto di ritrovamento né descrisse il contesto. In ogni caso, le ricerche continueranno, anche in ottica del recente piano di riqualificazione turistica della Piana di Giza che ha visto, tra le altre cose, l’apertura al pubblico lo scorso novembre delle Tombe dei costruttori delle piramidi.
Ancora una volta, la tecnologia potrebbe aiutare la protezione delle vestigia del passato, ma con alcune perplessità… Sarah Parcak, “space archaeologist” presso l’Università dell’Alabama, ha presentato un progetto finanziato dalla National Geographic Society che consiste nel monitoraggio di oltre 4000 siti egiziani tramite immagini satellitari. Queste foto, scattate in orbita a oltre 700 km di altezza e messe a disposizione da Google Earth, servirebbero a valutare l’entità dei danni causati dagli scavi illegali e a controllare i cambiamenti nel corso degli anni (nell’immagine, la situazione di Dashur Sud nel 2011 e nel 2013). Questo sistema, unito a scansioni a infrarossi fornite dalla NASA, aveva permesso di individuare nel 2011, tra Tanis e Giza, 17 piramidi, 1000 tombe e altre 3100 strutture ancora sconosciute, anche se si attende la certezza che può arrivare solo scavando nell’area. Tale strumento sarebbe utile anche per le case d’asta per recepire maggiori informazioni riguardo ai reperti messi in vendita.
Ma veniamo alle perplessità già anticipate. Senza un’attività sul territorio, il monitoraggio dall’alto non può di certo bloccare i tombaroli nell’immediato. Come purtroppo è noto, in Egitto c’è stata un’impennata dei reati legati al mercato nero di antichità proprio per la mancanza del controllo della polizia e degli ispettori del ministero che, anzi, a volte si ritrovano invischiati in attività illecite. In più, i dati presi dalla ionosfera non sono sempre attendibili se non li si integra con indagini sul campo, altrimenti si incappa in bufale come quella della presunta scoperta, subito smentita, di nuove piramidi ad Abu Sidhum e a Soknopaiou Nesos. In quel caso, semplici formazioni naturali con qualche struttura antica erano state interpretate come piramidi da Angela Micol, che non è né archeologa né geologa, visionando le immagini di Google Earth. La cosa triste è che, come troppo spesso accade tra blogger e giornalisti, la notizia fu riportata anche su quotidiani nazionali senza alcuna verifica sull’attendibilità.