Articoli con tag: Osiride

Un nuovo ambiente reale ridisegna la pianta del tempio di Ramesse II ad Abido

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Source: MoA

Ad Abido, a pochi metri dal più celebre tempio di Osiride di Seti I, il santuario del figlio si ‘allarga’. A ridisegnarne la planimetria è stato il team della New York University Epigraphical Expedition che ha scoperto un nuovo ambiente reale sul lato meridionale.

Plan_Abydos_Temple_Ramses_II_CompleteIl tempio, realizzato da Ramesse II (1279-1212 a.C.) per la triade Osiride-Iside-Horus dopo aver completato quello del padre, è più piccolo e decisamente peggio conservato, ma presenta comunque interessanti rilievi e iscrizioni (come la rappresentazione della onnipresente battaglia di Qadesh o una lista di re oggi al British Museum) che sono studiati dal 2007-8 dalla missione di Sameh Iskander e Ogden Goelet. La documentazione di testi e iconografie che ha portato alla pubblicazione di due volumi (III) si è affiancata anche a un lavoro di scavo quando, di fronte all’ingresso S-O, è stato individuato un palazzo collegato da una passerella in pietra al tempio (nell’immagine a sinistra ho segnalato in rosso l’area). 

La struttura è composta da pareti in mattoni crudi e lastre di calcare, stesso materiale del rivestimento del pavimento. Inoltre, sono stati ritrovati blocchi del soffitto dipinti con stelle, la base di una colonna in arenaria e gradini che recano iscritto il nome del faraone.

La titolatura di Ramesse II è presente anche sulle pietre di fondazione che venivano posizionate ai 4 angoli dell’edificio e che sono state scoperte per la prima volta dalla missione americana.

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Source: MoA

 

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Corn-mummies: le figurine germinanti di Osiride

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“Corn-mummy” nel suo sarcofago, Epoca romana, British Museum, EA41553 (ph. Maria Linda Pessolano)

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“Corn-mummy”, Epoca Tarda, British Museum, EA60745 (ph. Maria Linda Pessolano)

“Momies d’Osiris”, “Grain Osiris figures”, “Kornmumien”, “Kornosirise”, “Osiris vègètant”: queste sono solo alcune delle definizioni che sono state utilizzate nel tempo per indicare una particolare categoria di reperti mummiformi, composti da una miscela di terra, cereali, bende di lino e resine, che la storia degli studi più recente definisce corn-mummies.
Queste figurine misurano dai 35 ai 50 cm e quasi sempre sono fornite di attributi in cera, legno o terra disposti al di sopra del bendaggio e raffiguranti maschere con volto umano e barba posticcia, corone regali (atef o hedjet), urei, pugni che reggono uno scettro sul petto o falli eretti (foto a sinistra).
Accanto alla mummia sono stati a volte ritrovati anche altri elementi accessori, come figurine con volti di cera, in genere nel numero di quattro (raffiguranti i Figli di Horo), scarabei o piccole sfere di terra.
Spesso rinvenuti all’interno di un sarcofago ligneo con testa di falco (foto in alto) e coperchio decorato, per questa ragione le corn-mummies sono state erroneamente alcune volte catalogate come mummie infantili o di rapace.
Ciò, insieme al numero relativamente limitato di reperti noti e di indagini scientifiche effettuate su di essi, ha reso particolarmente complessa la ricerca di risposte riguardo al panorama cronologico, geografico e culturale in cui collocarli.
Tuttavia, l’analisi stilistica ha permesso di datare le corn-mummies tra il tardo Terzo Periodo Intermedio (950-656 a.C.) e l’inizio dell’Età Tolemaica (300-200 a.C.), consentendo inoltre di individuare una cronologia più ristretta per i singoli esemplari in base a determinate caratteristiche decorative dei sarcofagi e agli attributi in cera.

Osiride e il grano

Gli elementi regali e il ricorrere, sui sarcofagi, di iscrizioni recanti il nome di Osiride e i suoi epiteti Khenty-Imentit e Wennefer hanno portato all’interpretazione delle corn-mummies come rappresentazioni del dio dei morti.
Inoltre, le necropoli identificate come contesti di provenienza di corn-mummies (Tehne, Meydum, El-Sheik Fadl, Tuna el-Gebel and Wady Qubbanet el-Qirud) mostrano la presenza, in epoca tarda, di attività cultuali dedicate ad Osiride.
Un’analisi approfondita delle scene rappresentate, degli attributi, dei colori e dei materiali utilizzati ha dimostrato come ogni dettaglio del processo di realizzazione delle figurine fosse stato pensato per perseguire due obiettivi: rievocare l’idea di fertilità e proteggere il dio nel suo processo di rinascita.
I cereali, componente essenziale delle corn-mummies, rappresentano la metafora più immediata del ciclo di vita e morte della natura, assumendo connotazioni simboliche associate ad Osiride, in ambito funerario, sin dal Nuovo Regno: esemplari al riguardo sono i cosiddetti “letti di Osiride” (foto in basso), sagome lignee che riproducono la forma del dio di profilo, all’interno delle quali era fatto germogliare il grano. Sono stati rinvenuti principalmente in contesti funerari e un esempio celebre proviene dalla tomba di Tutankhamon.
Le indagini archeobotaniche hanno dimostrato che i semi presenti negli impasti delle corn-mummies appartengono ad una specie di orzo (Hordeum vulgare) coltivata in Egitto sin dal Neolitico e comunemente presente in contesti funerari, in forma di collane vegetali disposte sulle mummie, a simboleggiare la rinascita del defunto, oppure germogliato per scopi rituali connessi al culto di Osiride.

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“Letto di Osiride”, XVIII dinastia, dalla tomba di Maiherpera (KV36), Museo Egizio del Cairo (CG 24061)

Il Festival di Khoiak

Il rituale in cui le corn-mummies dovevano essere presumibilmente realizzate e utilizzate sembra richiamare il contesto culturale del “festival di Khoiak”.
Questa festività prende il nome dal quarto mese della stagione dell’inondazione (Akhet), in cui le celebrazioni in onore di Osiride avevano luogo in tutto il regno, dal 12° al 30° giorno del mese. Era in questo periodo che la piena del Nilo arretrava e le colture iniziavano a germogliare.
Da un’originaria chiave di lettura essenzialmente agricola del festival, che sarebbe stato volto ad assicurare la fertilità dei campi attraverso l’identificazione tra Osiride e il grano, si è gradualmente posto l’accento, negli studi più recenti, sul valore simbolico del mito osiriaco e della sua commemorazione, il cui scopo sarebbe stato celebrare la vita e preservarla, attraverso il mantenimento dell’ordine cosmico durante il ciclo annuale della natura.
Noto sin dal Medio Regno (vi fanno riferimento numerose stele private datate a quest’epoca), il festival è tuttavia descritto nel dettaglio soltanto in fonti tarde.
Essenziali per la comprensione delle varie fasi del rito sono i testi riportati nel tempio di Hathor a Dendera, datati all’epoca romana. Alcuni passi riportano istruzioni specifiche sui tempi, i materiali e le modalità da adottare per la creazione di figurine di Khenty-Imentit, otre che di Sokar e delle “Membra Divine” (spy-nTr).

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“Mattone di Osiride”, Epoca Tarda, British Museum (EA 54364)

In tale ambito, le corn-mummies sono state spesso associate ai “mattoni di Osiride” (foto a destra), chiamati così per la forma, il materiale e le dimensioni analoghe a quelle dei mattoni da costruzione. Essi presentano una cavità centrale che richiama la forma del dio di profilo e costituiscono probabilmente un’evoluzione tarda dei “letti di Osiride” precedentemente citati.
Sebbene in passato fossero stati interpretati come matrici per la creazione di figurine, la presenza di lino, terra e semi germogliati nelle cavità di alcuni esemplari (foto in basso), nonché il loro rinvenimento negli stessi contesti archeologici delle corn-mummies, ha portato a concludere che i “mattoni di Osiride” siano in realtà veri e propri oggetti votivi. Contemporanei o di poco anteriori alle corn-mummies, come quest’ultime dovevano essere realizzati annualmente e ritualmente sepolti.
In realtà, numerose incongruenze e ambiguità si presentano nel confronto tra il dato archeologico e quello testuale, tali da portare a dubitare dell’effettiva identificazione delle corn-mummies con le figurine di Khenty-Imentit di cui parlano i Testi di Dendera.
Il quadro è ulteriormente complicato dal rinvenimento di sepolture di altre figurine di Osiride realizzate in diversi materiali, probabilmente connesse con la partecipazione pubblica e personale del popolo alla ritualità del festival e al culto della divinità.
Se è possibile che queste incongruenze siano dovute alle naturali differenze tra teoria letteraria e pratica, l’effettiva complessità prospettata dall’analisi e la combinazione di tutte le fonti archeologiche, iconografiche e testuali potrebbe anche suggerire la presenza di varianti locali nella celebrazione del festival e del culto, ulteriormente evolutesi nel corso del tempo.
Resta indubbio, in ogni caso, il coinvolgimento delle corn-mummies in un rituale volto alla rigenerazione di Osiride, con il quale esse condividevano lo stesso destino di “morte” e “resurrezione”, attraverso cui poteva essere assicurato il continuo rinnovamento della Ma’at.

Maria Linda Pessolano

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“Mattone di Osiride”, Epoca Tarda,  Metropolitan Museum di New York (20.2.30)

 

BREVE BIBLIOGRAFIA

  • Centrone, M. C. 2007. Corn-mummies: a case of “figuring it out”, in Goyon, J. and Cardin, C. Proceedings of the ninth International Congress of Egyptologists, Grenoble 6-12 September 2004. Leuven: Peeters, pp. 293-301.
  • Centrone, M. C. 2006. Corn-mummies, amulets of life, in Szpakowska, K. Through a glass darkly: Magic, Dreams and Prophecy in Ancient Egypt. Swansea: Classical Press of Wales, pp. 33-45.
  • Raven, M. J.; Wasylikova, K.; Jankun, A.; Klosowska, A. 1997. Four Corn-Mummies in the Archaeological Museum at Cracow; Identification of barley from the Ancient Egyptian corn-mummies in the Archaeological Museum in Cracow; The Conservation and Technical Examination of Three Corn-Mummies at the Archaeological Museum in Cracow, in Materiały Archeologiczne vol. XXX. Cracovia, pp. 5-23.
  • Teeter, E. 2012. Religion and ritual in ancient Egypt. Cambridge, Mass: Cambridge Univ. Press.
    Tooley, A. M. J. 1996. Osiris Bricks,  in JEA 82, no. 1. Londra: Egypt Exploration Society, pp. 167-79.
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Annunciate due scoperte casuali: una tomba ad Alessandria e una statuetta di Osiride a Saqqara

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Source: MoA

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Source: MoA

Alessandria d’Egitto, con oltre 4 milioni di abitanti, è la seconda città più popolosa del Paese ed è in continua espansione. Il fatto che il moderno abitato coincida in molte parti con l’antica capitale ellenistica e con le sue aree di sepoltura fa sì che spesso ci siano fortuite scoperte archeologiche durante lavori edili. Ed è notizia di oggi, ad esempio, il ritrovamento di una tomba di età tolemaica (332-30 a.C.) nello scavo delle fondazioni di un nuovo palazzo nel quartiere di Sidi Gaber, a pochissimi chilometri dalla Bibliotheca Alexandrina. A una profondità di 5 metri, è riaffiorato un enorme sarcofago in granito nero, forse il più grande mai scoperto in città (altezza: 185, lunghezza: 265, larghezza: 165 cm). La presenza di uno strato di malta tra il coperchio e il corpo della bara fa pensare che non sia stata ancora aperta e che contenga i resti del defunto, forse ritratto nella testa in alabastro ritrovata nella tomba (immagine a sinistra).

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Source: MoA

Sempre oggi è stata annunciata un’altra scoperta casuale, effettuata durante i lavori di restauro della Piramide di Djoser a Saqqara. In un foro alla base della facciata occidentale del monumento, si trovava una statuetta in bronzo raffigurante Osiride, alta 63 cm e con ancora resti dello smalto che la ricopriva. L’oggetto rappresenta il dio nella sua classica foggia mummiforme, con braccia incrociate a tenere lo scettro heqa e il flagello nekhekh e con la corona atef. Secondo Sabri Faraj, direttore generale dell’area di Saqqara, si tratterebbe di un ex voto fatto da un sacerdote in Epoca Tarda (664-332 a.C.).

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Scoperta rara testa di Marco Aurelio in Egitto

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Source: MoA

A Kom Ombo è stato rinvenuto un ritratto in marmo dell’imperatore romano. Altra importante scoperta a Karnak, dove è stata riportata alla luce una cappella dedicata ad Osiride

Quando si parla di Karnak, il più esteso complesso templare al mondo che si trova nell’attuale città di Luxor, si è soliti pensare solo ai tre santuari maggiori dedicati alla triade tebana: Amon, Mut e Khonsu. In realtà, basterebbe uscire di poco dai consueti percorsi turistici e addentrarsi nei campi inclusi nella cinta in mattoni crudi per capire quanti fossero i templi minori e i piccoli sacelli disseminati nell’area. Tra questi isolati edifici di culto, alcuni furono costruiti per Osiride nella zona nord-est del recinto di Amon tra la XXV e la XXVI dinastia (VIII-VI sec. a.C.; lo studio di questi edifici è attualmente affidato al team francese dell’IFAO e del CFEETK).

Tuttavia, la missione diretta da Essam Nagy ha recentemente individuato una cappella osiriaca in un nuovo settore, a sud del X pilone (il grande portale fatto costruire da Merenptah per chiudere l’asse N-S del tempio principale), tra il Viale delle Sfingi e il passaggio che unisce il Tempio di Amon con il Tempio di Mut. Secondo quanto riferito dal segretario generale del Supreme Council of Antiquities, Aiman Ashmawy, gli archeologi egiziani hanno quindi scoperto i resti di un edificio consacrato a Osiride-Ptah-Neb-Ankh, che conserva ancora ingresso, basi di colonne, muri interni di tre sale e la pavimentazione in calcare.

La cappella, rientrando perfettamente nel programma edilizio dedicato al dio dei morti tra la fine del III Periodo Intermedio e l’inizio dell’Epoca Tarda, vede i nomi degli ultimi due re della dinastia dei “faraoni neri”: Taharqa (690-664 a.C.) e Tanutamani (664-653). Tra i reperti rinvenuti, oltre a numerosi vasi di ceramica, spiccano la base di una statuetta seduta in trono e un frammento di stele con gli animali associati ad Amon, l’anatra e l’ariete, e il disco solare simbolo della sua assimilazione con Ra.

Inoltre, nello stesso dispaccio del Ministero delle Antichità, è stata annunciata un’altra scoperta effettuata circa 150 km più a sud. A Kom Ombo, nei pressi del tempio tolemaico dedicato in particolare al dio coccodrillo Sobek, è stata recuperata la testa in marmo di Marco Aurelio (161-180 d.C.). Il ritratto, rarissimo per l’Egitto, è riconoscibile dalla barba e dai folti capelli ricci che caratterizzano l’imperatore filosofo. In questo caso, però, il ritrovamento non è frutto di uno scavo archeologico, bensì il risultato casuale dei lavori di drenaggio della falda freatica, partiti lo scorso settembre per proteggere il tempio dalla risalita dell’acqua dal suolo.

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MOSTRA: “Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano” (Museo Egizio di Torino)

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La scorsa settimana sono tornato al Museo Egizio di Torino e, con l’occasione, ho visitato la tanto attesa mostra “Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano”. Non a caso, come prima tappa del progetto “Egitto-Pompei”, l’esposizione, in poco più di due mesi dall’inaugurazione (5 marzo), ha raggiunto le 80.000 presenze per merito di un’intelligente campagna pubblicitaria e un argomento molto in voga negli ultimi anni: l’influenza dell’Egitto sulle culture del Mediterraneo e, in particolare, sul mondo romano. Come è chiaro dal titolo, l’attenzione è focalizzata sui siti campani che, come vedremo, sono stati i primi in Italia ad accogliere culti nilotici. Il visitatore si trova a compiere un viaggio dall’Egitto faraonico alla Roma imperiale, passando dall’Alessandria tolemaica e dalla Grecia arcaica e classica, attraverso più di 300 reperti provenienti da 20 musei italiani e stranieri (tra cui, 40 dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e 10 dal Museo del Sannio) esposti nei nuovi spazi al terzo piano (circa 600 m²) intitolati alla memoria di Khaled al-Asaad. Appare ovvio che un percorso del genere non sia sempre così facile da comprendere; d’altronde, nemmeno i Romani capirono a pieno l’essenza dei culti che avevano recepito dall’Oriente. Per questo, conviene prepararsi alla visita, leggere bene le didascalie e le citazioni riportare sui muri e concentrarsi più sul complesso che sul singolo reperto. Io ho avuto la fortuna di contare sulla presenza dei curatori della mostra, i dott.ri Federico Poole e Alessia Fassone, che hanno gentilmente fornito interessanti informazioni sull’organizzazione e sulle scelte a monte dell’esposizione.

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Sala 1: L’Egitto e il mondo greco

Il percorso inizia con una sala piuttosto eterogenea per temi trattati e reperti esposti. Si tratta di un’introduzione che spiega i primi contatti, commerciali e culturali, tra l’Egitto e l’area dell’Egeo e il resto del Mediterraneo a partire dalle influenze minoiche riscontrate in una giara scoperta a Deir el-Medina fino agli aegyptiaca ritrovati nelle tombe italiche durante il “periodo orientalizzante” (VIII-VI sec.). Ciò che salta subito all’occhio è l’accostamento del cosiddetto Apollo Milani e una statua di faraone/dio di età tolemaica che da un lato evidenzia le somiglianze formali tra la statuaria egiziana e quella greca arcaica, dall’altro ne sottolinea le profonde differenze ideologiche. Il resto delle sculture presenti serve a sfatare un luogo comune che persiste dai tempi di Platone secondo cui l’arte egizia è sempre stata uguale per millenni.

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Sala 2: Osiride, Iside e la leggenda osiriaca

La principale causa della presenza di oggetti egiziani o egittizzanti in contesti romani è l’adozione nel pantheon classico di Iside e altre divinità nilotiche. Così, nella seconda sala, la più prettamente egittologica, vengono presentati i miti religiosi originali prima che fossero modificati dall’interpretatio graeca e romana. Troverete quindi statue della triade Iside-Osiride-Horus e papiri che illustrano il loro ruolo nell’immaginario egiziano (nella foto, il Libro dei Morti di Hor, XXVI din.), oltre a un sarcofago di XXI dinastia decorato con scene cosmogoniche. Presente anche uno dei capolavori del Museo Egizio, la statua di Iside-Hathor da Coptos che, di solito, dà il benvenuto ai visitatori al piano interrato, ma che è stata temporaneamente sostituita dall’Iside Pelagia da Pozzuoli, troppo pesante per il pavimento soppalcato del 3° piano.

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Sala 3: Serapide e Iside

Come anticipato, l’Egitto conosciuto dai Romani era quello tolemaico di Alessandria e gli oggetti che arrivarono nella penisola italica risultano spesso decontestualizzati e mal interpretati. Gli stessi dèi subirono una trasformazione che li adattò alla cultura d’adozione e li identificò con figure olimpiche. Abbiamo così gli accostamenti di Iside con Afrodite o con Fortuna, di Anubi o Thot con Hermes, di Amon con Giove, di Arpocrate con Eros ecc. Il simbolo di questo sincretismo, che testimonia un’apertura mentale maggiore rispetto ai moderni monoteismi, è Serapide, dio creato ‘a tavolino’ da Tolomeo I per fondere la tradizione egiziana con la nuova componente greca e che, non a caso, ebbe templi consacrati in tutto l’impero. La quarta sala -la più interessante secondo me- illustra proprio l’evoluzione di questi culti che, diventati misterici, arrivarono intorno alla fine del II sec. a.C. nei siti costieri campani come Pozzuoli e Cuma.

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Sala 4: L’Iseo di Benevento

Più tarda, invece, è l’attestazione della venerazione di Iside a Benevento dove probabilmente si trovava uno degli isei più importanti fuori dall’Egitto. Il condizionale è d’obbligo perché l’edificio non è mai stato individuato, ma la sua presenza nel Sannio è nota già nel 1826, quando Champollion in persona tradusse i geroglifici di due obelischi ritrovati in zona. Il testo, infatti, dice che il tempio fu costruito nell’88-89 per celebrare la vittoria in Dacia di Domiziano (forse rappresentato come faraone nella statua a sinsitra). Iside era diventata la divinità tutelare della dinastia flavia e il ritrovamento in zona di diverse statue importate dall’Egitto (sfingi, sacerdoti, Thot cinocefalo, Osiride-Canopo, Iside Pelasgia, Horus, toro Api) ne attesta l’importante ruolo diventato politico. La particolarità del santuario, che lo discosta dagli altri isei/serapei, sta nell’apparato decorativo che non è tipicamente romano, ma s’ispira a quello tradizionale egiziano.

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Sala 5: Il culto di Iside a Pompei

Infatti, l’iseo di Pompei, ad esempio, perse tutte le caratteristiche egiziane. Il tempio, scoperto nel 1764, sia nell’architettura che nella decorazione, può essere considerato pienamente romano, come si vede dalla scena in alto che si riferisce al mito di Io accolta da Iside a Canopo (affresco asportato dal cosiddetto ekklesiasteiron). Lo stato attuale dell’edificio risale agli interventi del liberto Numerio Popidio Ampliato che lo fece ricostruire completamente dopo il terremoto del 62 d.C., ma il nucleo originario è collocabile intorno al 100 a.C. Dal culto pubblico, si passa poi a quello privato attestato dal ritrovamento di un centinaio di statuine in bronzo o argento di Iside, Serapide, Arpocrate, Bes e Anubi che erano poste nei larari, piccoli tempietti domestici presenti in quasi tutte le case di Pompei.

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Sale 6, 7, 8: La Casa del Bracciale d’Oro, la Casa di Octavius Quartius e altre domus pompeiane

Tuttavia, nella città vesuviana, l’Egitto non era legato solo alla sfera religiosa. Oggetti egittizzanti o scene nilotiche esprimevano una vera e propria egittomania scoppiata dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C. Sfingi, coccodrilli, pigmei diventarono semplici espedienti per rendere più esotica la propria dimora (come le statue poste ai lati del lungo canale nel giardino della Casa di Octavius Quartius; a destra nella foto) ma anche un simbolo propagandistico, in età augustea, per la celebrazione della conquista di un nuovo territorio. A quest’ultimo caso si riferiscono le splendide pitture del triclinio estivo della Casa del Bracciale d’Oro (a sinistra) che, pochi giorni fa, sono state raggiunte da un altro affresco con sfingi tornato in Italia -insieme a una rara statua di Hermes-Anubi da Cuma- dopo essere stato esposto a Madrid nella mostra “Cleopatra y la fascinación de Egipto”.

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Sala 9: Iside in Piemonte. Il sito di Industria

Il percorso termina chiudendo idealmente un circolo con il ritorno a Torino o, per la precisione, a 30 km dal capoluogo piemontese. L’ultima sala, infatti, è dedicata al sito di Industria, nell’attuale Monteu da Po, colonia romana fondata nel 124-123 a.C. L’insediamento era dedito al commercio e alle attività artigianali, in particolare alla lavorazione del bronzo. Qui, la presenza di numerosi bronzetti a tema egittizzante è stata spiegata con la scoperta, nel 1809, di un Serapeion di età augustea-tiberiana restaurato sotto Adriano.  Il tempio è stato identificato grazie ad alcune fonti epigrafiche, come una lastra bronzea del II sec. d.C. (a sinistra il rilievo) dedicata a Lucius Pompeius Herennianus, patrono del collegio dei pastophoroi (i sacerdoti preposti al culto di Iside).

 

 

 

Detto questo, consiglio caldamente di visitare la mostra perché, al di là del mio interesse personale per l’argomento, illustra con chiarezza le dinamiche che hanno portato la società romana a inglobare aspetti della cultura faraonica e, di conseguenza, spiega come mai tanti musei nostrani espongano reperti egizi o egittizzanti ritrovati in Italia. Avete tempo fino al 4 settembre (prorogata fino al 2 ottobre): http://www.museoegizio.it/nilo-pompei/

(Ringrazio Liliana Coviello per le foto)

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Elefantina, le stelle di David sono autentiche

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Source: elde26.wix.com

Come previsto, la vicenda del blocco  asportato da Elefantina perché recante due “stelle di David” si è chiusa con una figuraccia delle autorità egiziane.

Il comitato scientifico, composto dal ministro delle Antichità Khaled El-Enany, dal dir. gen. delle Antichità Nubiane Nasr Salama, dal dir. gen. dell’area di Assuan Ahmed Saleh, dal dir. gen. del Museo Copto Atef Nagib Hanna, dall’ispettore delle Antichità Islamiche di Assuan Aladin Suleiman e dal direttore della missione svizzero-tedesca (accusata delle incisioni) Cornelius von Pilgrim, ha stabilito che le stelle sono autentiche e che dovrebbero risalire al VI sec. d.C. o prima. Seguiranno ulteriori studi per giungere a una datazione più precisa.

Il blocco incriminato (Y44) era stato scoperto già nel 1985 e, diversamente da quanto riferito in precedenza, apparteneva al “Tempio Y”, consacrato in epoca romana a Osiride Nesmeti, figlio di Khnum. La struttura comprendeva un naos di 6 x 9 metri e un pronao di 5 x 9 m con interventi decorativi riconducibili a diversi imperatori romani (Nerone, Vespasiano, Domiziano, Traiano). Dell’edificio originale, però, non restano che i blocchi riutilizzati intorno al VI-VII secolo d.C per la realizzazione del muro di un molo lungo la costa N-E dell’isola. Per questo, la missione svizzero-tedesca sta lavorando alla sua ricostruzione dal 2011.

http://www.christianubertini.net/en/pages/works/2002_ty_en.html

http://www.rug.nl/research/portal/files/2921163/c10.pdf

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“Gods of Egypt” (blooper egittologici)

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Per la prima volta da quando è nato questo blog, sono andato al cinema appositamente per scrivere un articolo da inserire nella rubrica Blooper egittologici: non avrei potuto scegliere occasione peggiore. “Gods of Egypt”, infatti, va dritto sul podio delle più brutte opere finora recensite, seppur non riuscendo a superare il primato assoluto che, in extremis, rimane a “The Pyramid”. E il fatto che non abbia potuto apprezzare a pieno tutte le potenzialità del film – nella mia città non era disponibile la versione in 3D – non fornisce di certo alcuna attenuante. Proprio per l’insolita genesi di questo post, esprimerò le mie reazioni a caldo senza soffermarmi sui particolari e utilizzerò immagini prese dalle pagine social ufficiali della pellicola.

CTtf7TtUwAApGdw.jpgIl film, diretto da Alex Proyas (“Il corvo”, “Io, Robot”), partiva con grandi ambizioni grazie a un budget di 140 milioni di dollari e a una pressante campagna pubblicitaria, cavalcando una moda egittomaniaca che sembra aver contagiato il grande e il piccolo schermo negli ultimi due o tre anni (“Exodus”, “The Pyramid”, “Notte al museo – Il segreto del faraone”, “Tut”). Nonostante ciò, negli USA, gli incassi sono stati veramente scarsi e, in Inghilterra, è probabile che sarà rilasciata solo la versione in DVD. Inoltre, ancor prima dell’uscita nelle sale, il regista è stato costretto a scusarsi per la scelta di un cast troppo ‘caucasico’; polemiche del genere sono frequenti nei film che trattano di Egitto antico, ma, questa volta, si è decisamente esagerato visto che gli attori di colore sono solo due – con parti marginali, per giunta – e quelli bianchi hanno tratti tutt’altro che mediterranei. Fra l’altro, sembra che nella versione originale Gerard Butler, il villain della situazione, non si sia nemmeno sforzato di mascherare il suo accento scozzese.

La storia racconta di un giovane principe che lotta per il suo legittimo trono e vendica la morte del padre sconfiggendo il malvagio zio che si era appropriato della corona. No, non è il Re Leone ma una libera, molto libera, reinterpretazione del mito di Horus e Seth, arrivato fino a noi attraverso diverse versioni che, come vedremo, si discostano tutte dalla sceneggiatura del film. Siamo in un periodo fantastico in cui uomini e dèi vivono insieme nella Valle del Nilo. Effettivamente, all’inizio del “Canone Regio” di Torino (il papiro con un’importantissima lista dei faraoni redatta probabilmente sotto Ramesse II), sono indicati proprio Ptah e altre divinità al governo del Paese; il problema è che, in “Gods of Egypt”, le uniche differenze che questi esseri mitici hanno con le normali persone sono una maggiore altezza (avranno preso spunto dalla particolare scala gerarchica dell’arte egizia che, di solito, viene sfruttata come ‘prova’ dai fantarcheologi convinti dell’esistenza dei giganti) e la possibilità di trasformarsi. Quest’ultima caratteristica è forse la cosa peggiore del film: gli dèi sono tutti antropomorfi, ma possono acquisire i loro connotati zoomorfi con una specie di armatura da Cavalieri dello Zodiaco che spunta con effetti degni della prima serie dei Power Rangers. Per di più, Horus & Co. sono tutti mortali; d’accordo, la mitologia egizia dice che Osiride muore per mano di Seth, ma, qui, gli dèi possono rimetterci le penne anche precipitando dall’alto, schiacciati dalle macerie, avvelenati da serpenti, bruciati dal fuoco e perfino di vecchiaia dopo 1000 anni. In pratica, abbiamo poco più di supereroi con qualche potere speciale. La stessa CGI che ‘veste’ i protagonisti è stra-abusata per la creazione di un’ambientazione da parco tematico che sembra essere stata partorita dallo stesso scenografo del video “Dark Horse” di Katy Perry. Gli attori avranno passato mesi a recitare davanti a pannelli verdi e, se sono vere le proprietà psicologiche di quel colore, almeno avranno stemperato in parte lo stress dovuto alla partecipazione a un flop clamoroso. L’Egitto così rappresentato è il trionfo trash dell’oro, presente anche, se non bastasse già quello spalmato ovunque, nelle vene degli dèi. Dalle loro ferite, infatti, sgorga il prezioso metallo fuso rifacendosi, almeno per una volta, alla tradizione faraonica che vede le membra divine fatte proprio d’oro (ed è l’unica cosa che ho apprezzato in 127 minuti). Inutile, poi, analizzare l’attendibilità di edifici che appartengono a un mondo parallelo, a un universo fantasy glitterato in cui piramidi spuntano su isole nel Nilo e un obelisco supera i 1.100 metri (il grattacielo più alto oggi arriva a 828).

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Tornando alla storia, Osiride – che assomiglia al Re di cuori delle carte francesi – vorrebbe cedere il trono al giovane figlio Horus (Nikolaj Coster-Waldau), ma il fratello Seth (Gerard Butler) lo uccide insieme a Iside, strappa entrambi gli occhi al nipote e rende schiavi dèi e uomini. Il breve combattimento tra Horus e Seth è, senza esagerare, la fotocopia della scena di “300” in cui Leonida, qui con barba un po’ più corta e lustrini a coprire il petto, si lancia contro i Persiani con alternanza di rallenty e fast motion. In realtà, il mito narra che l’invidioso Seth sigilla con uno stratagemma il fratello in una bara e lo fa annegare, per poi trucidarlo e sparpagliarne i pezzi lungo il Nilo. Iside, dea anche della magia, riesce a recuperare tutti i brandelli del cadavere dello sposo a eccezione del pene – sostituito con un membro posticcio -, ricomporli e ad avere un rapporto sessuale con il cadavere di Osiride. Solo in questo momento viene concepito Horus che, quindi, non era ancora nato alla morte del padre. Il dio falco viene nascosto da Iside durante la giovinezza e poi perde SOLO un occhio durante lo scontro con Seth, prima di compiere la sua vendetta e prendersi il trono dell’Egitto (particolarmente interessante è la versione del Papiro Chester Beatty I in cui i due si contendono la corona di fronte a un vero e proprio tribunale con tentativi di depistaggio, inganni, liti, prove da superare e perfino scene prossime al porno).

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Nel film, invece, Horus, ormai cieco, è esiliato da Seth nel deserto dove viene contattato da un giovane ladro, Bek (Brenton Thwaites), che si propone di recuperare i suoi occhi in cambio della liberazione della ragazza, Zaya (Courtney Eaton). La giovane, infatti, è diventata la schiava dell’architetto di Seth ed è così in grado di arrivare ai progetti dei magazzini dove sono custoditi gli udjat. In questi sotterranei, Zak supera con la massima scioltezza diverse trappole mortali, in un misto tra “Indiana Jones” e “Prince of Persia”, ma riesce a prendere un solo occhio. Intanto, Zaya viene uccisa e, accompagnata da Anubi, arriva quasi al giudizio dell’anima durante il quale, a differenza di quello che si legge nel capitolo 125 del Libro dei Morti, si salvano solo i ricchi i cui tesori pesano più della piuma di Maat. A questo punto, c’è bisogno dell’aiuto del dio supremo Ra (Geoffrey Rush), che vive in una specie di stazione orbitante oltre l’atmosfera terrestre e che combatte, giorno dopo giorno, contro il serpente del caos Apofi (praticamente il Nulla de “La Storia Infinita” con la bocca di un Tremor). Horus e Bek raggiungono quest’astronave attraversando uno Stargate (come avete notato, il film è permeato da un continuo, fastidioso senso di déjà-vu che aggrava la scarsa originalità della storia) e prendono un’ampolla di un’acqua sacra da versare nel pozzo che va al centro del mondo, fonte del potere di Seth (anche questo non vi ricorda qualcosa?). Per arrivare alla meta, però, Horus e Bek, con l’aiuto del saggio Toth, risolvono perfino l’enigma della Sfinge. Peccato che questa caratteristica del leone a testa umana sia stata introdotta solo con Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) nel mito di Edipo. In ogni caso, saltando un’altra inutile mezz’ora di girato, si va verso lo scontro finale tra Horus e Seth che combattono con lance laser alla “Star Wars” e allo scontatissimo finale che non vi anticipo.

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Il giudizio complessivo del film, pur volendo soprassedere sulla visione completamente distorta dell’antico Egitto e della sua religione, è ovviamente molto negativo. Per tutto ciò che ho scritto in precedenza, sconsiglio a chiunque di perdere tempo a guardarlo, nemmeno con l’ottica di farsi due risate con gli amici perché, nonostante sia un blockbuster uscito male, “Gods of Egypt” si prende sul serio mancando di una qualsiasi traccia di ironia o, soprattutto, di autoironia. Dal lato opposto, non c’è nemmeno l’epicità che ci si aspetterebbe da una storia mitologica. Le scene si susseguono velocemente senza pathos o suspense (Es. Horus: “Ra, ti prego, aiutami, non riesco a trasformarmi senza entrambi gli occhi”; un secondo dopo, puff, ecco l’armatura) e non sembrano nemmeno legate tra loro; i combattimenti sono troppo brevi; le altre scene d’azione sono stereotipate, per non dire scopiazzate altrove; tutte le reazioni sono innaturali; la sensualità dell’unica situazione ‘scabrosa’ è pari a quella di una soap argentina. In più, la computer grafica è veramente oppressiva e mal impiegata, soprattutto quando – e qui c’è voluto occhio – ci si accorge che alcune piramidi galleggiano senza un contatto fisico con la sabbia sottostante.

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Uno strano amuleto egittizzante scoperto a Cipro

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Source: livescience.com

La notizia non è recentissima perché la scoperta risale al 2011 e la pubblicazione (“Studies in Ancient Art and Civilization” n°17) al 2013, ma l’ho letta solo pochi giorni fa e mi è sembrata interessante. Gli archeologi polacchi diretti da Ewdoksia Papuci-Wladyka (Uniwersytet Jagielloński, Cracovia) hanno trovato nell’acropoli di Nea Paphos, Cipro sudoccidentale, un amuleto con elementi egittizzanti di 1500 anni fa. Si tratta di un ovale in siltite (39 x 41 x 4 mm) inciso su entrambi i lati. Su una faccia, si legge una formula palindroma in greco che dice:

ΙΑΕW  ΒΑΦΡΕΝΕΜ  ΟΥΝΟΘΙΛΑΡΙ  ΚΝΙΦΙΑΕΥΕ  ΑΙΦΙΝΚΙΡΑΛ  ΙΘΟΝΥΟΜΕ  ΝΕΡΦΑΒW  ΕΑΙ

“Yahweh è il portatore del nome segreto, il leone di Ra sicuro nel suo tempio”

Sull’altra, invece, troviamo una strana rappresentazione schematica di temi egiziani con Osiride mummificato sopra una barca, Arpocrate, il dio bambino riconoscibile dal dito portato alla bocca, seduto in trono, un altro personaggio indicato dall’autore dello studio come cinocefalo e figure animali (coccodrillo, gallo e serpente) e astronomiche (luna e stella). Durante il V-VI secolo, nell’Impero Romano d’Oriente, il Cristianesimo era già la religione ufficiale, ma le tradizioni pagane erano ancora radicate nei culti domestici creando la commistione di fedi che è evidente dall’amuleto che aveva un valore apotropaico. Chi ha realizzato l’oggetto, però, non doveva conoscere a pieno i temi egiziani, tanto da rielaborarli in modo errato. Infatti, oltre ad aver commesso un paio di sviste nel testo, ha posto Arpocrate su un trono, quando di solito è rappresentato su un fiore di loto, e ha decorato il suo corpo, come del resto quello del “cinocefalo”, con le stesse bende che avvolgono il cadavere di Osiride.

Per maggiori informazioni sulla missione: http://www.paphos-agora.archeo.uj.edu.pl/

 

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Luxor, scoperta riproduzione della tomba di Osiride

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@Paolo Bondielli

Buon 2015 a tutti! E’ solo il 1° Gennaio, ma partiamo subito con una bella notizia! La Missione Canario-Toscana, diretta da Mila Álvarez Sosa e da Irene Morfini, ha scoperto una riproduzione della tomba di Osiride. Già lo scorso anno, la squadra del “Min Project”, progetto nato per lo studio e la pubblicazione della tomba TT109 e della sua estensione inedita, Kampp -327-, nella necropoli di Sheikh Abd El-Qurna (Tebe Ovest), aveva individuato una tomba di XVIII dinastia.

L’ultima campagna di scavo ha rivelato quanto proprio la Kampp -327- sia complessa. Dopo una sala ipostila trasversale, si scende nella roccia con una scalinata verso una cappella con l’immagine di Osiride (vedi foto). L’ambiente e coperto da una volta a botte ed è circondato da un corridoio che rappresenta il canale d’acqua dell’Osireion di Abido. Di fronte alla statua, si apre un pozzo che, dopo 9 metri, porta a una camera con un secondo pozzo di 6 m che raggiunge il punto più profondo della struttura. Nel lato ovest del corridoio, invece, c’è un terzo pozzo di 7 m che raggiunge due stanze vuote sui lati N e S e, ancora più giù, due ambienti pieni di detriti sull’asse E-O, di cui almeno quello orientale è una camera funeraria decorata da rilievi con demoni e divinità tutelari.

La presenza di un simile sacrario serviva a identificare il defunto con Osiride ed è una caratteristica tipica delle sepolture di XXV-XXVI din. della necropoli dell’Assasif (come quella di Harwa, TT37), particolare che permette di datare la tomba.

 

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Karnak, scoperte tre statuette di Epoca Tarda

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Source: Luxor Times Magazine

Dopo la sfinge di qualche giorno fa, gli archeologi del Centre Franco-Égyptien d’Étude des Temples de Karnak hanno effettuato ulteriori ritrovamenti. Tra i reperti scoperti più interessanti, spiccano tre statuette di Epoca Tarda. Le prime due sono in bronzo e rappresenta Osiride seduto in trono con corona bianca (alta 36 cm) e stante (15 cm). La terza (16 cm), invece, potrebbe essere stata realizzata in scisto e raffigura la dea Mut seduta con parrucca e doppia corona (vedi immagine).

http://www.cfeetk.cnrs.fr/index.php?page=decouverte-decembre-2014-ptah

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