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“Moon Knight”: la spiegazione di tutti i riferimenti all’antico Egitto

Con il sesto e ultimo episodio, mercoledì scorso si è conclusa su Disney+ la nuova miniserie Marvel “MOON KNIGHT” che, così come il fumetto da cui trae ispirazione, attinge ampiamente a storia, archeologia e religione dell’antico Egitto. In questo articolo proverò a spiegare tutti i riferimenti egittologici, ma se ne avete individuati altri, segnalatemeli nei commenti! Di conseguenza ci saranno spoiler, quindi consiglio caldamente a chi non ha visto l’intera serie di tornare più tardi o al massimo leggere il pezzo relativo ad ogni puntata.

Devo ammettere che, fino al lancio dei primi trailer, non conoscevo l’esistenza di un supereroe che deve i suoi poteri a una divinità egizia, così mi sono documentato leggendo qualche albo che lo riguarda, in particolare la raccolta “Lunatico”, con i numeri del 2016 di Greg Smallwood e Jeff Lemire. In realtà, la prima apparizione di Moon Knight risale addirittura al 1975 come antagonista in “Werewolf by Night”, ma, grazie all’apprezzamento dei lettori, intensificò la sua presenza in fumetti di personaggi più famosi, fino ad ottenere una serie personale dal 1981. Molto brevemente, il Cavaliere della Luna è l’alterego (uno dei tanti, come vedremo) di Marc Spector, mercenario americano che, in fin di vita, viene salvato dal dio Khonshu al quale consacra la sua esistenza come protettore dei viaggiatori della notte. Ma caratteristica principale del personaggio è la coesistenza di diverse identità che, nel corso degli anni, sfocerà in una psiche frammentata e in un disturbo della personalità multipla. Fino alla fine, infatti, non sarà chiarò se quello che stiamo vedendo sia l’effettiva realtà o una proiezione della mente malata del protagonista.

Già dall’evento scatenante, gli intrecci con la civiltà nilotica sono continui e cose di cui parlare quindi ce ne sono molte. La serie – affidata fra l’altro a un regista egiziano, Mohamed Diab – si è avvalsa della consulenza di un egittologo, Zoltán Horváth del Museo di belle arti di Budapest, ma non per questo è scevra da errori. Alcune sviste dipendono dall’aderenza al fumetto, altre per evidenti scelte di marketing, altre ancora dal fatto che nessuna scena, come spesso accade, è stata girata in Egitto. Ma è apprezzabile l’utilizzo dell’antica lingua egizia per alcune delle invocazioni del villain Arthur Harrow (Ethan Hawke). C’è infine da sottolineare che Oscar Isaac, l’ottimo attore che impersonifica Moon Knight, ha già curiosamente ricoperto un ruolo “egizio” per la Marvel nel film “X-Men – Apocalisse“.

1° Episodio – Il dilemma del pesce rosso

A sinistra: il museo in cui lavora Steven; a destra: la vera facciata del British Museum

Steven Grant è un commesso del bookshop di un museo archeologico di Londra. Seppur non venga direttamente citato, è chiaro ci si riferisca al British Museum che conserva una delle collezioni egizie più importanti in assoluto. Tuttavia, la serie è stata girata nel Museo Nazionale Ungherese a Budapest, la cui facciata neoclassica si avvicina molto a quella del British.

Il vero Colosso di Ramesse II al British Museum (destra) e la riproduzione nella serie (sinistra)

Gli stessi reperti mostrati in puntata sono tutti oggetti di scena creati ad hoc su modello di famosi pezzi provenienti da musei di tutto il mondo. Ci sono sicuramente antichità del British, come il Gatto Gayer-Anderson, alcune statue di Sekhmet e soprattutto il cosidetto “Giovane Memnone” (foto in alto a destra), ma si riconoscono altre opere iconiche: dal Museo Egizio del Cairo, le maschere funerarie d’oro dalla necropoli reale di Tanis, la statua-rebus di Ramesse II e le versioni in miniatura di Ramesse III tra Horus e Seth e di Chefren seduto in trono; dal Luxor Museum la statua di Nebra e di Ramesse VI con nemico; dal sito di Menfi, la statua colossale di Ramesse II (ma in piedi); dal Kherma Museum in Sudan, il gruppo di statue di faraoni della XXV din. e re kushiti della cachette di Dukki (frame in alto a sinistra); ecc. Altri invece sono frutto di fantasia, come i 4 pilastri al centro della sala principale del museo che mostrano scene prese dal papiro di Hunefer.

A sinistra: Harrow con il suo scettro e il tatuaggio della bilancia; a destra: cap. 125 del Libro dei Morti dal Papiro di Hunefer

Nonostante il suo lavoro si limiti a vendere souvenir, Steven si mostra un esperto di religione egizia e si stupisce che nella cartellonistica del museo si pubblicizzi una mostra sull’Enneade con 7 dèi al posto di 9… ma poi cita erroneamente Horus (per la composizione dell’Enneade, rimando al 3° episodio). In effetti, il nostro protagonista passa notti intere a studiare libri di egittologia, soprattutto per combattere i suoi disturbi del sonno che, come presto si vedrà, hanno una causa ben più complessa. A un certo punto, infatti, Steven si risveglia all’improvviso in un borgo alpino, braccato dagli adepti di una setta armata. A capo di questi invasati c’è Arthur Harrow che, grazie ai poteri conferitigli da Ammit (che invoca gridando in antico egiziano: “dwA ammwt” = “lode ad Ammit”), giudica le persone anche per i loro peccati futuri. Non a caso, sull’avambraccio destro, Harrow ha il tatuaggio di una bilancia che si anima durante il giudizio e che fa riferimento alla Pesatura dell’anima o Psicostasia del capitolo 125 del Libro dei Morti. In questo gruppo eterogeneo di formule magico-religiose che servivano a superare ostacoli e pericoli nell’aldilà, il defunto, di solito accompagnato da Anubi, subiva la prova finale: il cuore, sede del pensiero, delle emozioni e della memoria, era posto sul piatto di una bilancia e pesato in contrapposizione alla piuma di Maat, simbolo di verità e giustizia, con cui doveva trovarsi in equilibrio. In caso contrario, l’organo sarebbe stato gettato in pasto ad Ammit, la “Grande divoratrice”, mostro ibrido dalla testa di coccodrillo, zampe anteriori di leone e posteriori di ippopotamo. Per questo motivo, il bastone di Harrow è decorato con due teste di coccodrillo. Nella serie Ammit ha un ruolo meno passivo ed è tratteggiata come una pericolosa divinità in cerca di una discutibile giustizia preventiva che, per questo, era stata intrappolata dagli altri dèi.

A sinistra: lo scarabeo-bussola di Ammit; a destra: scarabeo alato in faience, Periodo Tardo, Metropolitan Museum 30.8.1082a-c

Tuttavia, Harrow e i suoi accoliti vogliono riportare Ammit sulla terra ed hanno quindi bisogno di trovare la sua tomba, la cui ubicazione è indicata da uno scarabeo alato d’oro. Gli Egizi identificavano lo scarabeo stercorario con Khepri, il sole mattutino nascente, per il particolare comportamento dell’insetto che trasporta con le zampe palle di escrementi; di conseguenza, lo rappresentavano nell’atto di innalzare il disco solare. In ambito funerario, lo scarabeo era simbolo di rinascita e il suo amuleto veniva posto come protezione beneaugurante sul petto delle mummie. Il nome di Khepri appare proprio tra i geroglifici incisi sullo scarabeo dorato che corrispondono a una breve porzione del capitolo 17 del Libro dei Morti, scritta in modo speculare sulle due elitre del coleottero:

i xpri Hry-ib wiA=f pAwty Dt=f nHm=k Wsir Imn-Htp mAa-xrw” = “Oh Khepri, nel mezzo della sua barca, il cui corpo è primigenio, salva l’Osiride Amenofi, giusto di voce”.

Questa chicca si deve sicuramente alla consulenza dell’egittologo, ma personalmente – visto che lo scarabeo punta come una bussola alla tomba di Ammit – avrei sostituito con il suo nome quello di Amenofi (o Amenhotep) che qui ha poco senso.

La prima trasformazione di Moon Knight

Successivamente scoppia una colluttazione per accaparrarsi lo scarabeo d’oro e Steven sembra non riuscire a controllare a pieno il suo corpo perché mosso dalla voce di un’entità misteriosa e da una seconda personalità, il mercenario Marc Spector, con cui si alterna nei momenti di black out mentale. Si deve arrivare alla fine dell’episodio per far sì che Steven diventi pienamente consapevole del suo ego dissociato. Di nuovo a Londra dopo un salto temporale e spaziale, infatti, è costretto ad affidarsi al più risoluto Marc quando viene di nuovo raggiunto da Harrow che, nel museo ormai chiuso, prima prova a giudicarlo con il suo bastone e poi gli scaglia contro un mostro umanoide dalle fattezze di cane. La creatura si rifà ovviamente ad Anubi, dio della mummificazione e protettore delle necropoli, raffigurato, per l’appunto, con la testa di sciacallo. Nella scena conclusiva, in un bagno che magicamente viene ricoperto di testi geroglifici luminosi, si vede la prima trasformazione in Moon Knight, tra gli dèi Thot e Horus (immagine in alto).

2° Episodio – Evoca il costume

A sinistra: Khonshu nella serie Marvel; al centro: statua di Khonsu da Karnak, NMEC; a destra: rilievo con Khonsu da Karnak

Il costume di Moon Knight, oltre a mantello e cappuccio bianco, è composto da bende di lino che ricoprono il corpo di Marc durante la trasformazione. Inoltre, sul petto c’è un crescente lunare che è il simbolo della divinità egizia di cui l’eroe è l’avatar sulla terra: Khonshu. Khonsu (più propriamente senza la “h” finale, ma comunque da pronunciare “su” e non “sciu” come si sente in giro) era effettivamente il dio della luna, ma era di solito rappresentato come un bambino mummificato (foto in alto al centro). Faceva infatti parte della triade divina della città di Tebe, l’attuale Luxor, come figlio di Amon e Mut, e insieme venivano venerati nel grande complesso templare di Karnak. Alcune volte era ritratto con la testa di falco (immagine in alto a destra), come Horus ma con disco e crescente lunare sul capo; sicuramente non come l’uccello scheletrico dal lungo becco che si vede nella serie e nel fumetto, più adatto all’ibis di Thot (iconografia che, detto sotto voce, a me piace tantissimo!). Lo stesso ruolo vendicativo e violento del dio si distacca da quello che ha nel pantheon egizio nelle sue attestazioni più tarde. Invece, negli antichi Testi delle Piramidi (XXIV sec. a.C. circa), più precisamente nel cosiddetto “Inno cannibale”, si legge un breve accenno a Khonsu come colui che uccide e fa a pezzi gli altri dèi affinché il faraone defunto potesse cibarsi delle loro membra e acquisirne la forza (Pyr. 402).

Intanto fa la sua apparizione anche Layla El-Faouly (May Calamawy), moglie di Marc e figlia di un archeologo egiziano morto a causa di soldati predoni di tombe. Layla e Steven/Marc capiscono di dover trovare la sepoltura di Ammit prima di Harrow e quindi si recano in Egitto.

3° Episodio – Un tipo amichevole

A sinistra: la sala degli dèi nella Grande Piramide; a destra: schema dell’interno della Piramide di Cheope

Marc e Khonshu cercano di fermare Harrow chiedendo agli altri dèi un’udienza che viene convocata nella Piramide di Cheope a Giza. All’interno della struttura, una gigantesca stanza arriva quasi fino al pyramidion ed è decorata da improbabili statue più adatte al set del film “Cabiria” del 1914 (in alto a sinistra). In realtà, la Grande Piramide, salvo pochi ambienti e corridoi, è quasi completamente piena, ma si può giustificare la scelta con un’ipotetica dimensione divina alternativa. Un portale conduce in sala gli avatar degli dèi dell’Enneade, tra cui vengono citati Horus, Iside, Tefnut, Osiride e Hathor. L’Ennade eliopolitana era un gruppo di nove divinità celebrato soprattutto nella città di Eliopoli, importante centro del culto solare che coincide con l’odierno quartiere di Matariyya al Cairo e dove forse sarebbe stato meglio ambientare l’udienza. Inoltre, la composizione originaria della Grande Enneade prevedeva Atum (dio creatore primigenio), Shu e Tefnut (la prima coppia divina), Geb e Nut (terra e cielo), Osiride (sovrano dell’Aldilà), Iside (dea della fertilità e della magia), Seth (dio del caos e del deserto) e Nefti (protettrice dei morti).

L’avatar di Hathor, dea dell’amore, è stato chiaramente inserita per farla velatamente flirtare con Marc a cui, nonostante il consiglio degli dèi giudichi Harrow non colpevole, dice che nemmeno loro sanno dove sia sepolta Ammit, ma gli consiglia comunque di cercare il sarcofago nero di Senfu, medjay incaricato di documentare la posizione della tomba. I Medjay in origine erano una popolazione nubiana del deserto orientale, ma poi il termine venne adottato per indicare corpi speciali dell’esercito e della polizia. Questa attribuzione è stata spesso sfruttata nel cinema e nei videogiochi per creare personaggi con il ruolo di guardiano/guerriero. Possiamo ricordare, ad esempio, Ardeth Bay e i suoi compagni nel film “La Mummia” del 1999 o Bayek del gioco “Assassin’s Creed: Origins”.

A sinistra: la piramide di cristallo di Mogart con il sarcofago nero di Senfu; a destra: la mummia con il cartonnage

Il sarcofago in granito nero, insieme a un secondo sarcofago antropoide in legno e alla mummia, sono esposti in una piramide di cristallo, simil-Louvre, nel giardino del collezionista Anton Mogart. Layla, che conosce Mogart per la sua attività nel mercato nero di antichità, cerca di distrarlo mentre Steven studia il corpo di Senfu. La donna tira in ballo, citandola proprio in tedesco, la parola “Stundenwachen”, come se i testi iscritti nella parte interna del coperchio del sarcofago si riferissero a questo concetto egittologico estremamente tecnico, ma non adatto al contesto. Gli Stundenwachen (Veglia oraria) sono infatti formule da recitare e riti da officiare durante la veglia di un giorno, diviso in 24 ore, sul corpo di Osiride, ma sono noti da testi riportati sulle pareti di templi di epoca greco-romana.

Comunque Steven recupera un pezzo della copertura in cartonnage della mummia che risulta una mappa astrale con le coordinate per trovare la tomba di Ammit. Il cartonnage era una tecnica utilizzata per realizzare maschere funerarie, sarcofagi o altri oggetti del corredo con strati sovrapposti di lino o papiro stuccati e dipinti, un po’ come la cartapesta. Quello che Steven maneggia, invece, sembra più un origami in cuoio a forma di stella a cinque punte.

4° Episodio – La tomba

A sinistra: gli ushabti delle divinità imprigionate; a destra: ushabti del Museo Civico Archeologico di Bologna

Le coordinate ricavate dal cartonnage di Senfu si riferiscono alla situazione astrale di circa 2000 anni fa, così Khonshu è costretto a muovere la volta celeste per permettere a Steven e Layla di calcolare la posizione della sepoltura di Ammit. Il gesto, fin troppo appariscente perché la popolazione vede le stelle muoversi vorticosamente nel cielo notturno, scatena l’ira degli dèi dell’Enneade che intrappolano Khonshu in un ushabti e lo mettono insieme alle altre statuine delle divinità decadute (immagine in alto a sinistra). Qui il riferimento egittologico è un po’ stiracchiato perché gli ushabti, tra gli oggetti più tipici della tradizione funeraria egizia, erano figurine poste, a partire dal 1900 a.C. circa, nelle tombe per garantire una funzione specifica. Realizzate di solito con misure che andavano dai 2 ai 20 cm e in diversi materiali (legno, pietra, faience, fango, terracotta, metallo), queste statuine in un primo momento replicavano l’aspetto del defunto, ma con il tempo il loro numero aumentò e divennero veri e propri servitori che lavoravano al posto del morto nell’aldilà. Data l’importanza del Nilo nella vita quotidiana dell’antico Egitto, l’esistenza dopo la morte era infatti immaginata come un fertile paesaggio agricolo in cui tutti avevano i propri obblighi. Gli ushabti quindi si attivavano magicamente grazie a una formula che poteva essere iscritta sul loro corpo (il capitolo 6 del Libro dei Morti) e compivano tutti quei lavori che sarebbero toccati al defunto per l’eternità: arare la terra, scavare canali per l’irrigazione, spostare la sabbia da una riva all’altra del fiume, ecc. Non a caso, una delle ipotesi sull’etimologia del nome li identifica come “coloro che rispondono (alla chiamata)”. Dal I millennio a.C., il loro numero si stabilizza – teoricamente – sulle 401 unità, corrispondenti a un operaio per giorno dell’anno più un caposquadra ogni 10 lavoratori. Nella loro forma standardizzata, gli ushabti erano rappresentati con un corpo mummiforme nell’atto di sorreggere attrezzi agricoli, come zappa, piccone e cesta per i semi. E in questo almeno, le statuette mostrate in Moon Knight si avvicinano all’iconografia classica, soprattutto grazie alle braccia incrociate sul petto. Ma quindi agli dèi non occorrevano ushabti? Ehm, no… a parte, in un certo senso, rarissime eccezioni, come nel caso delle statuine a testa di toro poste nel Serapeo di Saqqara vicino i grandi sarcofagi in cui erano deposti gli animali considerati reincarnazioni viventi del dio Apis (qui un esempio dal Louvre).

Steven e Layla riescono a trovare la tomba che si trova in pieno deserto (in realtà lo Wadi Rum in Giordania) e si accorgono che la struttura sotterranea labirintica è a forma di udjat, l’occhio di Horus. Sembra infatti che, oltre alla sepoltura, ci siano veri e propri laboratori di mummificazione in cui sacedoti-heka, tumulati vivi per proteggere il faraone, eviscerano chi cerca di profanare il luogo. Questo è un classico cliché della letteratura e del cinema che, tuttavia, non ha fondamento. Ad eccezione di precoci casi risalenti ai primi regni del Protodinastico (intorno al 3000 a.C.), infatti, non sono attestati sacrifici umani in Egitto né tanto meno deposizioni coatte di servitori o membri della corte. Inoltre, sebbene il concetto di Heka, riassumibile banalmente nella magia, sia applicabile al contesto mostrato, i sacerdoti rappresentati alle pareti hanno pelli di leopardo addosso quindi sono preti-sem, che avevano un importante ruolo durante i riti funerari.

A sinistra: i piedi del sarcofago dorato di Tutankhamon; al centro: la tomba di Alessandro Magno nella serie; a destra: KV9, Valle dei Re

La camera sepolcrale presenta un collage di elementi appartenenti a epoche diverse. La struttura generale si rifà a tombe reali del Nuovo Regno, in particolare alla KV9 nella Valle dei Re, realizzata per Ramesse V e utilizzata da Ramesse VI (1144-1136 a.C.), di cui sono riconoscibili diverse copie delle pitture parietali (due esempi in alto). Il sarcofago, almeno per la parte dei piedi, trae spunto da quello esterno di Tutankhamon; altri oggetti del corredo, invece, vanno dal Medio Regno al Periodo Tardo (vedi immagine in basso) e si vede addirittura una statua equestre in bronzo a grandezza naturale di foggia chiaramente greco-romana. Bucefalo?

Alcuni oggetti nella tomba di Alessandro Magno: modellino funerario con soldati dalla tomba di Mesehti, XI din. (Museo Egizio del Cairo) e statuetta di Ibis, Periodo Tardo (Museum of Fine Arts, Houston)

Effettivamente, la tomba appartiene ad Alessandro Magno (356-323 a.C.), come si legge dal nome, scritto non proprio in maniera esatta, in cartigli sul sarcofago e sulle pareti. Il condottiero macedone è sì stato sepolto nell’Egitto che aveva precedentemente conquistato, ma le fonti lo collocano prima a Menfi e poi ad Alessandria, in un mausoleo non ancora individuato e che con tutta probabilità non assomigliava in alcun modo alla tomba mostrata nella serie. L’ushabti di Ammit comunque si trova nella bocca della mummia di Alessandro. Steven riesce a recuperarlo, ma è anche raggiunto da Harrow che lo uccide – almeno apparentente – con un colpo di pistola in pieno petto.

5° Episodio – Asylum

A sinistra: Steven e Marc nell’ospedale psichiatrico incontrano Tauret; a destra: statuina in legno della dea, XIX din., Museo Egizio di Torino

Fine della storia? Naaa… ci sono ancora due episodi. Dopo il colpo di pistola, infatti, Marc si risveglia nell’ufficio del direttore di un istituto psichiatrico, il Dr. Harrow. Sembrerebbe quindi che tutto ciò che è accaduto fosse solo una proiezione della sua mente. Ma fuggendo dalla sala, incontra un sarcofago egizio al cui interno è chiuso Steven. In cerca di un’uscita, i due, per la prima volta fisicamente divisi, finiscono al cospetto dell’imponente figura della dea ippopotamo Taweret che, con una vocina dolce e amichevole, spiega loro che effettivamente sono morti e che ciò che vedono è la Duat, l’oltretomba dell’antico Egitto manifestatosi in una forma comprensibile dalle loro capacità cognitive. Taweret, chiamata anche Tauret, Tueret o Tueris, era una divinità molto popolare nei culti domestici perché protettrice dei bambini e delle partorienti e perché legata al concetto di fertilità. In ambito funerario, invece, aveva un ruolo secondario di garante della rinascita dopo la morte e di guida nel viaggio nell’aldilà. In tal senso, Anubi sarebbe stato più adatto alla guida della barca solare, ma il personaggio pacioccoso della serie servirà sicuramente a vendere action figures e peluche.

A sinistra: la prima barca solare di Cheope; a destra: la barca che conduce Marc e Steven verso i Campi di Iaru

Marc e Steven cominciano ad attraversare la Duat, giustamente raffigurata come un deserto notturno. L’imbarcazione in cui viaggiano prende spunto dalla prima barca solare di Cheope (foto in alto a destra), fino a poco tempo fa esposta ai piedi della Grande Piramide, ma ora conservata presso il Grand Egyptian Museum di Giza. Durante il percorso, Taweret ruba ad Anubi anche il compito di prendere i cuori, che effettivamente hanno la forma dell’amuleto-ib, e di pesarli con la piuma di Maat. I bracci della bilancia non sono in equilibrio, quindi i due devono tornare dentro la struttura per risolvere traumi del passato prima che gli spiriti della Duat arrivino a prenderli.

A sinistra: bronzetto di Orisiride, Periodo Tardo, Metropolitan Museum; al centro: la barca funeraria va verso il Portale di Osirde; a destra: falsa porta, V din., Museo Civico Archeologico di Bologna

Ripercorrendo i ricordi, si viene a sapere che Steven altri non è che un’identità dissociata creata da Marc quando, da bambino, subì la morte del fratellino e le conseguenti violenze della madre che gli diede la colpa della disgrazia. Per questo l’equilibrio si ottiene solo quando Steven cade dalla barca e diventa una statua di sabbia. Questo avviene proprio in prossimità del Portale di Osiride, il passaggio che collega la Duat con la sfera terrena (in alto al centro). L’iconografia scelta si rifà giustamente alla stele falsa-porta (immagine in alto) che, nelle tombe dell’Antico Regno, era un elemento architettonico che simbolicamente permetteva all’anima del defunto, il ka, di ricevere le offerte e di muoversi tra l’aldilà e il mondo dei vivi. Accanto al cancello si vedono quattro enormi statue che hanno la forma delle statuette di bronzo di Osiride (in alto a sinistra), raffigurato mummiforme, con barba posticcia, scettro heqa e il flagello nekhekh in mano e corona atef sulla testa (corona bianca più piume di struzzo laterali).

6° Episodio – Dèi e Mostri

A sinistra: Marc nei Campi di Iaru; a destra: vignetta del Cap. 110 del Libro dei Morti di Ani, British Museum

Con il sacrificio di Steven, Marc può finalmente arrivare nei Campi di Iaru, un infinito campo di grano permeato di tranquillità e di una calda luce soffusa. I Campi di Iaru, letteralmente “Campi di Giunchi/Canne”, sono descritti nei capitoli 109, 110 e 149 del Libro dei Morti e possono considerarsi – tra mille virgolette – come il paradiso dell’antico Egitto. Questo luogo dell’aldilà era rappresentato come un fertile paesaggio coltivato, solcato da freschi canali d’acqua, in cui il defunto, nonostante dovesse compiere diversi lavori agricoli (ma tanto li passava agli ushabti), viveva un’eternità felice e pacifica (immagine in alto a destra). Il concetto di base mette in contrapposizione la verde Valle del Nilo con l’arido deserto. Nei più antichi Testi delle Piramidi, invece, la volta celeste era divisa in due parti, settentrionale e meridionale, rispettivamente occupate dai Campi delle Offerte e, per l’appunto, dai Campi di Iaru che erano solo una tappa momentanea di purificazione durante l’ascesa al cielo. Solo dai Testi dei Sarcofagi, diventarono la destinazione finale, probabilmente posta a est, in corrispondenza con la fine del viaggio notturno del Sole.

Ammit divora le anime dei cittadini del Cairo

Nonostante la beatitudine raggiunta, Marc decide di tornare indietro e di recuperare Steven, anche perché, nel frattempo, Harrow ha rotto l’ushabti di Ammit ed è riuscito a invocarla. L’iconografia della creatura si allontana da quella originale prettamente animale e presenta, come già nei fumetti, un corpo umano con testa e coda di coccodrillo, chioma leonina legata in ciocche e abito e voce femminili. D’altronde, il genere scelto dagli Egizi per la “Grande divoratrice” è chiaro fin dalla desinenza femminile finale -t nel nome. Fedele alla sua definizione, quindi, una gigantesca Ammit a Giza comincia a ingurgitare le anime dei cittadini del Cairo che sono giudicati da Harrow e dai suoi compagni (immagine in alto).

A sinistra: Layla diventa Scarlet Scarab; a destra: Nefti alata su uno degli angoli del sarcofago di Tutankhamon (f. osirisnet.net)

La situazione è grave. Per fermare Ammit c’è bisogno di più forze, così Layla riesce a liberare Khonshu rompendone l’ushabti, fa tornare in vita Marc e a sua volta diventa avatar di Taweret indossando un costume con ali metalliche. Questa forma è una reinterpretazione degli sceneggiatori che hanno preso un personaggio maschile della Marvel già esistente, Scarlet Scarab, e lo hanno trasformato in un’eroina con poteri diversi. Nell’iconografia religiosa egizia, molte dee vengono rappresentate con ali di rapace e le braccia aperte in un gesto di protezione, spesso in ambito funerario: Maat, Nut, Hathor, Iside, Nefti, Selkis, Neith. Troviamo le ultime quattro, ad esempio, agli angoli del sarcofago esterno in quarzite di Tutankhamon (foto in alto a destra).

Da qui in poi si assiste solo a tante botte, con lo scontro tra Ammit e Khonshu e tra Moon Knight, Scarlet Scarab e Harrow, senza che ci siano altri riferimenti egittologici. Ovviamente vinceranno i buoni, anche se l’immancabile scena post-credit apre a possibili risvolti futuri.

Riferimento bonus:

Il primo vero rimando dell’intera serie all’antico Egitto è la decorazione dell’acquario di Steven con souvenir kitsch nell’acqua che ritraggono la Grande Sfinge, una piramide, il busto di Nefertiti, una barca funeraria, un obelisco e un tempietto.

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“Tutankhamon” – miniserie TV (blooper egittologici)

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Stasera e domani (22-23 maggio), andrà in onda su Focus (canale 56 del digitale terrestre) la miniserie inglese “Tutankhamun”, qui in Italia presentata con il titolo “Tutankhamon”. Da non confondere con l’orripilante “TUT” di cui – ahimè – ho già scritto, questo dramma storico prodotto dalla ITV e diretto da Peter Webber (“La ragazza dall’orecchino di perla”, “Annibal Lecter – Le origini del male”) parla in 4 episodi della scoperta nel 1922 della KV62. Il protagonista, quindi, non è il ‘faraone fanciullo’ ma Howard Carter che, dopo mille difficoltà e insuccessi, riesce ad effettuare il ritrovamento archeologico più importante della storia. L’idea del racconto biografico applicata all’Egitto è sicuramente una ventata di novità per un’ambientazione cinematografica quasi sempre fossilizzata sui soliti personaggi: mummie e Cleopatra (anche se, a dir la verità, Tutankhamon non è proprio un argomento inedito). Dopo questo esempio, infatti, sarebbe interessante vedere altre produzioni incentrate sui grandi nomi dell’egittologia, dagli albori della disciplina all’introduzione del metodo scientifico, come Belzoni, Champollion, Petrie (che fa una comparsata anche in questa serie) e molti altri la cui vita, senza dover romanzare troppo, sarebbe perfetta per un film. Per il momento, accontentiamoci di “Tutankhamun” che, fra l’altro, presenta una trama piuttosto aderente alla realtà (verificabile leggendo i diari e il giornale di scavo originali). Al di là di due particolari punti che – come vedremo – lasciano perplessi, non ci sono grossolani errori, a testimonianza di una ricerca a monte abbastanza accurata. L’attendibilità storica, però, non è accompagnata da una sceneggiatura avvincente rendendo la serie spesso lenta nonostante i mille spunti, anche avventurosi, a disposizione.

Ho scritto questo articolo mesi fa, dopo aver visto la versione originale nell’ottobre 2016, quindi spero non abbiano stravolto troppo la narrazione con il doppiaggio italiano. In ogni caso, leggete pure la recensione senza pensare ad eventuali spoiler, tanto sapete già come va a finire la storia, no?

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Come detto, i problemi principali che inficiano la credibilità generale della serie sono due, tra cui la scelta di Max Irons per ricoprire il ruolo principale. L’aitante modello trentenne è troppo lontano anagraficamente da Howard Carter che, al momento della scoperta, aveva 48 anni. In questo caso, l’utilizzo dell’attore belloccio di turno non serve solo ad attrarre il pubblico femminile ma anche a giustificare l’altra falla nella trama: la strage di cuori che Carter lascia dietro di sé. L’archeologo britannico, infatti, non solo intraprende una relazione d’amore con Lady Evelyn Herbert (Amy Wren), figlia di Lord Carnarvon – speculazione senza alcuna prova e criticatissima dai discendenti del Conte, ma giustificata dallo sceneggiatore Guy Burt come un ‘persistente rumor’ -, ma ha anche un flirt con la povera Maggie Lewis (Catherine Steadman), membro della missione a Tebe del Metropolitan Museum, prima sedotta e poi abbandonata. In questo caso, nessun lontano parente si è lamentato, non per merito di una maggior apertura mentalmente, ma perché la Lewis è un personaggio inventato. Tutti gli altri egittologi, invece, sono reali: Norman de Garis Davies, Herbert Winlock, Arthur Mace, Harry Burton, Arthur Callender ecc.

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La cosa che mi spaventava di più era il modo in cui sarebbe stata presentata la fantomatica Maledizione di Tutankhamon; fortunatamente, però, in questo caso gli autori si sono attenuti alla verità. Viene infatti mostrata la morbosa attenzione che i media avevano nei confronti della scoperta che s’infranse contro la vendita dell’esclusiva (qui erroneamente attribuita a Carter quando invece fu opera di Carnarvon) al giornalista Arthur Merton del Times. Solo per questo motivo, gli altri giornali cominciarono a inventarsi bufale per vendere più copie. Nella serie viene effettivamente mostrato che il Conte (Sam Neill) morì per un’infezione provocata dal taglio di una puntura di zanzara e il famoso canarino, che sarebbe stato ingoiato da un cobra al momento dell’apertura della tomba, appare – vivo e vegeto – solo come riferimento alla storia. Di tutto questo, però, non era stato informato il ragno velenoso che ha morso Amy Wren mandandola in ospedale durante le riprese in Sud Africa (dove è stata ricreata la Valle dei Re)!

Una cosa che ho apprezzato particolarmente è stata l’attenzione nei confronti delle foto di Burton, spesso rinscenate con dovizia di particolari come si può vedere nell’esempio in basso.

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Infine, menzione d’onore per il sedere del grande egittologo Flinders Petrie che esce nudo da una tomba per andare a bere un gin tonic fatto con alcol etilico e acido citrico. No comment…

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“TUT – Il destino di un Faraone”, miniserie TV (blooper egittologici)

Source: en.wikipedia.org

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Di solito, nella rubrica “blooper egittologici” recensisco film che parlano, in un modo o nell’altro, dell’antico Egitto. Questa volta, però, farò uno strappo alla regola e mi occuperò di una miniserie TV attesa da molti sia per l’argomento che tratta sia per la campagna mediatica che l’ha caratterizzata: “TUT”. Tutankhamon è, nell’immaginario comune, il faraone più rappresentativo e, a partire dalla scoperta della sua tomba nel 1922, ha influenzato l’arte, la moda, la letteratura, il cinema e, in generale, la cultura pop; così, c’era da aspettarsi che, prima o poi, diventasse il protagonista di un “historical drama”. Ci ha pensato l’emittente statunitense Spike TV che il 19-20-21 luglio ha trasmesso in prima serata le tre puntate da 90 minuti ottenendo lo share più alto dal 2008 e un aumento degli ascolti complessivi del 123%. Il motivo di tutto questo successo? Solo esclusivamente il soggetto che venderebbe proposto in qualunque salsa. La trama è noiosa, gli attori sono monoespressivi (a parte il premio oscar Ben Kingsley che, rimanendo in tema, nell’ultimo anno ha ricoperto anche i ruoli dell’anziano ebreo Nun in “Exodus: Gods and Kings” e di Merenkahre in “Notte al museo – Il segreto del faraone”), la ricostruzione storica, come vedremo, completamente sballata. Va bene che la fiction, come dice la parola stessa, è finzione, ma in “Tut” si è stravolta la realtà, a partire dal “faraone bambino” che è diventato un improbabile eroe che ama il suo popolo e che, combattendo in prima persona, porta il suo regno alla gloria contro nemici interni ed esterni. E dire che di spazio per far cavalcare la fantasia ce n’era eccome con tutti i punti ancora oscuri della fine della XVIII dinastia; invece, gli sceneggiatori sono andati a mettere mano su dati storicamente acquisiti. Viene raccontata, dall’ascesa al trono fino alla morte, la breve vita di Tutankhamon (Avan Jogia che curiosamente somiglia all’attore che ha interpretato Ra in “Stargate”), dapprima re fantoccio manovrato da potenti personalità della corte, poi risoluto a prendere di polso la situazione e cambiare la politica dell’Egitto. Il tutto si può riassumere con 3 ore e mezza di intrighi di palazzo, intervallati da qualche scena di combattimento: il Sommo sacerdote Amun trama, il visir Ay (Kingsley) trama, suo figlio Nakht trama, la regina Ankhesenamon trama, il generale Horemheb trama; insomma, tutti tramano alle spalle del giovane sovrano per acquisire più potere. Questo è forse l’unico aspetto plausibile della narrazione, giustificato proprio dal caos post amarniano. Per il resto, quasi tutto è inventato e, qui di seguito, vi spiegherò perché passo dopo passo. ATTENZIONE SPOILER!!!

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Parte I: “Power”

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Siamo nel 1332 a.C. a Tebe e un morente Akhenaton, avvelenato da un certo Parennefer, lascia il potere al figlio di 9 anni Tutankhamon, nonostante egli si rifiuti di giustiziare con le sue mani il figlio dell’attentatore, Ka, che diventerà suo migliore amico. Il nuovo faraone sposa la sorella Ankhesenamun e vive l’infanzia e l’adolescenza segregato nel palazzo.

COSA C’È DI VERO? La successione di Akhenaton e i genitori di Tutankhamon sono tra gli argomenti più dibattuti dagli egittologi perché, in entrambi i casi, non si hanno ancora dati certi. Infatti, il ritorno agli antichi culti e la damnatio memoriae voluti (e usurpati allo stesso Tut che fece scolpire la “Stele della restaurazione” sul III pilone del Tempio di Karnak) da Horemheb hanno colpito il periodo che va dall’epoca amarniana al regno di Ay, provocando una lacuna difficilmente colmabile che, questa volta legittimamente, lascerebbe più spazio alla fiction. Nella serie, Tutankhamon è figlio del “faraone eretico” e suo diretto successore, anche se tra i due dovrebbe esserci stato almeno un altro/a regnante. Il doppio genere è d’obbligo perché, dopo tanti anni in cui si è pensato che l’erede fosse Smenkhara, da un po’ di tempo, grazie a una scoperta del 2012 [Van der Perre A., Nefertiti’s last documented reference (for now), in Seyfried F. (ed.), In the light of Amarna: One hundred years of the Nefertiti discovery, Berlin 2013, p.195-197], si è fatta strada l’ipotesi secondo cui sarebbe stata la regina Nefertiti a salire al trono.

Per quanto riguarda il padre di Tut, invece, si è parlato di Amenofi III, Akhenaton o Smenkhara. Dallo studio del DNA voluto nel 2010 da Zahi Hawass, i genitori risulterebbero il defunto ritrovato nella KV55 (Amenofi IV secondo l’ex Segretatario dello SCA, Smenkhara secondo altri) e la cosiddetta “Younger Lady” della KV35, ma il condizionale è d’obbligo perché molti genetisti hanno contestato tali risultati criticando l’uso di tecniche inappropriate.

La vera cantonata della prima parte sta nella scelta di ambientare da subito la storia a Tebe. È stranoto che Akhenaton, tra il 4° e il 6° anno di regno, trasferì la corte ad Akhetaton, Tell el-Amarna, dove risiedette anche lo stesso Tutankhamon quando si chiamava ancora Tutankhaton (“Immagine vivente di Aton”) e quando sposò la sorellastra Ankhesenpaaton, poi diventata Ankhesenamon. Solo in un secondo momento, la capitale tornò a essere l’odierna Luxor, nell’ambito del programma di restaurazione post-amarniano. Per il resto, non sappiamo come sia morto Akhenaton, anche se la mummia della KV55 non presenta tracce di avvelenamento e Parennefer era Gran maggiordomo e consigliere personale del faraone.

Passano 10 anni e Tut diventa un bel giovane atletico che si allena nel combattimento con l’amico Ka (che, però, se la fa con Ankhesenamun). Quest’attività è svolta in segreto perché il sovrano non può uscire dalle sue stanze, non si è mai mostrato al popolo ed è tenuto all’oscuro di tutte le decisioni di Stato prese di fatto dal visir Ay e dal capo delle forze armate Horemheb (Nonso Anozie, corpulento attore di colore). Così, disgustato dalle beghe di palazzo, spesso si traveste e scappa tra la gente comune (cliché trito e ritrito nel cinema). Durante una delle sue fughe, incontra Suhad, splendida ragazza mezza mitanni di cui si innamora, e Lagus, soldato che gli salva la vita e che diventerà il suo sottoposto più fedele. Gli scampoli di vera vita vissuta tra le strade di Tebe svegliano Tutankhamon che decide di prendere parte attivamente al governo dell’Egitto e di attuare profonde riforme democratiche togliendo potere al clero e all’esercito e abbassando i tributi da pagare ai templi.

Tralasciando il nome per niente egiziano di Lagus (che, invece, era un ufficiale di Filippo II di Macedonia e padre di Tolomeo I Sotere), le perplessità toccano soprattutto l’aspetto di Tut. Le ultime analisi sulla sua mummia hanno mostrato un individuo tutt’altro che avvenente e dal fisico minato da diversi acciacchi. Il re aveva il labbro leggermente leporino, la scoliosi e, soprattutto, una dolorosa osteonecrosi al secondo dito del piede sinistro che lo obbligava a zoppicare sorreggendosi con un bastone. Non a caso, nella KV62 sono stati trovati ben 130 bastoni da passeggio effettivamente usati. Altro che correre, saltare e tirare di spada! Ma, d’altronde, un protagonista così conciato avrebbe avuto scarso appeal sul pubblico. A causa della giovane età e del cattivo stato di salute, è probabile che Tutankhamon sia rimasto un faraone effimero fino alla sua morte.

Poi, lungi da me entrare nella solita disputa politically correct sull’utilizzo di attori bianchi o neri per personaggi egiziani, ma perché rappresentare il solo Horemheb di colore? La mummia non è stata ancora individuata e le sue raffigurazioni, seppur convenzionali, non si distaccano dai suoi predecessori per la pigmentazione della pelle. Allora perché scegliere un interprete di origini nigeriane?

Tra le prime iniziative che Tutankhamon vuole intraprendere di persona, c’è una campagna militare contro i Mitanni che premono minacciosi al confine nord-orientale. Tushratta, forte di un esercito più numeroso e convinto della debolezza del faraone, ha intenzione d’invadere la Valle del Nilo, così tende una trappola aspettando gli Egiziani nel regno di Amurru, l’area tra le attuali Siria e Libano da dove proviene Suhad. Il giovane re si rivela un abile stratega e un gran combattente e, ignorando i piani di Horemheb, riesce a mettere in fuga i nemici. Durante la battaglia, però, Lagus viene catturato e lo stesso Tut è ferito gravemente a un fianco cadendo moribondo. Horemheb lo trova, ma decide di abbandonarlo lì per tornare a Tebe come unico vincitore e nuovo sovrano.

La descrizione del reale stato fisico del re basterebbe ampiamente a mettere in dubbio la sua partecipazione a una guerra, soprattutto nel suo ultimo anno di vita. Inoltre, nonostante la propaganda politica rappresentasse sempre il faraone come il terrore dei nemici, neanche il grande Ramesse II avrà mai messo piede su un campo di battaglia. Sarebbe stato tanto inutile quanto rischioso. In ogni caso, alcune talatat provenienti dal tempio funerario di Tutankhamon – poi smantellato e usato come riempimento per il II pilone di Karnak da Horemheb – lo rappresentano su un carro da guerra contro nubiani e siriani, ma è probabile che il secondo caso si riferisca a una campagna dimostrativa nel nord della Palestina contro le incursioni ittite. E proprio qui casca l’asino perché il vero nemico egiziano del Tardo Bronzo era Khatti. Il regno di Mitanni aveva occupato il nord della Siria e della Mesopotamia durante il XVI e il XV secolo a.C., ma nel XIV era già in declino schiacciato in una morsa tra l’impero ittita a nord-ovest e il regno medio-assiro a est. Lo stesso Tushratta doveva essere già morto quando Tutankhamon salì al trono, ucciso durante una congiura ordita da Shuppiluliuma I di Khatti che aveva già invaso tutti i territori mitanni a ovest dell’Eufrate. Il regno di Mitanni, quindi, era tutt’altro che una minaccia per i confini egiziani; anzi, Tushratta aveva perfino chiesto aiuto, invano, ad Akhenaton contro le incursioni da nord.                                             tushratta

Gli errori sul fronte ‘mitannico’ non si fermano qui. Se nel caso di Horemheb, la scelta di un attore di colore mi ha suscitato più di qualche perplessità, per Tushratta e suo figlio Tis’ada (il nome, in realtà, è quello di un re hurrita del XXI secolo a.C.), si sfiora il ridicolo. I due sono gli unici neri di un popolo così settentrionale che gli Egizi rappresentavano con folta barba e pelle chiara.

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1024px-Moyen_Orient_Amarna_1Tuttavia, Tutankhamon non muore e viene trovato da Suhad (che c…aso) che lo nasconde e lo cura. Ripresosi, il faraone decide di andare a liberare Lagus e si fa portare dalla sua nuova fiamma alla fortezza segreta di Mitanni. Cosa può fare un ragazzino ferito, da solo, contro l’esercito che spaventa l’intero Egitto? Ovviamente riuscire nel suo intento. Così, i tre fuggono e corrono verso Tebe. Intanto, nella capitale si creano due fronti di alleanze per conquistare il potere: Horemheb-Ka e Amun-Ay, e, nonostante le subdole pressioni subite dal visir, Ankhesenamun sceglie di sposare il suo amante, anche perché aspetta un figlio da lui.

Eviterò di commentare la missione da Rambo di Tut nel cuore del territorio nemico e mi limiterò a spiegare il motivo della scelta della foto che ho posto all’inizio della recensione della puntata non per un mio spiccato animo romantico. La bella scena del bacio che si scambiano i due con le piramidi al tramonto sullo sfondo si svolge in Amurru. Ora guardate la cartina e tenete in mente che Giza era una delle necropoli di Menfi. Non aggiungo altro.  

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Parte II: “Betrayal”

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Mentre Ka sta per ricevere la corona blu (khepresh), Tutankhamon “si rialza dalla morte” e piomba nella sala del trono tra lo stupore dei presenti. Il faraone si riprende il suo posto e uccide con le proprie mani l’amico d’infanzia perché anche lui lo aveva abbandonato in fin di vita. Tornato al potere, Nebkheperura  (è il praenomen) è sempre più autoritario e, dopo tutti i tradimenti subiti, si fida solo (e fa male) di Ay: il generale è imprigionato in attesa della condanna a morte, Amun contrastato apertamente con l’intenzione di eliminare i tributi al tempio e Ankhesenamun messa in disparte perché, dopo tre aborti (un figlio di Ka e due di Tut), non riesce a far nascere un erede. Al contrario, Suhad è sempre più influente e convince il re a chiedere un’alleanza ai Mitanni attraverso un matrimonio politico perché l’esercito egiziano è falcidiato da un’epidemia. Così, viene inviata Herit, cugina della regina, come sposa a Tushratta, ma, per tutta risposta, il nemico la rispedisce indietro impalata su un carro. Appare ovvio, ormai, che l’unica alternativa sia una guerra quasi impossibile da vincere, tanto che è richiamato alle armi anche Horemheb la cui pena capitale viene momentaneamente sospesa. Intanto, la Grande Sposa Reale, temendo di essere spodestata dalla nuova arrivata, aiutata dal visir fa rinchiudere con l’inganno Suhad nel ghetto dove gli appestati sono tenuti in quarantena in attesa di essere bruciati vivi per impedire la diffusione della malattia nella città.

cartouche14Prendo spunto dall’immagine in alto per parlare della scenografia e dei costumi che, tenuto conto che fanno parte di una serie TV e non di un film da sala, non sono poi così male. Non pretendo nemmeno che i geroglifici disegnati abbiano un senso (anche se, quasi cento anni fa, quelli de “La Mummia” lo avevano), ma alcuni errori non li posso tollerare. Sulla stessa parete di un tempio, non si può affiancare il disco solare di Aton alla figura di Anubi e a quella, di tre quarti (!?), di Bastet. E, ancora peggio, non si può scrivere il nome di Tutankhamon come farebbe un venditore di braccialetti del suq di Sharm: t-u-t-a-n-k-h-a-m-u-n. La vera grafia del nomem, o nome del “figlio di Ra”, è quella che si può vedere su una scatola lignea a forma di cartiglio scoperta nella KV62 (immagine a sinistra): “Amon” (Imn), anche se si legge alla fine, è posto all’inizio per venerazione del dio e “ankh” è reso con la croce ansata.

Per quanto riguarda i continui aborti di Ankhesenamon, invece, sono stati trovati due feti mummificati nella tomba di Tutankhamon che appartengono a due bambine nate morte a 5/6 e 9 mesi di gestazione. Gli esami del DNA del 2010 hanno confermato la paternità di Tut, ma ancora non è chiaro chi fosse la madre. È plausibile anche l’invio di Herit in sposa al re dei Mitanni. I matrimoni politici erano frequenti all’epoca e servivano a suggellare alleanze e trattati di pace; però, sappiamo da una delle “lettere di Amarna” che fu Tushratta a donare sua figlia Tadu-Kheba per l’harem di Amenofi III.

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Parte III: “Destiny”

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La situazione per Tutankhamon si fa pessima. Lagus trova Suhad viva, ma è in condizioni critiche e comunque sarà strangolata dalla regina; il Sommo Sacerdote è ormai in aperta rottura e annuncia solennemente che il dio Amon-Ra vuole la morte del re; i Mitanni si alleano con gli Ittiti e si preparano all’invasione accampandosi a Qadesh. Forte di una superiorità di 5 a 1, il principe Tis’ada si reca a Tebe portando un’offerta di pace oltraggiosa in cambio di tutti i territori egiziani dalla capitale in su. Come controproposta, il faraone dona al popolo di Tushratta, che sta soffrendo la fame a causa di una grave siccità, 100 cesti di pane, miglio e otri di vino. Questa decisione suicida si dimostra clamorosamente un’abile mossa tattica. Infatti, Tut parte con una quarantina di soldati scelti per una spedizione notturna verso la fortezza Mitanni passando per lo stesso passaggio segreto usato in precedenza per liberare Lagus (il manipolo di eroi che entra furtivamente nell’accampamento nemico è cliché già dall’Iliade) e riesce nell’impresa di uccidere Tushratta ponendo fine alla guerra. Nello scontro, però, si procura una grave frattura della gamba sinistra che s’infetta; nonostante ciò, torna subito a Tebe per celebrare la vittoria e per sconfiggere gli ultimi avversari interni. Ottiene anche questo risultato sbarazzandosi, durante la festa di Ra, di Amun e dei suoi sacerdoti che, invece, erano convinti di partecipare a un attentato nei confronti del faraone. Tutankhamon finalmente ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, ma la soddisfazione dura poco perché la setticemia lo porta velocemente alla morte a soli 18 anni.

Come spiegato in precedenza, tutta la parte dello scontro con i Mitanni è solo un modo per inserire scene di azione nella serie. La causa della morte di Tut, invece, è giusta, anche se vanno fatte delle precisazioni. Inizialmente, si pensava che il giovane faraone fosse stato vittima di una congiura di palazzo per la presenza di una frattura alla base del cranio che, in realtà, è dovuta dalla mano poco leggera di Howard Carter che usò martello e scalpello per staccare la mummia dal sarcofago. Una TAC del 2005 ha individuato la rottura del femore sinistro e la conseguente infezione fulminante che ha provocato la morte in 1-5 giorni di un individuo già debilitato dalla malaria. Altre lesioni alle costole e al bacino sarebbero compatibili con una caduta dall’alto, tanto da portare Chris Naunton a pensare a un incidente da carro.

La storia si conclude con il corteo funebre di Tutankhamon alla presenza della regina e del nuovo faraone Ay che, come ultimo sfregio, lo fa seppellire in una tomba anonima della Valle dei Re invece che nel grande sepolcro monumentale prestabilito. Questa volontà di cancellare la memoria di Tut, al contrario, preserverà la sua sepoltura fino al 1922 e gli porterà fama eterna.

KVRimasta vedova e senza eredi, Ankhesenamon supplicò Shuppiluliuma di Khatti di inviarle un figlio come marito. Il principe Zannanzach, però, non arrivò mai a destinazione, forse ucciso durante il viaggio, e Ay divenne faraone. Non sappiamo se l’ex visir abbia sposato la regina; inoltre, nella sua tomba (KV23), è ritratto con un’altra donna, Tiye II. In ogni caso, nella KV62 (nella serie, il progetto originale sembra più il tempio di Hatshepsut a Deir el Bahari) è lui che, come successore designato, è ritratto mentre compie la “cerimonia dell’Apertura della bocca” alla mummia di Tut. Comunque, ormai anziano, Ay regnò solo per 4 anni, seguito da Horemheb, ultimo faraone della XVIII dinastia, che cancellò tutte le tracce dei suoi predecessori appropriandosi degli anni di regno passati e ponendosi direttamente dopo Amenofi III.

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“Hieroglyph”, la Fox lancia una serie sull’antico Egitto

hieroglyph

“Volevamo uno show che parlasse d’inganni, sesso, intrighi a corte e di eventi fantastici”: queste sono le parole del presidente della Fox Entertainment, Kevin Reilly, che ha trovato nella civiltà egizia l’ambientazione perfetta. “Hieroglyph” sarà la serie tv che in 13 episodi mostrerà un Egitto violento, torbido, seducente, misterioso e sovrannaturale, proprio come piace al grande pubblico. La storia è stata ideata da Travis Beacham, sceneggiatore di “Pacific Rim” e “Scontro tra Titani”, ed è incentrata su Ambrose (Max Brown) che, dopo 5 anni di prigionia, viene scarcerato per ordine del faraone Shai Kanakht (Reece Ritchie). L’evento scatenante è il furto di un importante documento, il Libro delle Soglie, che Ambrose dovrà ritrovare, ma il re sfrutterà le sue celeberrime abilità anche per raccogliere informazioni sugli intrighi di palazzo e per scoprire i traditori. Nella sua missione, il ladro dovrà scontrarsi con Rawser (Antony Bunsee), il Capo della Guardia che lo aveva arrestato in precedenza, con Lotus Tenry (Kelsey Chow), la concubina spia di un regno rivale, e con Nefertari (Condola Rashad), la sorellastra del faraone che trama per avere più potere insieme al suo amante, il consigliere Bek (Hal Ozsan). Non poteva di certo mancare l’intreccio amoroso con Peshet (Caroline Ford), sacerdotessa dai poteri magici. Il cast comprende anche Erick Avari che con il suo physique du rôle è presente in tutti i film che parlino almeno minimamente di Egitto (“Stargate”, “La Mummia”, “The Librarian 2”).

Non si hanno altre informazioni sulla trama perché la serie verrà mandata in onda negli USA solo nel 2015, ma, dalla scelta dei nomi dei personaggi e della capitale Atum, non sembra esserci alcun riferimento storico (Nefertari non c’entra niente con Ramesse II). Per ora, il trailer ufficiale mostra sangue, esseri mitologici e, sulla falsa riga di “Spartacus”, tante, tante, ma tante scene esplicite di sesso. Staremo a vedere…

http://www.fox.com/hieroglyph/

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