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La farmacopea egizia: rimedi naturali nei papiri medici del Nuovo Regno (di Elena Urzì)

Oggi, per la rubrica “Parola all’Esperto”, parleremo di medicina, in particolare dell’utilizzo delle piante nella farmacopea dell’antico Egitto, argomento del progetto di ricerca di Elena Urzì, dottoranda in Filologia e Storia del Mondo Antico presso la “Sapienza” Università di Roma.

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Vaso contenente una miscela di olii, XVIII din. (Museo Egizio di Torino: S. 8623; fonte: museoegizio.it)

Numerosi i documenti a carattere medico sono giunti fino a noi in forma di papiri o ostraka più o meno conservati: i più antichi risalgono al Medio Regno[1] e testimoniano un corpus completo composto da ricette ormai codificate con indicazioni precise sulla cura di diverse patologie. Dalla lettura dei testi si evince come gli antichi Egizi avessero una profonda conoscenza sia del corpo umano sia di quello animale[2] e che attribuissero a cause impersonali e involontarie molte malattie a cui erano soggetti.

Ad esempio, il Papiro Ebers fornisce una testimonianza sulle patologie più comuni, tra cui i disturbi agli occhi, ai denti, alle orecchie, alla pelle, la stipsi, i parassiti intestinali, il mal di testa, così come anche problemi legati a morsi di animali, a ustioni, fratture o ascessi. Si trovano inoltre rimedi per contrastare la perdita dei capelli o per permetterne la crescita, per combattere la scarsa circolazione alle gambe e addirittura soluzioni per prevenire l’acre odore del sudore. Ciò che colpisce è la totale assenza, per questo tipo di affezioni, di ingredienti che richiamino la sfera magica (soprattutto di origine animale, quale bile, sangue, urina e perfino escrementi). Per quelle, infatti, esistevano peculiari cure mediche che prevedevano un quantitativo di sostanze superiori ai quattro o cinque ingredienti e, qualora lo si ritenesse necessario, l’aggiunta di formule magiche specifiche di volta in volta. Ancora diverso è il caso della preghiera alla divinità, invocata solamente nelle vere e proprie formule magiche e nei testi di protezione, la cui menzione di specifici ingredienti è più rara. Esistono, invece, casi di ricette in cui il farmaco è stato creato da una divinità per se stessa o per un’altra: di solito, chi riceve la cura è il dio Ra che l’assume dopo che questa viene preparata da lui stesso o da Iside, Nut, Geb, Shu o Tefnut. Ciò ci porta a guardare al mondo divino come a una comunità di esseri che, sebbene sovrannaturali[3], sono entità con un ciclo vitale: possono ammalarsi[4], invecchiare[5] e morire[6]. Dunque, poiché tutto ciò che esiste sulla terra possiede in sé una parte, seppur piccola, del supremo creatore – fin dalle origini o per acquisizione – gli ingredienti utilizzati sono validi sia per la divinità sia per l’essere umano.

Vi è un evidente parallelismo con la convenzionale pratica medica moderna. Il swnw Immagine, termine egizio che indica la persona che applica la cura, basava il proprio metodo sull’osservazione autoptica del paziente e sulla comparazione di analoghe sintomatologie. Possiamo suddividere il metodo di diagnosi in tre step:

  1. ascoltare i sintomi del malato e quindi esaminarli usando gli occhi e le mani. Sia il papiro Ebers sia, soprattutto, il papiro Edwin Smith offrono svariati esempi in merito: «Dovrai quindi porre le tue mani sul suo stomaco. Troverai il suo stomaco tirato (sic). Esso va e viene sotto le tue dita»;
  2. formulare la diagnosi: di solito, la sezione della ricetta che la riguardava era introdotta sempre dalla frase “Dovrai quindi dire su di lui (o su di esso)”;
  3. prescrivere il trattamento: esso principalmente si basava sulla passata esperienza dei pazienti con simili condizioni e il papiro Ebers spesso contiene la frase “veramente efficace – un milione di volte!”.

Prendiamo, ad esempio, l’estratto del Papiro Ebers, citato nel punto 1 (Ricetta 189, 36, 17-37, 4):

Fig. 1

a) Se tu procedi all’esame di un uomo che viene colpito alla bocca dello stomaco mentre tutti i diversi punti del suo corpo sono appesantiti come colti da un accesso di debolezza. Dovrai quindi porre la tua mano sul suo stomaco. Troverai il suo stomaco tirato (sic.). Esso va e viene sotto le tue dita.
Dovrai dire al riguardo:
«Si tratta di affaticamento nell’ingestione, che non permette al paziente di nutrirsi da un po’ di tempo».

b) Tu dovrai preparare per lui (questo rimedio) con tutto ciò che permette di aprire il suo stomaco, come: nocciolo (= forse è da intendersi come succo) di datteri. Questo verrà filtrato con la birra. Il suo appetito tornerà.

c) Se tu procedi all’esame del paziente dopo aver operato come detto sopra e se noti che quel punto del corpo è caldo, mentre l’interno del corpo è alla giusta temperatura corporea dovrai dire: «L’affaticamento nell’ingestione è finito».
Dovrai assicurarti che il paziente non mangi carne cotta”[7].

Fig. 2

Phoenix dactylifera L. (fonte: gbif.org/species/6109699)

Fig. 3

L’utilizzo dei frutti della Phoenix dactylifera L., comunemente chiamata palma da datteri, grazie alla quantità di fibre solubili e insolubili, è un ottimo rimedio per favorire la digestione; è anche utile contro la stipsi a causa delle proprietà lassative dei datteri, i quali in questo caso vengono accompagnati dall’assunzione della birra che purifica l’acqua utilizzata, aiuta a depurare il corpo e, per merito delle calorie che contiene, dona nutrimento durante la convalescenza del degente.

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Da ricette come questa si può notare che in realtà i papiri medici non sono altro che compendi utili sia a colui che, già esperto, necessita di consultare un particolare caso, sia all’apprendista che ha bisogno di sapere come agire nella maniera migliore sulla base del confronto con situazioni precedenti caratterizzate dagli stessi sintomi. La maggior parte dei rimedi presenti nei papiri a nostra disposizione mostra una struttura schematica sempre uguale, che può essere suddivisa in tre punti:

  1. scopo del farmaco;
  2. ingredienti (a volte con l’aggiunta di indicazioni specifiche sulle dosi di ognuno);
  3. istruzioni sull’applicazione.

Portiamo, per esempio, un estratto del Papiro di Berlino 3038, ricetta 31 (3, 6-7):

Fig. 4

“Un altro rimedio per trattare la tosse: panna (letteralmente pelle di latte) e cumino mescolato con il miele. Somministrare il preparato al malato per un periodo di quattro giorni”.[8]

Fig. 5

Cuminum cyminum L. (fonte: goo.gl/2PsLNB)

Fig. 6Il Cuminum cyminum L., o comunemente chiamato cumino, ha proprietà carminative e digestive e può essere utilizzato anche contro i gonfiori e le coliche addominali; esso è anche utile per combattere i sintomi della tosse e per stimolare l’appetito. L’ingerimento avviene tramite quelli che sono solitamente nominati veicoli, ossia qualsiasi tipo di ingrediente che permette l’assunzione del farmaco da parte del paziente. Generalmente sono sostanze liquide o semi liquide, come l’acqua, il vino, la birra e il miele. Quest’ultimo, in particolare in questa ricetta, viene utilizzato sia per la somministrazione del composto (così come la panna) sia per le sue proprietà disinfettanti che aiutano a calmare l’infiammazione. In più, comunque, come nel precedente caso della birra, il miele fornisce insieme alla panna nutrimento e calorie per il paziente debilitato.

Fig. 8

Ceratonia siliqua L (Fonte: gbif.org/occurrence/1805395800)

La somministrazione della cura avveniva attraverso cinque modalità differenti tra cui l’assunzione orale – citata nei due casi appena riportati -, per via rettale, vaginale, per applicazione esterna (unguenti) e fumigazione.

Nei casi precedenti tutti gli ingredienti utilizzati sono stati individuati grazie all’identificazione della malattia e perché sono sostanze molto comuni citate diverse volte in varie fonti. L’ultimo esempio che propongo pone delle difficoltà di interpretazione non indifferenti che ancora oggi non sono state spiegate in maniera soddisfacente.

Papiro Ebers 355 (57, 15-17):

Fig. 7

“Altro rimedio per far scomparire una formazione-pedet (orzaiolo?) in un occhio: galena 1; malachite 1; djaret (carruba) 1; aloe (o legno marcio) 1; galena-gesefen 1. Mischiare con acqua e applicare sulle palpebre”[9].

Ceratonia siliqua

Carrubo

In questa prescrizione si può notare come la malattia stessa sia solo ipotizzata, dal momento che il termine egiziano è poco perspicuo. Tuttavia, se effettivamente si trattasse di orzaiolo, come è stato teorizzato da diversi studiosi, la malachite, la pianta djaret[10] e l’aloe vera (Aloe barbadensis Miller) sarebbero ingredienti con proprietà antisettiche e anti infiammatorie[11]. Meno chiaro è l’utilizzo della galena e della galena-gesefen, ma ciò è dovuto anche alla difficoltà d’interpretazione di questa componente.

Fig. 10

Aloe barbadensis Mill. (Fonte: goo.gl/4CHd9o)

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Si può notare che in questa ricetta sono precisamente riportate le quantità da inserire per ogni ingrediente. Secondo il mito, il trono di Osiride venne conteso tra Horus e Seth: durante la colluttazione, quest’ultimo cavò un occhio al nipote (secondo altre versioni si tratterebbe del fratello minore) e lo distrusse in piccoli pezzi. Successivamente Thot, divinità della scrittura e della scienza, raccolse l’occhio distrutto e ne ricompose sessantatré pezzi, l’ultimo dei quali fu aggiunto magicamente. Nei papiri medici le quantità degli ingredienti sono rappresentate dalle diverse parti dell’occhio udjat, che, quando completo, rappresenta l’unità perfetta.

Puoi mettere anche questa se ti piace di più ma non mi ricordo più da dove l'ho presa

Fonte: goo.gl/gffvj8

Gli ingredienti utilizzati nelle ricette sono di derivazione minerale, animale e vegetale. I minerali solitamente venivano polverizzati con altre sostanze o ingeriti interi sotto forma di piccoli cristalli. L’effetto biochimico sul paziente poteva essere diretto o indiretto tramite l’interazione con gli altri elementi del farmaco. I componenti minerali solitamente avevano anche una valenza magica; ciò è testimoniato dalla grande mole di amuleti realizzati in pietra dura ritrovati con sopra incise delle formule di protezione. Le componenti di origine animale erano utilizzate come veicoli o per rispondere a un’aspettativa magica, come l’assimilazione delle qualità dell’animale. Come accennato precedentemente, alcune sostanze oggi considerate poco consone all’utilizzo medico erano sfruttate con accezione sicuramente religiosa, per allontanare cosiddetti “demoni malattia”. Da ultimo troviamo ingredienti di origine vegetale, utilizzati non solo per le loro proprietà mediche ma anche come narcotici, sedativi e palliativi. In generale tutte le piante di cui si è riusciti a capire un qualsiasi collegamento con le divinità sono utilizzate a scopo terapeutico.

Molti sono i problemi legati alla traduzione di queste componenti poiché i termini utilizzati sono davvero variegati e di difficile comprensione per noi studiosi moderni. In particolare, per quanto riguarda i minerali, è possibile che nel tempo siano stati cambiati i materiali utilizzati o per la somiglianza di colore o per la poca reperibilità sul territorio. Per quanto concerne la sfera botanica, invece, in alcuni casi viene specificata la parte della pianta utilizzata, ma non è ancora stata trovata una traduzione sicura; questo pone un grande problema di interpretazione, perché ogni specie vegetale ha degli impieghi ben precisi a seconda della parte utilizzata (foglie, fiori, corteccia etc.). Negli ultimi anni l’attenzione degli studiosi si è concentrata sull’interpretazione dei termini che indicano la sfera botanica: tuttavia, le indagini sulla farmacopea egizia sono tutt’altro che concluse e questo campo di ricerca viene ora ridiscusso a livello metodologico e approfondito dal punto di vista dell’analisi filologica, in una prospettiva sinottica capace di integrare le fonti testuali con quelle iconografiche e archeologiche.

Elena Urzì

[1] 2055-1650 a.C. circa.

[2] Il papiro di Kahun riporta anche informazioni circa nozioni di veterinaria.

[3] Nei testi funerari e nei miti, gli dei vengono descritti con la pelle d’oro zecchino, i capelli d’argento e gli occhi di lapislazzuli.

[4] Nei papiri medici, Horus bambino è la figura che rappresenta l’uomo infermo.

[5] Nel mito di “Ra divenuto vecchio e della dea Iside”, il dio è descritto talmente anziano da trascinarsi mentre cammina e con la bava che cola dalla bocca.

[6] Osiride è il dio morto per eccellenza.

[7] Testo tradotto e adattato da Bardinet 1995, p. 276.

[8] Bresciani, Del Tacca 2005, p. 148.

[9] Bresciani, Del Tacca 2005, p. 142.

[10] Indagini recenti hanno ipotizzato che si tratti di Ceratonia siliqua L., la pianta del carrubo.

[11] La malachite è in effetti un potente disinfettante per gli occhi che veniva aggiunto al kohl, il tipico trucco che vediamo in tutte le raffigurazioni egizie.

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Breve bibliografia

  • Bardinet T., Papyrus médicaux  de l’Égypte pharaonique: Traduction intégrale et commentaire. Paris, 1995.
  • Bresciani E., Del Tacca M., Arte medica e cosmetica alla corte dei faraoni, Pisa, 2005.
  • von Deines, Grapow H., Westendorf  W., Grundriß der Medizin der Alten Ägypter, 9 Bände, Berlin, 1954-1973.
  • Manniche L., An Ancient Egyptian Herbal, London, 1989.
  • Nunn John F., Ancient Egyptian Medicine, London, 1996.
  • Westendorf W., Handbuch der altägyptischen Medizin. 1.-2. Band, Leiden etc., Brill = Handbuch der Orientalistik/ Handbook of Oriental Studies. Erste Abteilung: Der Nahe und Mittlere Osten/ The Near and Middle East, 36/1-2, 1999.
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“L’Egitto di Provincia”: Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della Sapienza (Roma)

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A quasi un anno dall’inaugurazione del nuovo allestimento (19 marzo 2015), sono finalmente riuscito a visitare il Museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo della “Sapienza” – Università di Roma (e c’è mancato poco che non ce la facessi nemmeno questa volta*). In realtà, il mio è stato un ritorno perché, quando ero ancora una matricola, potei apprezzare la collezione nella vecchia sede di Via Palestro grazie a una “guida” d’eccezione, il Prof. Alessandro Roccati. L’allora Museo del Vicino Oriente era stato fondato da due pilastri dell’accademia italiana, Sabatino Moscati e Sergio Donadoni, per esporre, quando era ancora possibile esportarli, i reperti delle missioni archeologiche dell’Istituto del Vicino Oriente dell’ateneo romano e qualche acquisizione dal mercato antiquario. In 50 anni e oltre 30 campagne di scavo all’estero, sono stati raccolti circa 4000 pezzi da Iraq, Turchia, Siria, Palestina, Giordania, Egitto, Sudan, Tunisia, Algeria, Malta e Cipro, più Sicilia e Sardegna. Oltre all’evidente vastità dei contesti della raccolta, si aggiunge anche l’esteso range cronologico di riferimento che va dalla Preistoria al Medioevo.

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ph. Valentina Di Rienzo

L’attuale collocazione nel palazzo del Rettorato (Piazzale Aldo Moro 5) è il frutto del lavoro del Prof. Lorenzo Nigro, docente di  Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico e direttore del museo. Gli spazi espositivi sono minori rispetto a quelli di Via Palestro ma sicuramente più funzionali. Infatti, nonostante la gran varietà, geografica e cronologica, del materiale, il percorso è chiaro e ordinato in 29 vetrine e 6 pedane, con foto, pannelli, tabelle esplicative, modelli e un touch screen a migliorare l’esperienza del visitatore. Inoltre, è possibile approfondire le informazioni con il proprio smartphone grazie a un QR code per ogni gruppo di oggetti. In ogni caso, ci sono sempre studenti di archeologia pronti a dare spiegazioni.

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Sarcofago di XXVI dinastia (ph. Valentina Di Rienzo)

La collezione egizia occupa metà del museo, dalla Vetrina 16 alla 29 e dalla Pedana 4 alla 6. La quasi totalità dei pezzi proviene dalle campagne in Egitto e Sudan del Prof. Donadoni, recentemente scomparso all’età di 101 anni. In particolare, alcuni oggetti sono stati donati dallo stesso Stato nordafricano come ringraziamento per l’opera di documentazione e salvaguardia in siti nubiani a rischio durante la costruzione della Grande Diga di Assuan: la necropoli predinastica e la città paleocristiana di Tamit e la chiesa copta di Sonqi Tino. Poi ci sono i ritrovamenti da Arsinoe/Crocodilopolis, da Antinopoli, dalla tomba di Sheshonq (TT 27) a el-Asasif (Tebe Ovest), da Napata e la Nubia meroitica. Ultimo reperto del percorso ma sicuramente primo per importanza è il piatto in pietra tufacea con il nome di Hotepsekhemuy (2850 a.C.), faraone iniziatore della II dinastia. Completano la raccolta alcuni calchi in gesso e copie varie, come il busto incompleto di Nefertiti (l’originale a Berlino; visibile nella prima foto), il busto della statua della regina Tuya (Musei Vaticani, seconda foto), i rilievi della tomba di Sheshonq, la sfinge dell’epoca di Thutmosi III (Museo Barracco) e il leone dell’ingresso del Palazzo di Natakamani a Gebel Barkal.

Sito ufficiale: http://www.lasapienzatojericho.it/

Per il resto del reportage fotografico: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.985036541543867.1073741846.650617941652397&type=3

 

*Piccola nota polemica, non così marginale: il normale orario di apertura è martedì, giovedì e sabato 10:00-17:00;  il 12 marzo, però, immagino per la concomitanza del concerto del pianista Yund Li nell’adiacente Aula Magna, il museo è stato aperto dalle 17:00 alle 20:30. Nessuna comunicazione di questa variazione era presente sulla porta, che ho trovato sbarrata di mattina, né sul sito internet o sulla pagina Facebook (il cui amministratore, a dir la verità, ha risposto più tardi alle mie richieste con un messaggio privato). Io sono stato costretto a tornare nel pomeriggio; altri forse non l’avrebbero fatto.

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Il Prof. Sergio Donadoni compie 100 anni

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Il Prof. Donadoni, accompagnato dalla moglie, la Prof.ssa Anna Maria Roveri Donadoni, riceve dal Presidente Ciampi le insegne di di Cavaliere di Gran Croce dell’OMRI. (Source: quirinale.it)

Chi ama l’Egitto sicuramente conoscerà il Prof. Fabrizio Sergio Donadoni, una delle figure più importanti per l’egittologia italiana e mondiale del XX secolo, che oggi compie 100 anni! Così, mi permetto di fargli gli auguri provando a riassumere in breve la sua illustre carriera; cosa non semplice per le tante cariche e i suoi riconoscimenti: Professore Emerito presso “La Sapienza” di Roma, Doctor Honoris Causa all’Université Libre di Bruxelles, membro dell’Accademia dei Lincei, della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, dell’Académie des inscriprions et belles-lettres e dell’Institut d’Égypte, Premio Feltrinelli per l’Archeologia nel 1975 e Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica.

Nato a Palermo il 13 ottobre 1914, si avvicinò prima all’Egitto greco-romano laureandosi alla Normale di Pisa nel 1935 sotto la guida di Annibale Evaristo Breccia, direttore del Museo Greco-Romano di Alessandria. Successivamente, perfezionò la sua formazione a Parigi e a Copenhagen, per poi ricoprire la cattedra di egittologia presso le università di Milano, Pisa e Roma. Tra le sue numerosissime pubblicazioni, ricordiamo “La civiltà egiziana” (1940), “Arte egizia” (1955), “La religione dell’Egitto antico” (1955), “Storia della letteratura egiziana antica” (1957) e “Appunti di grammatica egiziana” (1963). Importante anche l’attività sul campo con la partecipazione agli scavi di Medinet Madi nel Fayyum e la direzione di quelli a Sheikh Ibada (Antinoe), della tomba di Sheshonq a El-Asasif (Tebe Ovest), di Gebel Barkal (Napata) in Sudan e molti altri.

Ma, il ruolo di Donadoni che ha messo più in risalto la presenza dell’egittologia italiana nel mondo coincide con la sua adesione alla squadra di studiosi internazionali convocati dall’UNESCO nel 1960 per salvare i monumenti nubiani minacciati dalla costruzione della Diga di Assuan. I quell’occasione, in una vera e propria corsa contro il tempo, decine di siti archeologici che, da lì a poco, sarebbero stati sommersi dalle acque del Lago Nasser, vennero studiati e pubblicati, mentre alcuni edifici, primo tra tutti il Tempio maggiore di Abu Simbel, furono addirittura spostati.

 

 

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