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L’inusuale sepoltura a pancia in giù di una mummia di 4000 anni a Luxor

@Thutmosis III Temple Project

Momia maldida: questo è l’altisonante nomignolo con cui è stata etichettata sui giornali iberici l’ultima scoperta a Luxor della missione egiziano-spagnola diretta da Myriam Seco Álvarez (Universidad de Sevilla) e Fathi Yaseen Abd El-Karim (direttore generale delle Antichità a Qurna). Stavolta non c’entrano radiazioni o interventi soprannaturali, ma un rarissimo atto di esecrazione perpetrato nei confronti di una donna vissuta circa 4000 anni fa.

Il team che sta portando avanti ormai dal 2008 un progetto di scavo, restauro e valorizzazione del tempio dei Milioni di Anni di Thutmosi III sulla riva occidentale di Tebe, tra el-Assasif ed el-Khokka, ha individuato nella scorsa stagione una sepoltura particolare. Il tempio del faraone della XVIII dinastia, sul trono dal 1479 al 1425 a.C., sorgeva infatti nel punto in cui si trovavano necropoli più antiche, risalenti al I Periodo Intermedio e al Medio Regno. Tra le tombe superstiti ne spicca una, fuori le mura settentrionali della struttura, in cui è stato ritrovato il corpo mummificato di una donna di 35-40 anni, vissuta alla fine dell’XI dinastia (2000 a.C. ca.), a pancia in giù. La posizione prona della mummia è una vera rarità in Egitto e potrebbe implicare interessanti rituali ancora non studiati. Se si conoscono infatti casi simili nel mondo romano e nell’Europa medievale – basti pensare al seppellimento di presunti vampiri o streghe – non si sa il perché la donna abbia subito questo trattamento unico. La tomba era in un tumulo con una sorta di tetto in mattoni crudi e lo stesso sarcofago in legno, di cui restano poche tracce, era chiuso da pietre, come a bloccare il risveglio del cadavere. Il povero corredo funerario consisteva in due soli vasi in ceramica posti ai piedi del corpo, fuori dal sarcofago.

Secondo la Seco, potrebbe trattarsi di una sorta di punizione della defunta o il segno della paura che tornasse fisicamente nel mondo dei vivi.

Il sito della missione: https://thutmosisiiitempleproject.org/

L’approfondimento sulla scoperta di Javier Martínez Babón dal min. 1.06.00:

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Identificata una possibile struttura sepolta nella Piana di Giza

© Higashi Nippon International University

Questa settimana sono stati pubblicati i risultati dello studio di una missione nippo-egiziana che avrebbe individuato a Giza una possibile struttura sepolta, forse una tomba. I ricercatori della Nippon International University, della Tohoku University e del National Research Institute of Astronomy and Geophysics di Helwan avrebbero rilevato un’anomalia sotto metri di sabbia grazie all’utilizzo combinato di strumenti tecnologici come due diversi tipi di georadar e la tomografia di resistività elettrica.

L’area indagata si trova nel Cimitero Occidentale, necropoli a ovest della Piramide di Cheope dove furono sepolti membri della corte e importanti funzionari. In una zona “vuota” di 80 x 110 m a sud della mastaba di Hemiunu, l’architetto della Grande Piramide, gli strumenti hanno identificato una possibile struttura a L di 10 e 15 metri a una profondità di 2, connessa a un’altra anomalia di 10 x 10 più in basso di circa 3-7 metri. Secondo gli studiosi, potrebbe trattarsi di pareti verticali in pietra calcarea o pozzi che conducono a una sepoltura ipogea. Tale ipotesi andrà però confermata con uno scavo archeologico, soprattutto dopo le clamorose smentite che negli ultimi anni hanno seguito molti annunci di questo tipo in Egitto.

L’articolo originale su Archaeological Prospection: https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/arp.1940

© Higashi Nippon International University
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Bufale eGGizie*: la maledizione radiattiva di Tutankhamon

(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’antico Egitto che circolano nel web e non solo)

Negli ultimi giorni, su quotidiani nazionali (il Messaggero e il Giornale) e diversi siti web, sta circolando una roboante notizia sulla presunta scoperta della causa delle misteriosi morti imputate alla maledizione di Tutankhamon. L’eccezionale rivelazione sarebbe il frutto di uno studio pubblicato sul Journal of Scientific Exploration, che ha avuto ampia diffusione dal 26 aprile grazie al Daily Mail. Secondo l’autore, Ross Fellowes, gli sventurati membri della missione di Howard Carter, così come molti altri colleghi egittologi, sarebbero stati avvelenati da un’eccessiva esposizione a radiazioni da uranio. Sarebbe stato quindi fatale il tempo passato in ambienti sotterranei sigillati da millenni con all’interno materiale radiattivo.

Finalmente una spiegazione scientifica a dipartite imputate a fenomeni paranormali! Non proprio…

Già da un’occhiata preliminare, si palesano le prime red flag: parole come “maledizione” o “mistero” nel titolo, la diffusione tramite poco attendibili tabloid inglesi e soprattutto la risposta alla domanda sbagliata. Più che chiedersi perché siano morte quelle persone, va prima appurata la correlazione tra la loro dipartita e la scoperta della tomba di Tutankhamon. E quando una notizia è sospetta, è cosa buona e giusta controllate le fonti originali, anche se sono articoli scientifici.

Va premesso infatti che non è tutto oro il paper che luccica. Esistono infatti riviste chiamate “predatorie” che danno spazio a chiunque, previo pagamento, senza verificare la valenza scientifica degli articoli. Inoltre, qualche errore può sfuggire perfino alle riviste di fascia A e al sistema della revisione tra pari, cioè la valutazione critica e anonima di acclarati esperti del settore a cui gli editori inviano i manoscritti ricevuti.

L’articolo in questione, “The Pharaoh’s Curse: New Evidence of Unusual Deaths Associated With Ancient Egyptian Tombs”, è liberamente consultabile, quindi tutti voi potete verificare di persona: https://doi.org/10.31275/20242855.

Leggendo il pezzo è subito chiaro che Tutankhamon sia solo l’amo che tutti, dal New York Post all’ultimo dei blog generalisti, hanno usato per acchiappare click. Lo studio, infatti, tratta solo marginalmente la scoperta della KV 62; anzi, amplia di molto il campo utilizzando presunte prove filogiche, archeologiche, fisiche, statistiche e mediche per avvallare le tesi finali. Più che alle sepolture della Valle dei Re, l’attenzione dell’autore si rivolge alle mastabe di Antico Regno per cui è proposta una funzione diversa al parere ‘ortodosso’ degli egittologi. Queste strutture – note con il nome arabo che è traducibile con “panche” proprio per la loro forma – sarebbero invece bunker utilizzati per lo stoccaggio di scorie radiattive. Fellowes mette le mani avanti premettendo che lo scopo dell’articolo non è quello di capire chi, come e perché abbia utilizzato una tecnologia così fuori dal tempo. La presenza di questo materiale letale avrebbe di conseguenza fatto ammalare e morire improvvisamente decine e decine di egittologi che, negli ultimi due secoli, hanno lavorato in contesti contaminati. E non è tutto; un’altissima incidenza di tumori ematopoietici – che colpiscono le cellule del midollo osseo, il sistema linfatico e il sistema immunitario – sarebbe stata riscontrata sia tra gli antichi Egizi, quindi vittime delle loro stesse attività, sia tra gli attuali abitanti del paese, a riprova della durata millenaria delle radiazioni. In realtà, il radon – gas radioattivo generato dal decadimento dell’uranio delle rocce e del suolo – è da tempo utilizzato per spiegare le strane morti – spoiler: mai avvenute – di chi fu presente all’apertura della tomba di Tutankhamon; la novità è che Fellowes asserisce che tale radioattività non sia da imputare a cause naturali, ma al consapevole immagazzinamento di torte radiogene, le cosiddette “yellowcake U-235”, anche per punire eventuali tombaroli.

Già la sola fantasia di queste conclusioni basterebbe a far storcere il naso ai più, ma occorre comunque effettuare una valutazione più accurata per chi non abbia modo (o voglia) di approfondire di persona. Avverto fin da subito che l’analisi sarà lunga, ma colgo l’occasione per dimostrarvi come comportarsi di fronte a titoli clickbait e a notizie dubbiose. In generale, l’articolo soffre dei classici difetti dei lavori amatoriali: non tutte le affermazioni sono corroborate da prove o riferimenti bibliografici; i libri e gli articoli citati sono quasi tutti datati; si nota una diffusa reiterazione del “cherry picking”, cioè la raccolta dei soli dati utili a confermare la teoria proposta; fonti filologiche e iconografiche appartenenti a diversi periodi storici sono accostate in maniera decontestualizzata; ci si basa troppo su supposizioni o sensazioni soggettive, scadendo nell’assonanza tra etimologie e nella pareidolia. La ricerca appare limitata al materiale disponibile online, quindi coincidente molto spesso in volumi vecchissimi il cui copyright è scaduto e, per questo, liberamente consultabili in piattaforme come Google Libri o archive.org. È emblematico l’utilizzo di volumi ultracentenari di Wallis Budge – parodizzato perfino in Stargate – per la traduzione del Libro dei Morti, quando ci sarebbero opere molto più recenti e corrette. Un vero studio scientifico deve tener conto di tutti gli aggiornamenti e non può essere svolto solo di fronte a uno schermo: bisogna alzarsi dalla poltrona e andare in biblioteca, anzi, in più biblioteche.

Entrando nello specifico, sfato subito la della maledizione di Tutankhamon perché ho già dedicato un articolo all’argomento. Come premesso all’inizio, non serve arrovellarsi il cervello per cercare una spiegazione sensata a fatti che non si sono mai verificati. Malattie, avvelenamenti, omicidi, incidenti, accadimenti paranormali furono semplicemente fake news di giornalisti ed editori senza scrupoli che cercarono espedienti per vendere più copie in mancanza di notizie vere monopolizzate dal Times, a cui Lord Carnarvon, il finanziatore della missione di Carter, aveva venduto l’esclusiva. D’altronde Mark Nelson, in un articolo pubblicato nel 2002 sul British Medical Journal e citato anche da Fellowes, ha evidenziato che tra i 25 europei presenti all’ingresso nella tomba, all’apertura del sarcofago o all’autopsia della mummia, l’età media di morte supera i 70 anni e un ventennio circa dopo il “contatto”. Carter, primo indiziato per un’eventuale vendetta del faraone, morì a 65 anni nel 1935; Lady Evelyn, figlia del conte, arrivò al 1980; Richard Adamson, capo sicurezza della spedizione, addirittura al 1982.

Fellowes include comunque molti di questi, Carter e Carnarvon compresi, tra le 119 morti sospette di egittologi, antiquari, disegnatori, funzionari che hanno lavorato in Egitto dal 1800 a oggi. Evidentemente scettico di fronte a diagnosi di ictus, attacchi di cuore, polmoniti, dissenteria, malaria e altre febbri esotiche, l’autore sospetta che tutti questi personaggi, raccolti tra un record totale di 505 casi, siano deceduti a causa delle radiazioni. Tutto ciò sulla base di ricerche fatte online (di cui però non si cita la fonte) e di supposizioni. Le morti premature – comunque in esponenziale diminuzione, non segnalata, con l’avanzare dei decenni – sono perfettamente comprensibili in un mondo così difficile come quello dell’Egittologia dei primordi. Tra caldo, viaggi estenuanti, animali velenosi, condizioni igieniche precarie è normale che l’aspettativa di vita fosse più bassa rispetto a chi restava in Europa. Scavare in Egitto resta ancora oggi un lavoro fisicamente impattante e lo dico per esperienza personale. In ogni caso, a testimonianza della superficialità della ricerca, faccio notare ad esempio l’assenza in lista di Giuseppe Raddi, botanico della missione Franco-Toscana del 1828-29, che pur avrebbe fatto comodo allo scopo dello studio essendo morto di dissenteria a Rodi mentre tornava d’urgenza in patria. Per l’alta incidenza dei tumori nell’attuale popolazione egiziana, invece, Fellowes cita alcuni articoli scientifici da cui però trae solo alcuni dati, rigettando – senza argomentare – la causa della malattia che gli scienziati imputano allo stile di vita moderno, soprattutto alla dieta, e a inquinanti industriali.

Il culmine dell’immaginazione si raggiunge con piroette etimologiche atte a dare un nuovo significato a parole antico-egiziane o arabe. Il termine mastaba – come detto “panca” – in origine sarebbe stato tradotto non con l’attuale inglese bench ma con l’arcaico benc – cito – “imparentato con il latino banc, banque, o il bunke celtico, da cui si ottengono banca e bunker”. Ecco quindi che mastaba sarebbe in qualche contorto percorso filologico, il retaggio dell’utilizzo originale delle strutture funerarie, cioè quello di sigillare materiale pericoloso. D’altronde, nello stesso errore incorrevano anche gli storici ottocenteschi che cercavano l’origine dei popoli antichi confrontando toponimi simili. Ancora più forzata è l’interpretazione delle “torte di zafferano” – nominate, secondo il testo di Budge (1895, pp. 52-3), nel capitolo 17 del Libro dei Morti – con le cosiddette yellowcake, cioè il prodotto finale dei processi di concentrazione e purificazione dei minerali estratti che contengono l’uranio. Il solo colore dell’ingrediente di una delle offerte funerarie basterebbe in tal senso a pensare allo stoccaggio di materiale grezzo di uranio-235 che, tuttavia, dovrebbe essere arricchito “a una concentrazione più elevata,
che ha la forma di un liquido lattiginoso refrigerato” per portare a una rezione nucleare. A questo punto, quindi, Fellowes sfrutta indiscriminatamente un altro corpus di formule funerarie, i Testi dei Sarcofagi, in cui le offerte di latte indicherebbero proprio quest’operazione. Da qui in poi, si sussegue una serie di allusioni sparse tra Testi delle Piramidi, dei Sarcofagi e Libro dei Morti che sarebbero da leggere come velati riferimenti a “effluvi” radioattivi, contaminazioni ed effetti negativi. Il problema a monte è proprio l’utilizzo di pubblicazioni ormai superate. Il presunto ingrediente giallo è in realtà la faience, il tipico materiale vetroso con cui gli Egizi realizzavano contenitori, amuleti, statuine e altri oggetti. Quindi msy.t m ṯḥn.t non è da tradurre con “torte di zafferano” ma con “piatti di faience” (Faulkner 1998, pl. 10; Quirke 2013, p. 62).

Non manca ovviamente la numerologia più spinta, freccia sempre presente all’arco dagli pseudoarcheologi che fanno coincidere cifre casuali con messaggi criptati. La quantità di prodotti offerti in 2, 3 o 5 porzioni (non sempre in questo ordine, ma chi se ne frega) sarebbe un chiaro riferimento l’isotopo fissile 235U, in grado di sviluppare una reazione a catena di fissione nucleare. Il numero di alcuni volatili raffigurati nei rilievi delle mastabe – 111.200 colombe e 120.000 o 121.200 anatre (la cifra ovviamente quando non coincide dipende da errori di copiatura di scribi e artigiani) – attraverso un calcolo piuttosto approssimativo suggerirebbe il tempo di decadenza di due tra i rifiuti radiattivi più problematici, il tecnezio e il cesio. Questo perché l’uccello con cui è raffigurato il ba, indicherebbe le radiazioni beta, così come il ka sarebbe simbolo delle onde gamma. Le anime/spiriti che lasciano il corpo di Osiride sarebbero da interpretarsi quindi con il rilascio di raggi dannosi da scorie nucleari.

Ma com’è possibile che un articolo pseudoarcheologico sia stato pubblicato su una rivista scientifica?

Il Journal of Scientific Exploration: Anomalistics and Frontier Science, già dal sottotitolo e da quanto scritto nelle linee guida, palesa subito criticità. Accetta infatti articoli di diverse discipline “valutati con logica e apertura mentale per presentare al mondo accademico ipotesi provocatorie che altrimenti verrebbero rifiutate dalla maggior parte delle riviste convenzionali”. Basta scorrere gli indici per leggere studi su ufologia, parapsicologia, reincarnazione, medium, fantasmi, negazionismo, medicina alternativa, criptozoologia, esperienze di pre-morte. Non mancano critiche no-vax alla gestione del Covid-19 e perfino il debunking di debunker del mostro di Lock Ness e altri mostri. Insomma, il JSE sembra come minimo dar voce alle “fringe sciences”, cioè controverse teorie di confine, anche se la filosofa della scienza Noretta Koertge ci è andata ben più pensante definendo la rivista come un “tentativo di istituzionalizzare la pseudoscienza”. E in effetti, a fronte di un formato accademico e al dichiarato utilizzo della peer-review, le tematiche sono più che dubie. Insomma, arroccarsi sulla torre di avorio è sempre stato un errore degli studiosi, ma è pur vero che, citando un aforisma amato da Piero Angela, «bisogna avere sempre una mente aperta, ma non così aperta che il cervello caschi per terra».

Dell’autore, invece, si sa molto meno. Non si conosce l’istituzione a cui è affiliato (o era, visto che è definito “in pensione” sul sito del JSE) né la disciplina in cui è specializzato. Cercando sul web risultati precedenti al marzo 2024, non compaiono altre pubblicazioni o notizie in generale su Ross Fellowes. A suo nome, c’è un profilo vuoto di academia.edu in cui sono elencati tra gli interessi “archeologia”, “archeologia del Pacifico” e “archeologia dei paesaggi”. Non che un’opera prima debba per forza essere da buttare, ma, a meno che abbia utilizzato un altro nome, per uno studioso a fine carriera la cosa è piuttosto sospetta. Ed effettivamente, potrebbe trattarsi proprio di uno pseudonimo. Per puro caso, ho trovato un suo possibile vecchio commento del 2013 in cui, sotto un articolo sugli Annunaki, un utente con il suo stesso nome scrive di apprezzare i lavori del famigerato sostenitore della “teoria degli antichi astronauti” Zecharia Sitchin e, per approfondire l’argomento, consiglia un libro di un certo William Gleeson. Seguendo il link verso il blog pseudoarchologico di Gleeson, mi sono accorto che l’avatar – un moai dell’Isola di Pasqua (ricordate l’archeologia del Pacifico?) con gli occhi modificati – era lo stesso. In sostanza, sembra un’auto-marchetta mascherata. E c’è di più! La stessa immagine è utilizzata nell’account su Quora di un William Gleeson, “ex consulente biotecnologico e scettico”, laureato in Biotecnologie nel 1975 presso la University of Auckland. Quora è una piattaforma in cui si pubblicano domande e risposte su qualsiasi argomento e Gleeson sembra essere particolarmente interessato a teorie alternative sull’antico Egitto. Tra le centinaia di contenuti a suo nome, spiccano riferimenti alla maledizione dei faraoni, alla conoscenza dell’uranio in antichità (1, 2, 3) e un post – riproposto anche su academia.edu – sulla funzione alternativa delle mastabe. Qui si trovano gli stessi temi, immagini (ad es. le figg. 3-5) e interi paragrafi pubblicati nell’articolo di Fellowes. Mi sembra quindi evidente che Gleeson e Fellowes siano la stessa persona.

Al di là dell’identità nascosta di Fellowes (probabilmente è questo il vero nome), si ripresenta il solito problema delle discipline umanistiche – archeologia in particolare -, viste come un passatempo per pensionati che nella vita si sono occupati di tutt’altro. Lontani dall’umanesimo rinascimentale in cui alcuni eruditi si barcamenavano con successo in qualsiasi campo dello scibile umano, dalla letteratura alla matematica, dall’architettura all’anatomia, la moderna ricerca scientifica si è evoluta verso una netta specializzione del sapere. Ormai i tuttologi hanno senso solo nei talk show televisivi. E ben vengano gli egittofili – d’altronde non farei divulgazione altrimenti -, ma per scrivere un articolo scientifico bisogna avere una preparazione e soprattutto un metodo accademico che la sola passione non può sostituire. A questo dovrebbero pensare anche i giornalisti e sedicenti divulgatori che continuano a proporre “scoop” sensazionalistici senza verificare l’attendibilità delle notizie pubblicate e non rivolgendosi ai veri esperti nel campo.

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Alla prima maglia rosa del Giro d’Italia anche la collana di Kha

A Jhonatan Narváez l’oro di Kha!

Pochi minuti fa, il ciclista ecuadoriano, vincitore della prima tappa del 107° Giro d’Italia (Venaria-Torino), è stato premiato con una riproduzione della collana dell’Architetto e Capo della Grande Casa sotto i regni di Amenofi II, Thutmosi IV e Amenofi III (ca. 1425-1353 a.C.). A consegnare il riconoscimento alla prima maglia rosa del 2024 è stata Evelina Christillin, presidente della Fondazione Museo delle Antichità Egizie, che aveva presentato l’inziativa presso il Museo Egizio alla vigilia delle tappe piemontesi.

La scelta di dare questo specifico oggetto (foto in basso a sinistra) non è dovuta solo all’arrivo della tappa nella città che ospita la più importante collezione egizia d’Italia. Il collare shebyu è infatti un’ampia collana formata da una fitta serie di dischi aurei che rientra nella categoria di “oro del valore”, cioè gioielli che venivano elargiti dal faraone a funzionari particolarmente meritevoli. In sostanza, un premio, un riconoscimento proprio come la maglia rosa.

Il monile è fra l’altro ancora al collo della mummia di Kha che fortunatamente non è stata mai sbendata da quando fu scoperta nel 1906 nella sua tomba intatta (TT 8) a Deir el-Medina da Ernesto Schiaparelli, l’allora direttore del Museo Egizio. O meglio, il corpo, insieme a quello della moglie Merit, è stato sottoposto a un’autopsia virtuale che ha permesso di sfogliare, strato dopo strato, la copertura delle mummia. Grazie all’utilizzo della TAC e alla stampa 3D è stato quindi possibile, senza toccarli, evidenziare e ricreare i gioielli dei coniugi.

Source: gazzetta.it, museoegizio.it

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Scoperto palazzo fortificato di 3500 anni nel Sinai settentrionale

Source: Ministry of Tourism and Antiquities

La missione egiziana diretta da Hisham Hussain ha scoperto un palazzo reale fortificato di 3500 anni nel nord del Sinai. Il ritrovamento è stato effettuato nel sito di Tell el-Hebua (vicino alla città di Qantara e a 3 km a est dal Canale di Suez), corrispondente all’antica Tjaru, il più grande sistema militare lungo la “Strada di Horus” che attraversava la penisola per proteggere il confine orientale (per approfondire, consiglio l’articolo di Alberto Pollastrini). 

L’edificio in mattoni crudi sarebbe infatti unaa stazione intermedia per le tante campagne militari in Asia di Thutmosi III (1481-1425 a.C.), al cui regno risalgono diversi reperti individuati nell’area, tra cui ceramica e uno scarabeo. Tuttavia, il palazzo sarebbe stato fortificato solo in un secondo momento con l’aggiunta di un muro di cinta e un ingresso principale sul lato est. La struttura è composta da due sale rettangolari maggiori con ambienti secondari annessi. Dopo l’ingresso originale situato a nord, si entrava nel salone più ampio ornato con tre basi di colonna in calcare, per poi passare attraverso due porte – di cui sono state ritrovate le soglie in pietra – nella seconda stanza, anch’essa caratterizzata dalla presenza di due basi di colonna.

Dopo una fase di “abbandono” durante il Terzo Periodo Intermedio, in cui gli spazi sono stati sfruttati per sepolture – tra cui deposizioni infantili in anfora (foto in basso a sinistra) -, nella XXVI dinastia sono datati i lavori di fortificazione. In un deposito di fondazione di nuovi edifici, ad esempio, è stata scoperta una placca in faience con il cartiglio di Amasis (569-526 a.C.; foto in basso a destra).

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Mohamed Ismail Khaled nuovo segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità

Un’indiscrezione giornalistica, rilanciata settimane fa su diversi siti egiziani dopo le polemiche sul “restauro” della Piramide di Micerino e basata, a quanto pare, su fonti interne del Ministero delle Antichità e del Turismo, aveva anticipato la mancata conferma di Mostafa Waziry come Segretario Generale del Consiglio Supremo delle Antichità (SCA). Contestualmente, Zahi Hawass aveva pubblicato sui suoi social un post in cui si aspettava un’imminente promozione per Waziry, poi concretizzata nel ruolo di Primo assistente per gli Affari Tecnici, gli Scavi e le Missioni archeologiche del ministro Ahmed Eissa.

La notizia è stata ufficialmente confermata poco fa e la carica è passata, per decisione del Primo Ministro Mostafa Madbouly, a Mohamed Ismail Khaled. Khaled, dopo aver ricoperto diverse manzioni all’interno dello SCA – tra cui Direttore dell’Ufficio Tecnico del Capo dell’Amministrazione Centrale delle Antichità del Cairo e di Giza, Direttore del Dipartimento di Ricerca Scientifica, Supervisore del Dipartimento di Editoria Scientifica e Supervisore Generale dei Comitati Permanenti per gli Affari delle Missioni Estere – era passato all’Università di Würzburg e dirigeva la missione egiziano-tedesca presso la piramide di Sahura ad Abusir (ed effettivamente era stato già menzionato qui sul blog).

https://english.ahram.org.eg/News/519438.aspx

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Dahshur, scoperta mastaba di Antico Regno

Source: Ministry of Tourism and Antiquities

La missione dell’Istituto Archeologico Tedesco al Cairo (DAIK), diretta da Stephan Seidlmayer (Freie Universität Berlin), ha individuato a Dahshur una mastaba di Antico Regno. La tomba era costruita in mattoni crudi, ma aveva le pareti completamente dipinte con scene di vita quotidiana. Dalla lettura dei testi geroglifici conservatisi, si è capito che fosse l’ultima dimora di Seneb-nebef, funzionario di palazzo intorno al 2300 a.C., tra la fine della V dinastia e l’inizio della VI, e di sua moglie Idut, sacerdotessa di Hathor.

Dahshur, a circa 30 km a sud del Cairo, è un sito noto soprattutto per le due piramidi – la Romboidale e la Rossa – fatte costruire nel 2600 a.C. circa da Snefru, primo faraone della IV dinastia. L’area è disseminata di sepolture di membri della famiglia reale e funzionari di Antico Regno, ma anche successive per la presenza dei complessi piramidali di Medio Reegno.

La mastaba (dall’arabo “panca” per via della forma della struttura) appena scoperta si trova a est della Piramide Rossa, nella necropoli dove venivano sepolti gli abitanti della città dei costruttori delle piramidi, in una zona indagata ormai da 20 anni dalla missione del DAIK e dalla Freie Universität di Berlino.

https://www.dainst.org/en/research/projects/noslug/2772

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Nuovo corso online di Egittologia per non Egittologi (Pisa, 1-8 luglio 2024)

Spesso, chi segue questo blog mi chiede se conosca corsi di Egittologia aperti anche ad appassionati che, nella vita, magari si occupano di tutt’altro. Dopo il successo dello scorso anno, la Summer School di Egittologia, organizzata dall’Università di Pisa e in cui sono coinvolto in qualità di supporto organizzativo e docente, sarà online! Si tratta di un programma intensivo di 8 giorni, che si terrà a Pisa dal 1 all’8 luglio 2024, e che ha lo scopo di fornire tutte le nozioni base dei principali aspetti della disciplina egittologica.

Le lezioni saranno tenute da professori e ricercatori dell’Università di Pisa, centro d’eccellenza dell’Egittologia italiana e internazionale, che insegneranno ai partecipanti le basi della storia, dell’archeologia e della lingua dell’Antico Egitto. Saranno quindi trattati i principali eventi della millenaria storia della civiltà faraonica, dal Predinastico all’Epoca Romana, i più importanti siti archeologici e monumenti della Valle del Nilo e i fondamenti del sistema geroglifico. Ci sarà inoltre modo di approfondire temi specifici, come Tutankhamon e la sua tomba, Akhenaton e il periodo amarniano, la mummificazione, la religione, la magia e l’astronomia, le principali scoperte archeologiche degli ultimi anni, e di sfatare insieme i più famosi luoghi comuni nell’ambiente egittologico.

Quindi, se avete voglia di addentrarvi per la prima volta nella storia e nell’archeologia dell’antico Egitto e cimentarvi con i geroglifici, o comunque di implementare le vostre conoscenze, non vi resta che iscrivervi!

Trovate tutte le informazioni su programma, docenti, modalità d’iscrizione e altro nel sito internet dedicato alla Summer School:

https://egittologiasummerschool.wordpress.com

È possibile iscriversi entro il 15 maggio 2024.

Per altre curiosità, potete anche scrivere all’indirizzo mail egittologia.summerschool@gmail.com o contattarmi in privato sui miei social.

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“Arsinoe 3D. Riscoperta di una città perduta dell’Egitto greco-romano” (Firenze, 14/12/23-15/05/24)

Qualche giorno fa ho visitato una mostra a Firenze che mi incuriosiva da tempo. A cura di Francesca Maltomini e Sandro Parrinello, Arsinoe 3D. Riscoperta di una città perduta dell’Egitto greco-romano racconta con strumenti innovativi la missione archeologica 1964-65 dell’Istituto Papirologico “Girolamo Vitelli” nel sito fayyumita di Arsinoe. L’esposizione è allestita presso il Museo di Storia Naturale, Antropologia e Etnologia (via del Proconsolo 12, fino al 15 maggio) ed è il frutto della collaborazione tra l’Istituto Papirologico, il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze e il DAda-LAB del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura dell’Università di Pavia. Già gli enti coinvolti palesano la multidisciplinarità e l’interattività dell’evento che, oltre a esporre i consueti reperti archeologici, accompagna virtualmente il visitatore su uno scavo di 60 anni fa.

Prima di parlare della mostra, occorre però contestualizzarne il topic. Arsinoe è il toponimo greco con cui alcuni autori classici chiamarono l’antica Shedet, che si trovava in corrispondenza dell’odierna Medinet el-Fayyum. La città e il suo importante tempio di Sobek, ormai quasi del tutto cancellati dalle moderne abitazioni, sono stati indagati nel 1887 dal tedesco Georg Schweinfurth, seguito l’anno successivo dal celebre archeologo britannico Flinders Petrie e, negli anni ’30 del Novecento, dall’egittologo egiziano Labib Habachi. Già negli anni ’60 il sito era a forte rischio a causa dell’espansione edilizia, così il Servizio delle Antichità si avvalse della collaborazione dell’Istituto Papirologico Fiorentino – attivo in precedenza a Ermopoli, Ossirinco, Tebtynis, el-Hibeh e Antinopoli – per indagare l’area a sud del tempio di Sobek. Lo scavo fu diretto dall’egittologo Sergio Bosticco e dal papirologo Manfredo Manfredi, ma vide l’illustre partecipazione anche di Sergio Donadoni, Edda Bresciani e Claudio Barocas. Tutta questa storia viene raccontata con testi, foto e grafiche su ampi pannelli ai due lati della scalinata d’ingresso del museo.

Purtroppo, come dicevo, non rimane quasi niente delle vestigia di Arsinoe; inoltre, a esclusione di un breve rapporto, il lavoro della missione dell’Istituto – l’ultima a indagare estensivamente il sito – non è mai stato pubblicato. Così uno degli obiettivi del progetto da cui è nata la mostra era proprio quello di rendere di nuovo fruibile un patrimonio storico perduto partendo da ricerche d’archivio sulla documentazione di scavo e dall’utilizzo delle nuove tecnologie. La vecchia pianta generale, disegnata dall’architetto Francesco Forti senza riferimenti metrici, è stata la base per la realizzazione – grazie alle diverse prospettive delle foto e agli appunti degli archeologi dell’epoca – di un modello 3D messo a disposizione dei visitatori in due formati: due ricostruzioni tangibili in miniatura e un’esperienza immersiva che permette – tramite un visore VR e due controller – di partire dalla tenda della missione, attraversare il cantiere e interagire con le antichità.

Gli oggetti scelti per l’esperienza virtuale coincidono con i veri reperti esposti di cui si è potuta stabilire la posizione esatta di ritrovamento. L’Istituto Papirologico ottenne circa 1500 pezzi dal Servizio delle Antichità, ma la selezione per la mostra comprende figurine in terracotta di età tolemaica raffiguranti divinità (Iside-Afrodite, Arpocrate, Bes) e animali (oca, gallo, dromedario, cavallo, leone, scimmia), oltre a timbri, lucerne, anfore, vasi e altri contenitori ceramici, un elemento di conduttura idrica e un mortaio in pietra. Menzione d’onore v assolutamente allo stranissimo Arpocrate, questa volta in calcare, la cui faccia appena abbozzata sembra un’emoji (foto in basso al centro)! Ogni reperto è corredato di un modello 3D raggiungibile con codide QR; inoltre, ancora una volta è possibile toccare con mano riproduzioni realizzate con stampante 3D.

Nelle vetrine sono esposti anche i diari di scavo e alcuni degli strumenti usati nel ’64-65. Ovviamente non potevano mancare papiri che, tuttavia, non provengono da Arsinoe. La missione, infatti, non ne trovò durante gli scavi, ma gli esemplari esposti – lettere private, note commerciali, testi letterari – sono stati scelti per via del loro contenuto che contestualizza e spiega l’utilizzo degli altri reperti. Discorso a parte è l’ultima sezione dedicata al papiro in quanto supporto scrittorio. I frammenti presenti (Papiri della Società Italiana) fungono da esempio delle diverse tipologie di documenti e di scritture riscontrabili.

Il catalogo è scaricabile gratuitamente al seguente link: https://books.fupress.com/catalogue/arsinoe-3d/13918

* Ringrazio Ilaria Cariddi e Alessio Corsi per guidato alla visita della mostra illustrandomi il lavoro che hanno svolto nel prepararla.

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Chiusa per restauro la tomba di Nefertari

Comunemente considerata la più bella tomba in Egitto, la QV66 potrebbe non essere più visitabile dal pubblico per un lungo periodo. Lo scorso 2 marzo, la tomba di Nefertari, nella Valle delle Regine (Tebe Ovest), è stata chiusa a tempo indeterminato per restauri urgenti. Il provvedimento è passato un po’ in sordina perché non c’è stato un vero e proprio comunicato ufficiale sui canali del Ministero del Turismo e delle Antichità, ma alcune agenzie turistiche – come riferito sul sito di Cairo 24 – hanno ricevuto una lettera informativa dall’Egyptian Travel Agents Association.

Sembra infatti che le meravigliose pitture dell’ultima dimora di Nefertari, Grande Sposa Reale di Ramesse II, mostrino evidenti segni di degrado. Nonostante il prezzo d’ingresso non sia dei più economici – circa 60 euro – e che quindi la sepoltura non sia investita dal turismo di massa, è possibile che la sua riapertura al pubblico avvenuta nel 2016 abbia influito negativamente sulla conservazione.

Scoperta nel 1904 dalla missione del Museo Egizio di Torino diretta da Ernesto Schiaparelli, la tomba di Nefertari colpì subito per la vividezza dei colori delle decorazioni, tanto da far nascere l’epiteto “Cappella Sistina dell’antico Egitto”. Al contempo, però, già negli anni ’50 del Novecento si dovette chiudere la struttura a causa dei danni provocati dalle infiltrazioni d’acqua e dai sali. Fu quindi necessario un epocale intervento di restauro finanziato dal Getty Conservation Institute (Los Angeles) e affidato a Paolo e Laura Mora (Istituto Centrale per il Restauro di Roma) con la partecipazione, tra gli altri, del compianto Adriano Luzi della cui storia ho scritto già sul blog.

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