Ed eccoci, come di consueto, a parlare delle scoperte della missione egiziano-tedesca a Matariyya (sobborgo del Cairo), diretta da Aiman Ashmawy (MoTA) e Dietrich Raue (Università di Lipsia, direttore dell’Istituto Archeologico Tedesco al Cairo). D’altronde, l’antica Eliopoli, capitale del 13° nomo del Basso Egitto, vide per oltre 2500 anni la costruzione di templi dedicati al dio sole Ra e altre divinità come Amon, Horus, Hathor e Mut. A testimonianza di questa millenaria stratificazione religiosa, che portò a uno dei centri cultuali più estesi d’Egitto, i ritrovamenti importanti non mancano mai.
Nello specifico, l’ultima campagna di scavo si è svolta intorno al museo all’aperto, dove si trova l’Obelisco di Sesostri I. L’indagine ha portato al rinvenimento di numersosi frammenti di statue reali risalenti al II millennio che, per motivazioni ancora non chiare, erano deposti sotto il pavimento del tempio del I millennio. Tra questi, si riconoscono sculture in quarzite, granito e grovacca di Sesostri III (1882-1842), un re non ancora identificato della XIII dinastia (1800 a.C. circa), Horemheb (1319-1292), Ramesse II (1279-1213), Ramesse VII (1137-1130) e Psammetico II (595-589).
A sud del museo, invece, è stata individuata una vasta porzione di 15 x 15 metri del pavimento in calcare del tempio (foto in alto), cosa piuttosto rara perché il santuario, ormai smantellato, fu utilizzato come cava di materiale da costruzione fin dalla tarda antichità.
Oltre 2000 teste d’ariete, mummificate e deposte dai fedeli in onore di Khnum in epoca tolemaica: è l’impressionante ritrovamento effettuato dalla missione dell’Institute for the Study of the Ancient World della New York University ad Abido. I crani degli animali, consacrati al dio vasaio modellatore della vita, si trovavano, alcuni ancora coperti dal lino (foto in basso), in uno dei magazzini a nord del tempio che Ramesse II (1279-1212 a.C.) fece costruire per la triade Osiride-Iside-Horus, nei pressi del più celebre santuario iniziato dal padre Seti I. Le prime tracce di questa grande forma di devozione popolare, inedita per il sito, erano state individuate dal team diretto da Sameh Iskander e da Ogden Goelet già nel 2020, quando erano emerse ossa di toro lasciate più di 20 secoli fa (332-30 a.C.), a testimonianza di un utilizzo millenario del luogo di culto. Insieme alle teste di montoni, sono stati trovati resti di pecore, cani, capre selvatiche, buoi, gazzelle e manguste.
Source: Ministry of Tourism and Antiquities
Lo scavo dell’area settentrionale del tempio ha permesso inoltre di definire meglio lo spazio occupato dal santuario e ha portato al ritrovamento di centinaia di reperti, tra statue, frammenti di papiri, resti di antichi alberi, sandali in cuoio. A quanto pare, però, l’area non fu attiva solo tra Nuovo Regno e periodo tolemaico, ma da ben prima, come testimonia un’imponente struttura in mattoni crudi risalente alla fine della VI dinastia (2200 a.C. circa) e caratterizzata da muri spessi 5 metri dall’inusuale forma (foto in basso a destra).
Continua l’opera di pulizia, restauro e documentazione del Tempio di Esna ed emergono i 12 segni dello Zodiaco nei loro splendidi colori originali.
Il santuario fu costruito 60 km a sud di Luxor in epoca tolemaica per il dio Khnum, le sue consorti Menhit e Nebtu, loro figlio Heka e per la dea Neith. Tuttavia, la sua vasta decorazione, che risale soprattutto al periodo romano, dall’imperatore Claudio (41-54) a Decio (249-251), era coperta da spessi strati scuri di fuliggine e guano. Così, un team egiziano-tedesco, diretto da Christian Leitz (Università di Tübingen) e Hisham El-Leithy (Ministero del Turismo e delle Antichità), ha iniziato nel 2018 un importante lavoro atto ad aggiornare la pubblicazione dei testi del tempio dell’egittologo francese Serge Sauneron.
Nello specifico, oggi è stato annunciato il completamento della pulizia di una delle sezioni della parte meridionale del soffitto astronomico, quella che presenta lo Zodiaco. Dopo le nuove costellazioni emerse negli scorsi anni, tutti i 12 segni zodiacali ora sono perfettamente visibili (nelle foto si notano Sagittario e Scorpione) nella composizione inquadrata dalle volte celesti (la dea Nut) orientale e occidentale. Insieme a loro, pianeti come Giove, Saturno e Marte, divinità, geni e animali fantastici:
In ogni caso, l’importanza dei risultati, al di là del recupero dei colori delle pitture, sta nella scoperta dei nomi dei soggetti che, essendo solo scritti in nero e non in rilievo, erano praticamente impossibili da vedere prima d’ora.
Qualche giorno fa, invitato a Trieste dal Centro Culturale Egittologico Claudia Dolzani per tenere una conferenza, ho approfittato dell’occasione per visitare la città per la prima volta. Tra le tappe scelte nel mio breve soggiorno nel capoluogo del Friuli-Venezia-Giulia, non poteva mancare il Museo d’Antichità J.J. Winckelmann che conserva una delle collezioni egizie “minori” più importanti d’Italia.
Quella del già Civico Museo di Storia ed Arte è infatti, insieme a quella della Pilotta a Parma, la raccolta egizia più cospicua esaminata per questa rubrica. Con circa 1500 reperti e 4 stanze dedicate, è in effetti difficile accomunarla ad altre in cui gli oggetti egizi si limitano a poco più di una vetrina. Prima di passare all’Egitto, però, vale la pena fare una brevissima panoramica sulla storia del museo che, per le sue peculiarità, può essere considerato un punto di riferimento per la cittadinanza. Infatti, grazie alla gratuità e alla bellezza degli spazi aperti (Orto Lapidario e Giardino del Capitano), il Museo Winckelmann è un piacevole luogo dove passare il tempo libero. La sua origine risale all’8 giugno 1843 quando, in occasione del 75° anniversario della morte di Johann Joachim Winckelmann, fu aperto ufficialmente al pubblico l’Orto Lapidario in cui si trova il cenotafio del celebre studioso tedesco, padre del neoclassicismo, assassinato proprio a Trieste. Il Museo vero e proprio, invece, fu inaugurato nel 1873 dopo che il Comune ebbe acquistato una collezione di ben 25.500 antichità aquileiesi del farmacista triestino Vincenzo Zandonati.
Già nell’Orto Lapidario s’incontrano, in un certo senso, tracce di Egitto, con piccole are romane dalla zona di Aquileia dedicate a divinità egiziane come Iside e Anubi (immagine in alto a sinistra). Altre testimonianze della diffusione dei culti egizi nel mondo classico sono invece rintracciabili in una testa del dio Serapide e un rilievo di una sacerdotessa isiaca esposti nel mausoleo di Winckelmann, oltre a piccoli oggetti, come bronzetti di Iside-Fortuna, nelle sale romane (foto in alto).
La Collezione egizia è composta da reperti donati, dal 1873 ai primi decenni del XX secolo, da cittadini triestini che si erano recati in Egitto per lavoro o per un semplice viaggio di piacere. Il porto franco di Trieste, grazie al suo sistema fiscale privilegiato e al ruolo del Lloyd Triestino, era infatti uno dei principali scali commerciali europei del XIX secolo e, per questo, era costantemente inserito nelle rotte mercantili e turistiche da e verso il Mediterraneo Orientale. Se Livorno divenne la porta d’accesso continentale alle grandi collezioni museali raccolte durante l’Età dei Consoli, Trieste vide soprattutto l’afflusso di piccoli nuclei di antichità acquistate come souvenir da privati colpiti dalla diffusa egittomania (per maggiori informazioni sui donatori, rimando all’estratto del catalogo linkato in basso). Alcuni reperti e mummie esposti, però, fanno parte del patrimonio del Museo Civico di Storia Naturale e sono in deposito permanente presso il Museo Winckelmann.
Si parte dalla sala più grande (foto in alto) intitolata a Claudia Dolzani, studiosa triestina che per prima si adoperò allo studio e allestimento della raccolta. Alle pareti ci sono chiare didascalie ed esaustivi pannelli cronologici, oltre a tavole inerenti all’antico Egitto tratte dalla prima edizione italiana completa (1830-1834) degli studi di storia dell’arte di Winckelmann. Entrando nella sala, l’occhio è subito catturato dai tre sarcofagi, due in pietra (Suty-Nakht, XIX din.; Aset-reshty, XXVI din.) e uno in legno (Pa-di-amon, XXI din.) con all’interno una mummia non pertinente aggiunta in antichità o nel XIX secolo. Di quest’ultimo è apprezzabile la spiegazione di ogni singola scena dipinta sulla cassa e sul coperchio.
Il resto degli oggetti, di taglia molto più piccola, è disposto in vetrine tematiche. D’altronde, per contesti così eterogenei e provenienti dal mondo dell’antiquaria, è probabilmente l’unico modo di esposizione. Abbiamo quindi gruppi tipologici – come parti di sarcofago, stele, ushabti (tra cui ne spiccano tre di Seti I), canopi, amuleti – o divisi per i macroargomenti divinità – dove abbondano, come sempre, bronzetti di Osiride e Iside – e animali – in cui ogni divinità zoomorfa è rappresentata dai relativi amuleti e mummie (gatto, falco e coccodrilli) -. Restano alcuni reperti “sfusi” come falsi ottocenteschi, un pyramidion di epoca tolemaica (di cui è stata effettuata anche una copia presente in sala), quattro fogli di papiro con il Libro dei Morti dello scriba Amenhotep (XVIII din.) e una rara statuetta incompiuta di un sovrano tolemaico inginocchiato dietro una stele. Ogni insieme è ampiamente spiegato nelle didascalie, togliendo un po’ spazio alle informazioni relative ai singoli pezzi. Nel complesso si ha quindi un esaustivo catalogo didattico delle più comuni espressioni della cultura materiale egizia.
Dopo un ambiente di passaggio, dove è esposto solo un rilievo con Nereidi ed erote su un delfino del V sec. d.C., si entra in una piccola sala in cui è ricostruito il contesto funerario del sacerdote Pa-sen-en-hor (Tebe, XXI-XXII din.), di cui si mostra la mummia, il sarcofago antropoide in legno e la copertura in cartonnage (foto in alto). Qui l’illuminazione si attiva solo al passaggio del visitatore risparmiando stress superfluo alle variopinte pitture dei reperti.
L’ultima sala è dedicata ai periodi più tardi della storia egizia, tra cartonnage tolemaici, terrecotte greco-romane e copte e ceramiche islamiche. Infine, accanto a un sarcofago di sacerdotessa di fine XXI dinastia (X sec. a.C.) con all’interno la mummia di un anziano di Epoca greco-romana, ci sono un’istallazione video in cui viene mostrata la ricostruzione facciale dei tre individui imbalsamati presenti nella Collezione (foto in alto a destra) e un pannello che illustra i risultati degli esami archeoantropologici.
In realtà, continuando la visita nei piani superiori si trovano altri reperti egizi. Nello specifico, un bel mobiletto d’epoca contiene selci e altri strumenti in pietra predinastici raccolti in Egitto o ricevuti in dono da Carlo Marchesetti, direttore del Civico Museo di Storia Naturale dal 1876 al 1921 ed esperto di archeologia preistorica, mentre nella Sala della scrittura nell’antichità sono esposti un ushabti e un frammento di sarcofago a rappresentanza del sistema geroglifico.
A Dendera, nella provincia di Qena, la missione egiziana diretta da Mamdouh el-Damaty, ex ministro delle Antichità e professore di Archeologia presso l’università cairota di Ain Shams, ha scoperto una sfinge in calcare con il volto dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.). Questa prima ipotetica identificazione proposta da el-Damaty si basa su comparazioni stilistiche del “ritratto”. La testa presenta il tipico copricapo nemes e l’ureo e conserva tracce di pittura rossa e gialla.
La statua è stata individuata a est del santuario principale di Hathor, scavando una struttura di epoca romana disposta su due livelli in cui sorgeva un tempio dedicato ad Horus. Nello specifico, si trovava in una cisterna in mattoni rossi foderati di malta risalente al periodo bizantino. Appare quindi evidente che la sfinge sia stata spostata per qualche motivo già in passato. Insieme alla sfinge, è stata rinvenuta anche una stele, sempre di epoca romana, inscritta in geroglifico e demotico (foto in basso a sinistra).
Questa volta non ci sono dubbi: dietro la facciata nord della Piramide di Cheope c’è un corridoio nascosto. La scoperta è l’ultimo dei risultati del progetto ScanPyramids che, con l’ausilio delle tecnologie più avanzate, ha confermato la presenza di un vuoto dietro i blocchi “a chevron” (i quattro blocchi a V rovesciata sopra l’ingresso originario) e ne ha misurato al centimetro le dimensioni. La prova ineluttabile è poi arrivata grazie a una telecamera endoscopica che ha ripreso, dopo oltre 4500 anni, un tunnel lungo 9 metri, largo 2,10 e alto 2,30 (foto in alto).
Il progetto internazionale ScanPyramidsè stato lanciato nel 2015 con lo scopo di studiare le piramidi di IV dinastia di Dahshur e Giza e di individuare eventuali camere o corridoi nascosti. La facoltà d’Ingegneria dell’Università del Cairo e il francese HIP.institute (Heritage, Innovation and Preservation) hanno coordinato una squadra di esperti che arrivano anche dal Canada (Université Laval) e dal Giappone (Nagoya University). In particolare avevamo fatto la conoscenza dei muoni, particelle con carica negativa che fanno parte dei raggi cosmici e che sono alla base della radiografia muonica, tecnica che misura la quantità assorbita di muoni dopo aver attraversato strutture solide. Questo metodo è stato elaborato in Giappone per il monitoraggio dei vulcani (recentemente anche per il Vesuvio) ed è stato applicato per verificare, a distanza di sicurezza, la situazione dei reattori di Fukushima dopo l’incidente nucleare del 2011. Quindi, grazie ai muoni, tra 2016 e 2017, erano state individuate due anomalie nella Grande Piramide, ma l’attenzione dei media si era focalizzata soprattutto su un enorme “vuoto” lungo 30 metri sopra la Grande Galleria. La relativa pubblicazione su Nature, priva dell’approvazione del comitato scientifico permanente, aveva scatenato le ire del Ministero egiziano delle Antichità e soprattutto di Zahi Hawass che avevano bollato come inutile la notizia.
Questa volta, sembrano esserci state maggiori collaborazione e comunicazione con le autorità locali e si è arrivati alla conferenza stampa ufficiale di poche ore fa, alla presenza del ministro Ahmed Eissa, di Zahi Hawass, del segretario generale dello SCA Mostafa Waziry e del vicepresidente di HIP Hany Helal, e alla successiva pubblicazione di due articoli scientifici su Nature Communication e NDT & E International. La data scelta probabilmente non è casuale visto che, proprio il 2 marzo 1818, il padovano Giovanni Battista Belzoni riusciva a entrare nella Piramide di Chefren.
In ogni caso, i risultati sono arrivati attraverso due indagini indipendenti di team della Nagoya University e della CEA (Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives/France) che hanno utilizzato diversi telescopi muonici. Chi ha visitato la Piramide di Cheope negli ultimi anni avrà infatto notato in diversi punti piastre con pellicole che avevano proprio il compito di misurare la quantità di muoni. Quindi, il corridoio parte 80 cm dietro i blocchi esterni e presenta una copertura a capanna. Questa caratteristica, comune alla prima camera di scarico sopra la Camera del Re e alla Grande Galleria, spiega forse la funzione, ancora non identificata, della struttura che potrebbe essere stata progettata per diminuire il peso gravante sul sottostante passaggio discendente. Zahi Hawass si spinge molto oltre dicendo che potrebbe invece essere l’accesso alla vera stanza di sepoltura del faraone Cheope (2589-2566 a.C.), perché un’area interna del tunnel sembra non essere coperta da blocchi di pietra ma da semplici detriti.
La missione egiziano-spagnola diretta da Hassan Amer (Università del Cairo) e da Maite Mascort i Roca (Università di Barcellona) ed Esther Pons Mellado (curatrice della sezione egizia del Museo Arqueológico Nacional di Madrid), ha scoperto tombe risalenti a diversi periodi a El-Behnasa, nella provincia di el-Minya, luogo in cui sorgeva l’antica Ossirinco. Tre sepolture si datano alla XXVII dinastia (525-405 a.C.), tre al periodo romano e 16 all’epoca copta. Le prime (foto in basso a sinistra) sono prive di corredo perché depredate già in antichità; le seconde sono realizzate in calcare con una copertura a volta; quelle copte, invece, consistono in fosse rettangolari scavate nel terreno rivolte verso est e accompagnate da alcuni vasi di ceramica e lucerne.
Ieri, in occasione della cerimonia ufficiale di completamento della prima fase di sviluppo del Museo Egizio del Cairo (progetto che ha visto la collaborazione di Museo Egizio di Torino, capofila del gruppo, British Museum, Louvre, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino e Rijksmuseum van Oudheden di Leida nel riallestimento di 15 sale del museo di Piazza Tahrir) è stato esposto per la prima volta al pubblico il cosiddetto Papiro Waziry 1, rotolo di ben 16 metri scoperto lo scorso maggio a Saqqara.
In effetti, questa volta è necessario ammettere che l’importanza del ritrovamento dipende anche dalle dimensioni perché era da oltre un secolo che non si vedeva un reperto simile in Egitto. Lungi da me, però, ridurre il tutto alla lunghezza del papiro che, basta vedere le foto, è straordinario anche per lo stato di conservazione. Il documento, infatti, era stato ritrovato ancora arrotolato nei pressi del Bubasteion di Saqqara, nel sarcofago di un certo Ahmose, vissuto all’inizio dell’epoca tolemaica intorno al 300 a.C. Il nome del papiro è un omaggio a Mostafa Waziri (foto in basso al centro), segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità e direttore della missione che lo ha scoperto. Il numero, aggiunto in un secondo momento rispetto allo scorso anno, deriva dal fatto che presto sarà presentato un Papiro Waziry 2, ancora in fase di restauro, il cui ritrovamento a Saqqara era stato anticipato a gennaio.
Il papiro è iscritto con 113 capitoli del Libro dei Morti, vergati in ieratico con inchiostro nero, salvo qualche parola in rosso, e disposti su 150 colonne di diverse dimensione. Dopo uno spazio vuoto di 40 cm, il documento inizia con la scena più grande che ritrae il defunto inginocchiato, il cui nome compare 260 volte, mentre porge offerte a Osiride seduto in trono (foto in basso). Altre vignette più piccole accompagnano poi i singoli capitoli. La qualità dei segni sottolinea l’ottima fattura del papiro e, di conseguenza, l’alta classe sociale di Ahmose.
Dopo essere stato aperto, restaurato, letto e decifrato, oggi il papiro è esposto in una speciale teca al primo piano del vecchio Museo Egizio del Cairo.
Spesso, chi segue questo blog mi chiede se conosca corsi di Egittologia aperti anche ad appassionati che, nella vita, magari si occupano di tutt’altro. Beh, ho il piacere di presentare una Summer School, organizzata dall’Università di Pisa sotto il coordinamento della Prof.ssa Marilina Betrò, in cui sono coinvolto in qualità di supporto organizzativo e docente. Si tratta di un programma intensivo di 8 giorni, che si terrà a Pisa dal 24 al 31 luglio 2023, e che ha lo scopo di fornire tutte le nozioni base dei principali aspetti della disciplina egittologica.
Le lezioni saranno tenute da professori e ricercatori dell’Università di Pisa, centro d’eccellenza dell’Egittologia italiana e internazionale, che insegneranno ai partecipanti le basi della storia, dell’archeologia e della lingua dell’Antico Egitto. Saranno quindi trattati i principali eventi della millenaria storia della civiltà faraonica, dal Predinastico all’Epoca Romana, i più importanti siti archeologici e monumenti della Valle del Nilo e i fondamenti del sistema geroglifico. Ci sarà inoltre modo di approfondire temi specifici, come Tutankhamon e la sua tomba, la mummificazione, la religione, gli ushabti, le principali scoperte archeologiche degli ultimi anni, e di sfatare insieme i più famosi luoghi comuni nell’ambiente egittologico. Il programma comprende infine una visita guidata alla Collezione Egizia del Museo Civico Archeologico di Bologna, una delle principali in Italia ed Europa.
Quindi, se avete voglia di addentrarvi per la prima volta nella storia e nell’archeologia dell’antico Egitto e cimentarvi con i geroglifici, o comunque di implementare le vostre conoscenze, non vi resta che iscrivervi!
Trovate tutte le informazioni su programma, docenti, modalità d’iscrizione e altro nel sito internet dedicato alla Summer School:
(*A scanso di equivoci, il nome della rubrica contiene volutamente un errore ortografico per sottolineare il carattere a dir poco ridicolo di alcune notizie riguardanti l’Egitto che circolano nel web e non solo)
Questa mattina, su alcuni giornali online egiziani e sui social di Mostafa Waziry (nel video in basso), segretario generale del Supremo Consiglio delle Antichità, è girata la notizia della scoperta di una tomba risalente… al massimo a un anno fa! Già dalle prime foto pubblicate, infatti, all’occhio di chi sia un minimo avvezzo all’arte egizia emerge subito che la sepoltura individuata a Beni Suef, località a 115 km a sud del Cairo, sia una palese copia, e pure fatta male. Le autorità locali hanno giustamente dichiarato che si tratta di una riproduzione moderna, realizzata qualche mese fa con lo scopo di ingannare ingenui turisti e ancora più sprovveduti collezionisti di reperti archeologici.
Nella stanza sotterranea si ammira il trionfo del gesso placcato, tra finti lingotti d’oro, statuette di divinità e faraoni più o meno ispirate a opere realmente esistenti (s’intravedono il Ramesse II di Torino, la Tauret da Karnak, l’Amenirdis in alabastro, modellini di Medio Regno), un sarcofago da B-movie anni ’70 e tutta una serie di cianfrusaglie da suq che, ahimè, infestano anche la mia libreria. Alle pareti, invece, su pannelli di compensato, ci sono pitture ancor meno riuscite che scimmiottano scene da papiri e pareti di tombe (menzione d’onore per chi ha voluto mettere insieme i cartigli di Tutankhamon e Ramesse III; immagine in basso a sinistra).
In ogni caso, tutti gli oggetti del “corredo” sono stati distrutti ed è in corso un’indagine per risalire agli autori. Non è comunque la prima volta che si verifica una cosa del genere. Ricorderete infatti un video che circolava qualche anno fa su FaceBook e che mostrava un’altra tomba egizia traboccante di oggetti d’oro, fake ovviamente (ne avevo parlato qui).