Mohamed Ismail Khaled nuovo segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità

Un’indiscrezione giornalistica, rilanciata settimane fa su diversi siti egiziani dopo le polemiche sul “restauro” della Piramide di Micerino e basata, a quanto pare, su fonti interne del Ministero delle Antichità e del Turismo, aveva anticipato la mancata conferma di Mostafa Waziry come Segretario Generale del Consiglio Supremo delle Antichità (SCA). Contestualmente, Zahi Hawass aveva pubblicato sui suoi social un post in cui si aspettava un’imminente promozione per Waziry, poi concretizzata nel ruolo di Primo assistente per gli Affari Tecnici, gli Scavi e le Missioni archeologiche del ministro Ahmed Eissa.

La notizia è stata ufficialmente confermata poco fa e la carica è passata, per decisione del Primo Ministro Mostafa Madbouly, a Mohamed Ismail Khaled. Khaled, dopo aver ricoperto diverse manzioni all’interno dello SCA – tra cui Direttore dell’Ufficio Tecnico del Capo dell’Amministrazione Centrale delle Antichità del Cairo e di Giza, Direttore del Dipartimento di Ricerca Scientifica, Supervisore del Dipartimento di Editoria Scientifica e Supervisore Generale dei Comitati Permanenti per gli Affari delle Missioni Estere – era passato all’Università di Würzburg e dirigeva la missione egiziano-tedesca presso la piramide di Sahura ad Abusir (ed effettivamente era stato già menzionato qui sul blog).

https://english.ahram.org.eg/News/519438.aspx

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Dahshur, scoperta mastaba di Antico Regno

Source: Ministry of Tourism and Antiquities

La missione dell’Istituto Archeologico Tedesco al Cairo (DAIK), diretta da Stephan Seidlmayer (Freie Universität Berlin), ha individuato a Dahshur una mastaba di Antico Regno. La tomba era costruita in mattoni crudi, ma aveva le pareti completamente dipinte con scene di vita quotidiana. Dalla lettura dei testi geroglifici conservatisi, si è capito che fosse l’ultima dimora di Seneb-nebef, funzionario di palazzo intorno al 2300 a.C., tra la fine della V dinastia e l’inizio della VI, e di sua moglie Idut, sacerdotessa di Hathor.

Dahshur, a circa 30 km a sud del Cairo, è un sito noto soprattutto per le due piramidi – la Romboidale e la Rossa – fatte costruire nel 2600 a.C. circa da Snefru, primo faraone della IV dinastia. L’area è disseminata di sepolture di membri della famiglia reale e funzionari di Antico Regno, ma anche successive per la presenza dei complessi piramidali di Medio Reegno.

La mastaba (dall’arabo “panca” per via della forma della struttura) appena scoperta si trova a est della Piramide Rossa, nella necropoli dove venivano sepolti gli abitanti della città dei costruttori delle piramidi, in una zona indagata ormai da 20 anni dalla missione del DAIK e dalla Freie Universität di Berlino.

https://www.dainst.org/en/research/projects/noslug/2772

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Nuovo corso online di Egittologia per non Egittologi (Pisa, 1-8 luglio 2024)

Spesso, chi segue questo blog mi chiede se conosca corsi di Egittologia aperti anche ad appassionati che, nella vita, magari si occupano di tutt’altro. Dopo il successo dello scorso anno, la Summer School di Egittologia, organizzata dall’Università di Pisa e in cui sono coinvolto in qualità di supporto organizzativo e docente, sarà online! Si tratta di un programma intensivo di 8 giorni, che si terrà a Pisa dal 1 all’8 luglio 2024, e che ha lo scopo di fornire tutte le nozioni base dei principali aspetti della disciplina egittologica.

Le lezioni saranno tenute da professori e ricercatori dell’Università di Pisa, centro d’eccellenza dell’Egittologia italiana e internazionale, che insegneranno ai partecipanti le basi della storia, dell’archeologia e della lingua dell’Antico Egitto. Saranno quindi trattati i principali eventi della millenaria storia della civiltà faraonica, dal Predinastico all’Epoca Romana, i più importanti siti archeologici e monumenti della Valle del Nilo e i fondamenti del sistema geroglifico. Ci sarà inoltre modo di approfondire temi specifici, come Tutankhamon e la sua tomba, Akhenaton e il periodo amarniano, la mummificazione, la religione, la magia e l’astronomia, le principali scoperte archeologiche degli ultimi anni, e di sfatare insieme i più famosi luoghi comuni nell’ambiente egittologico.

Quindi, se avete voglia di addentrarvi per la prima volta nella storia e nell’archeologia dell’antico Egitto e cimentarvi con i geroglifici, o comunque di implementare le vostre conoscenze, non vi resta che iscrivervi!

Trovate tutte le informazioni su programma, docenti, modalità d’iscrizione e altro nel sito internet dedicato alla Summer School:

https://egittologiasummerschool.wordpress.com

È possibile iscriversi entro il 15 maggio 2024.

Per altre curiosità, potete anche scrivere all’indirizzo mail egittologia.summerschool@gmail.com o contattarmi in privato sui miei social.

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“Arsinoe 3D. Riscoperta di una città perduta dell’Egitto greco-romano” (Firenze, 14/12/23-15/05/24)

Qualche giorno fa ho visitato una mostra a Firenze che mi incuriosiva da tempo. A cura di Francesca Maltomini e Sandro Parrinello, Arsinoe 3D. Riscoperta di una città perduta dell’Egitto greco-romano racconta con strumenti innovativi la missione archeologica 1964-65 dell’Istituto Papirologico “Girolamo Vitelli” nel sito fayyumita di Arsinoe. L’esposizione è allestita presso il Museo di Storia Naturale, Antropologia e Etnologia (via del Proconsolo 12, fino al 15 maggio) ed è il frutto della collaborazione tra l’Istituto Papirologico, il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze e il DAda-LAB del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura dell’Università di Pavia. Già gli enti coinvolti palesano la multidisciplinarità e l’interattività dell’evento che, oltre a esporre i consueti reperti archeologici, accompagna virtualmente il visitatore su uno scavo di 60 anni fa.

Prima di parlare della mostra, occorre però contestualizzarne il topic. Arsinoe è il toponimo greco con cui alcuni autori classici chiamarono l’antica Shedet, che si trovava in corrispondenza dell’odierna Medinet el-Fayyum. La città e il suo importante tempio di Sobek, ormai quasi del tutto cancellati dalle moderne abitazioni, sono stati indagati nel 1887 dal tedesco Georg Schweinfurth, seguito l’anno successivo dal celebre archeologo britannico Flinders Petrie e, negli anni ’30 del Novecento, dall’egittologo egiziano Labib Habachi. Già negli anni ’60 il sito era a forte rischio a causa dell’espansione edilizia, così il Servizio delle Antichità si avvalse della collaborazione dell’Istituto Papirologico Fiorentino – attivo in precedenza a Ermopoli, Ossirinco, Tebtynis, el-Hibeh e Antinopoli – per indagare l’area a sud del tempio di Sobek. Lo scavo fu diretto dall’egittologo Sergio Bosticco e dal papirologo Manfredo Manfredi, ma vide l’illustre partecipazione anche di Sergio Donadoni, Edda Bresciani e Claudio Barocas. Tutta questa storia viene raccontata con testi, foto e grafiche su ampi pannelli ai due lati della scalinata d’ingresso del museo.

Purtroppo, come dicevo, non rimane quasi niente delle vestigia di Arsinoe; inoltre, a esclusione di un breve rapporto, il lavoro della missione dell’Istituto – l’ultima a indagare estensivamente il sito – non è mai stato pubblicato. Così uno degli obiettivi del progetto da cui è nata la mostra era proprio quello di rendere di nuovo fruibile un patrimonio storico perduto partendo da ricerche d’archivio sulla documentazione di scavo e dall’utilizzo delle nuove tecnologie. La vecchia pianta generale, disegnata dall’architetto Francesco Forti senza riferimenti metrici, è stata la base per la realizzazione – grazie alle diverse prospettive delle foto e agli appunti degli archeologi dell’epoca – di un modello 3D messo a disposizione dei visitatori in due formati: due ricostruzioni tangibili in miniatura e un’esperienza immersiva che permette – tramite un visore VR e due controller – di partire dalla tenda della missione, attraversare il cantiere e interagire con le antichità.

Gli oggetti scelti per l’esperienza virtuale coincidono con i veri reperti esposti di cui si è potuta stabilire la posizione esatta di ritrovamento. L’Istituto Papirologico ottenne circa 1500 pezzi dal Servizio delle Antichità, ma la selezione per la mostra comprende figurine in terracotta di età tolemaica raffiguranti divinità (Iside-Afrodite, Arpocrate, Bes) e animali (oca, gallo, dromedario, cavallo, leone, scimmia), oltre a timbri, lucerne, anfore, vasi e altri contenitori ceramici, un elemento di conduttura idrica e un mortaio in pietra. Menzione d’onore v assolutamente allo stranissimo Arpocrate, questa volta in calcare, la cui faccia appena abbozzata sembra un’emoji (foto in basso al centro)! Ogni reperto è corredato di un modello 3D raggiungibile con codide QR; inoltre, ancora una volta è possibile toccare con mano riproduzioni realizzate con stampante 3D.

Nelle vetrine sono esposti anche i diari di scavo e alcuni degli strumenti usati nel ’64-65. Ovviamente non potevano mancare papiri che, tuttavia, non provengono da Arsinoe. La missione, infatti, non ne trovò durante gli scavi, ma gli esemplari esposti – lettere private, note commerciali, testi letterari – sono stati scelti per via del loro contenuto che contestualizza e spiega l’utilizzo degli altri reperti. Discorso a parte è l’ultima sezione dedicata al papiro in quanto supporto scrittorio. I frammenti presenti (Papiri della Società Italiana) fungono da esempio delle diverse tipologie di documenti e di scritture riscontrabili.

Il catalogo è scaricabile gratuitamente al seguente link: https://books.fupress.com/catalogue/arsinoe-3d/13918

* Ringrazio Ilaria Cariddi e Alessio Corsi per guidato alla visita della mostra illustrandomi il lavoro che hanno svolto nel prepararla.

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Chiusa per restauro la tomba di Nefertari

Comunemente considerata la più bella tomba in Egitto, la QV66 potrebbe non essere più visitabile dal pubblico per un lungo periodo. Lo scorso 2 marzo, la tomba di Nefertari, nella Valle delle Regine (Tebe Ovest), è stata chiusa a tempo indeterminato per restauri urgenti. Il provvedimento è passato un po’ in sordina perché non c’è stato un vero e proprio comunicato ufficiale sui canali del Ministero del Turismo e delle Antichità, ma alcune agenzie turistiche – come riferito sul sito di Cairo 24 – hanno ricevuto una lettera informativa dall’Egyptian Travel Agents Association.

Sembra infatti che le meravigliose pitture dell’ultima dimora di Nefertari, Grande Sposa Reale di Ramesse II, mostrino evidenti segni di degrado. Nonostante il prezzo d’ingresso non sia dei più economici – circa 60 euro – e che quindi la sepoltura non sia investita dal turismo di massa, è possibile che la sua riapertura al pubblico avvenuta nel 2016 abbia influito negativamente sulla conservazione.

Scoperta nel 1904 dalla missione del Museo Egizio di Torino diretta da Ernesto Schiaparelli, la tomba di Nefertari colpì subito per la vividezza dei colori delle decorazioni, tanto da far nascere l’epiteto “Cappella Sistina dell’antico Egitto”. Al contempo, però, già negli anni ’50 del Novecento si dovette chiudere la struttura a causa dei danni provocati dalle infiltrazioni d’acqua e dai sali. Fu quindi necessario un epocale intervento di restauro finanziato dal Getty Conservation Institute (Los Angeles) e affidato a Paolo e Laura Mora (Istituto Centrale per il Restauro di Roma) con la partecipazione, tra gli altri, del compianto Adriano Luzi della cui storia ho scritto già sul blog.

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Ermopoli, scoperta la parte superiore di una statua colossale di Ramesse II

Nel sito di Hermopolis Magna, l’attuale el-Ashmunein nel governatorato di Minya, è stato scoperto il busto di una statua colossale di Ramesse II (1279-1212 a.C.). A effettuare il ritrovamento è stata la neo-missione egiziano-americana, partita nel 2023 e diretta da Bassem Jihad (SCA) e Yvona Trnka-Amrhein (Universy of Colorado, Boulder).

Il faraone è raffigurato con barba posticcia, nemes e doppia corona dell’Alto e del Basso Egitto. Sul pilastro dorsale si legge ancora parte della sua titolatura. La scultura in calcare è alta 3,80 metri, ma in origine doveva raggiungerne 7 nella sua completezza. Come si sa? Perché la parte inferiore, ritraente Ramesse II seduto in trono, è nota già dal 1930, quando è stata scoperta dall’egittologo tedesco Günther Roeder (tavola XVII). Possibile quindi che i due pezzi saranno riuniti.

Oltre alla scoperta, il lavoro del team si è concentrato sullo studio e il restauro di una basilica cristiana del V-VI sec., consacrata alla Vergine Maria ma costruita sopra – utilizzandone i materiali – un tempio tolemaico.

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Scoperto nel Delta un sarcofago di 62 tonnellate durante la costruzione di un ospedale

Source: elwatannews.com

Un enorme sarcofago in quarzite di 62 tonnellate è stato scoperto durante uno scavo di emergenza nella città di Bahna, capoluogo del governatorato di al-Qalyubiyya nel Delta del Nilo. Nel sito scelto per la costruzione dell’ospedale universitario – un’area di 9000 m² dove sorgeva la vecchia sede della facoltà di Giurisprudenza – è infatti stata individuata una necropoli di Epoca Tarda e si è quindi reso necessario l’intervento degli archeologi del Supreme Council of Antiquities e dei restauratori del Grand Egyptian Museum.

Grazie alle iscrizioni geroglifiche incise sulla pietra, si è capito che la sepoltura appartenesse al Sovrintendente agli scribi sotto il regno di Psammetico I (664-610 a.C.) nella XXVI dinastia. Il pesante sarcofago e altri reperti, dopo alcuni lavori preliminari di pulizia e consolidamento, sono stati trasferiti dei depositi delle antichità di Qayubiyya, mentre proseguiranno le indagini archeologiche nell’area.

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La Piramide di Micerino non sarà rimontata: bocciato il progetto di restauro dal Ministero del Turismo e delle Antichità

foto: Mattia Mancini

Era apparso subito come minimo avventato e anacronistico il progetto di rimontaggio dei blocchi esterni della Piramide di Micerino, presentato il 25 gennaio dal segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità (SCA), Mostafa Waziry, in collaborazione con l’Università di Waseda, già protagonista della riassemblaggo della seconda barca solare di Cheope. Andando oltre ogni limite del restauro conservativo, era stato ipotizzato il riposizionamento della copertura in granito rosso di Assuan (a esclusione della sommità che era in calcare di Tura) della più piccola delle tre piramidi maggiori di Giza, in gran parte caduta e giacente nelle vicinanze della struttura di 4500 anni. Ma subito si erano sollevate voci fortemente contrarie al progetto da parte di esperti locali e stranieri. C’è chi ironicamente ha addirittura proposto il raddrizzamento della Torre di Pisa.

Da come era stato proclamata, sembrava cosa fatta, ma, al contrario, è di poche ore fa l’annuncio ufficiale della bocciatura del progetto.

Lo scorso 3 febbraio, infatti, il ministro egiziano del Turismo e delle Antichità, Ahmed Eissa – forse anche spinto dalle numerose polemiche scaturite – aveva istituito un comitato scientifico che avesse il compito di valutare la fattibilità dell’operazione. Il comitato, presieduto da Zahi Hawass, era composto da sei esperti in ingegneria e archeologia, che hanno lavorato in collaborazione con l’UNESCO: Mamdouh El-Damaty, ex ministro delle Antichità e supervisore del Dipartimento di Scienze Archeologiche all’Università di Ain Shams; Hani Helal, ex ministro dell’Istruzione e professore di Ingegneria all’Università del Cairo; Mostafa Al-Ghamrawi, ex capo del Dipartimento di Ingegneria strutturale dell’Università del Cairo; Mark Lehner, egittologo con esperienza decennale a Giza e presidente dell’Ancient Egypt Research Associates; Miroslav Bárta, egittologo e direttore dell’Istituto Ceco di Egittologia della Charles University di Praga; Dietrich Rau, egittologo e direttore dell’Istituto Archeologico Tedesco del Cairo.

Come preventivale – e auspicabile – il Ministero ha bocciato il progetto dopo aver esaminato la relazione del comitato. I blocchi di granito resteranno quindi dove sono in quanto andrebbero a nascondere le tracce sulle tecniche adottate per costruire la piramide e soprattutto perché è impossibile determinare la loro posizione originaria.

È stato invece dato parere positivo allo studio e al monitoraggio dei blocchi e preliminarmente a uno scavo archeologico ai piedi della piramide, a patto che arrivi una relazione dettagliata comprendente il periodo preciso, la lista completa dei membri del team con archeologi, ignegneri, restauratori e architetti e un direttore dei lavori esclusivamente dedicato al progetto (cosa che sembra escludere Waziry). Le finalità sarebbero quelle di portare alla luce i blocchi ancora in situ alla base della struttura – operazione, a dir la verità, già iniziata – e di ricercare l’eventuale presenza di fosse o barche solari, proprio come quelle di Cheope.

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“Egitto di Provincia”: Museo di Archeologia Ligure, Genova

Genova non è solo i vicoli raccontati da De André, l’acquario, il porto, i palazzi dei Rolli, il pesto, la focaccia. Lontano dal centro storico, a ponente, si trova un altro luogo, sicuramente meno conosciuto, ma che vale la pena di visitare, soprattutto in una bella giornata di sole. A due passi dalla stazione Genova-Pegli, dopo aver attraversato un lungo viale ciottolato che scavalca la ferrovia, si entra nella meravigliosa Villa Durazzo Pallavicini. La storica dimora nobiliare è nota soprattutto per il suo parco, realizzato tra 1840 e 1846, su progetto dell’architetto Michele Canzio e per volere del marchese Ignazio Alessandro Pallavicini. Ed è un peccato che l’Orto Botanico, invece, voluto nel 1794 dalla marchesa Clelia Durazzo Pallavicini, esperta della materia, sia in stato d’abbandono e inaccessibile da anni.

Fortunatamente il giardino romantico è ben tenuto ed è stato addirittura giudicato come “parco più bello d’Italia” nel 2017. Si sviluppa sul versante della collina con un percorso scenografico-teatrale in cui la vegetazione, impianti ed edifici dialogano per raccontare una storia in tre atti. Nell’ultimo di questi, il cammino si chiude catarticamente nel Lago Grande, attorno al quale diverse strutture rappresentano tutti i popoli del mondo riuniti sotto la luce divina del Tempio di Diana che spunta al centro dello specchio d’acqua: il Ponte Romano (Occidente), il Chiosco Turco (Medio Oriente), la Pagoda Cinese (Estremo Oriente) e l’Obelisco Egizio (Africa; foto a sinistra). L’obelisco è ovviamente finto e gli pseudo-geroglifici non hanno alcun significato, ma la sua presenza testimonia la galoppante egittomania ottocentesca.

Nel parco è ubicata anche la villa settecentesca (foto in cima all’articolo) – seppur abbia un aspetto neo-classico risalente al XIX secolo – che dal 1936 è sede del Museo di Archeologia Ligure. Il museo conserva oltre 50.000 reperti che illustrano la storia antica della regione, dal Paleolitico all’età tardo-romana. Il nucleo originario si costituì nel 1866 grazie a un lascito testamentario dello sfortunato principe Oddone di Savoia – figlio del re Vittorio Emanuele II e morto giovanissimo – e crebbe alla fine del secolo e nel ‘900 attraverso altre donazioni e acquisizioni da scavi.

Tra le antichità cedute da Oddone c’è anche qualche reperto faraonico esposto nella sala egizia (foto in alto), situata al piano terra, alla fine del percorso museale; tuttavia, la gran parte dei pezzi della piccola collezione arrivò tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Rispetto a tanti altri esempi riportati in questa rubrica, infatti, il collezionismo egittologico si colloca un po’ più tardi a Genova e i due nuclei principali si legano alle figure del tenente di vascello Giovanni Caramagna e il celebre capitano Enrico Alberto D’Albertis. Quest’ultimo, in particolare, da esploratore e filantropo viaggiò spesso lungo il Nilo nei primi anni del XX secolo e i suoi diari e foto forniscono rare informazioni sul contesto di provenienza dei reperti da lui recuperati. Ad esempio, un cartellino originale che si riferisce a un piccolo pilastro djed ci informa che fu acquistato – cosa normale all’epoca – nel Museo di Giza, che dal 1890 al 1902 fu la precedente sede dell’attuale Museo Egizio del Cairo di Piazza Tahrir (foto in basso a destra). Di D’Albertis, fra l’altro, sempre a Genova segnalo il castello che oggi è sede del Museo delle Culture del Mondo e conserva altri suoi souvenir, tra antichità e reperti etno-antropologici, da tutto il mondo.

Come al solito, nella collezione egizia di Genova si notano per lo più oggetti di piccola contenuta – più facilmente trasportabili da privati – come amuleti, bronzetti, ushabti, maschere funerarie e frammenti di statua. Non mancano curiosi falsi, esposti in una vetrina all’esterno della sala (foto in alto a sinistra). Le didascalie sono abbastanza chiare ed esplicative, fornendo informazioni e approfondimenti sui soggetti e, con un pannello a parte, sulla cronologia.

Tuttavia, il posto d’onore della sala è riservato al sarcofago e alla mummia di Pasherienaset, sacerdote vissuto a Edfu durante la XXVI dinastia (672-525 a.C.). In questo caso la donazione risale al 1931, a opera dell’avvocato Emanuele Figari, nipote di Antonio Figari Bey, famoso medico, farmacista e geologo che visse in Egitto tra 1825 e 1870. Al sarcofago sono dedicati due pannelli con la spiegazione delle scene dipinte e delle tecniche costruttive. Di Pasherienaset si parla abbondantemente in altri testi che ne approfondiscono l’origine, la genealogia, la carica religiosa. Non si conosce l’ubicazione della tomba, probabilmente nella necropoli di Nag el-Hessaia, ma è palese che la diaspora degli oggetti del suo corredo, finiti nel mercato antiquario, risalga almeno al XIX secolo. A testimoniarlo c’è l’ultimo – anche in senso temporale – pezzo della collezione genovese: una statuetta in steatite di Pasherienaset. Appartenuta al politico armeno e ministro degli Esteri egiziano Tigrane Pascià d’Abro, fu pubblicata per la prima volta nel 1911 e poi passò, di collezione in collezione, prima a New York e poi a Parigi, fino a che se ne persero le tracce. Già dal 1999 ci fu un appello a tutti gli studiosi da parte del Museo Archeologico di Genova per averne notizie. Ma solo nel 2004 il pezzo è stato battuto a un’asta di Sotheby’s e acquistato dalla Fondazione “Edoardo Garrone” che l’ha offerto in comodato al museo, permettendo – evento più unico che raro in ambito museale – una parziale integrazione del corredo del sacerdote.

https://www.museidigenova.it/it/museo-di-archeologia-ligure-0

https://www.villadurazzopallavicini.it

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“Egitto di Provincia”: Museo Chierici di Paletnologia (Musei Civici di Reggio Emilia)

Visitare Palazzo dei Musei a Reggio Emilia è come fare una passeggiata nella storia della museologia. Attraversare le numerose sale e guardare reperti delle più disparate discipline – dall’archeologia alle scienze naturali – permette di capire come sia cambiato negli ultimi due secoli il concetto stesso di museo. L’edificio è infatti una delle sedi dei Musei Civici di Reggio fin dal 1830 e conserva ancora le affascinanti vetrine stracolme di fossili, animali impagliati, crani, strumenti litici, vasi, statuette di bronzo delle collezioni ottocentesche. Ma al tempo stesso, salendo al secondo piano, si apprezza il nuovissimo allestimento, inaugurato nel 2021, che per raccontare la storia del Reggiano punta molto sullo story telling e utilizza trovate interessanti per catturare l’attenzione dei visitatori e lasciare loro impresse nozioni che altrimenti si perderebbero dietro alla sola estetica degli oggetti. Per fare solo un esempio, le antichità vengono accostate a prodotti contemporanei per spiegarne l’utilizzo e l’importanza nella società dell’epoca. Quindi, al di là dello scopo di questo articolo che è volto a descrivere la consueta presenza di reperti egizi, consiglio vivamente di farci un salto; fra l’altro, è gratuito.

Tornando a noi, come scrivo ogni volta per questa rubrica, è quasi impossibile non imbattersi in vestigia nilotiche nei musei italiani, soprattutto se hanno origini ottocentesche. Non è un caso che anche nel nucleo archeologico del primo piano di Palazzo dei Musei ci siano circa 100 pezzi provenienti dall’Egitto. Si trovano più precisamente nel Museo Chierici di Paletnologia, nato nel 1862 come Gabinetto di Antichità Patrie e ampliato nel 1870 come Museo di Storia Patria sotto l’impulso di Gaetano Chierici (1819-1886), sacerdote e studioso reggiano che fu tra i primi esponenti, con Pigorini e Strobel, della neonata disciplina paletnologica. La collezione successivamente a lui intitolata, però, non si limita a preistoria e protostoria, ma raccoglie testimonianze che vanno fino al Medioevo e che superano i confini italiani. Gran parte delle vetrine, che mantengono ancora la disposizione originaria, è dedicata al patrimonio della provincia di Reggio; poi c’è una sezione per le altre regioni d’Italia, una per reperti archeologici ed etnologici extranazionali e infine una che presenta contesti funerari trasportati intatti con i relativi inumati e corredi.

Alla prima e alla seconda sezione appartiene qualche aegyptiaca trovato in Italia e quindi importato dall’Egitto già in antichità, soprattutto per via del loro utilizzo in sepolture di popoli italici e per la diffusione del culto di Iside nel mondo romano. A questi si uniscono produzioni locali ispirate a temi e iconografie egiziane o i risultati di ibridazioni religiose come le statuette di Iside-Fortuna. Come capita spesso per questo tipo di raccolte, è difficile identificare l’origine precisa dei reperti, ma in questo caso, più per tradizione che per effettiva conferma delle fonti aarchivistiche, un gruppo di antichità egizie (immagine in alto) è legato alla tomba di Publeia Terza, donna romana vissuta nel II sec. d.C. La sepoltura, scoperta nel 1845 presso Campegine (RE), era segnalata da un rarissimo cippo funerario (foto in basso a sinistra; al momento della mia visita non era esposto) che da alcuni viene accostato per l’inconsuto stile a un sarcofago con una specie di ritratto del Fayyum. Questa presunta ispirazione e la presenza – non comprovata – almeno nelle vicinanze di sei ushabti e 7 statuette in bronzo di Osiride, Iside, Arpocrate e Ptah fanno ipotizzare che Publeia Terza fosse una sacerdotessa o cultrice di Iside. In realtà, se nel caso di alcuni dei bronzetti e tre scarabei (foto in basso al centro) è possibile collocare l’origine nella vicina località di Monticelli, è probabile che gli ushabti siano stati donati a Chierici da collezionisti privati.

Uscendo dalla regione, si segnalano un ushabti di Terzo Periodo Intermedio (foto in alto a destra), trovato in una sepoltura etrusca nei dintorni di Fiesole (FI), e soprattutto il nucleo più corposo di antichità egizie, quello esposto nella vetrina dedicata ai “luoghi fuori d’Italia”, tra Australia, Americhe, Asia e Africa.

Su due scaffali (immagini in basso) sono disposti reperti che, come di consueto, sono di piccole dimensioni e risalenti al Periodo tardo. Fanno eccezione una tavola d’offerta da Abido di Medio Regno, in cui il nome del defunto è parzialmente abraso (il “Tesoriere ed economo del direttore dei lavori” Ra…), e un cono funerario dello scriba Userhat (XVIII din.), la cui tomba nella necropoli tebana di Qurnet Murai non è stata ancora individuata.

Per il resto, ci sono circa 80 amuleti raffiguranti simboli magico-religiosi – occhio udjat, cuore ib, pilastro djed, colonnina wadj, corona atef, orizzonte, dita, urei, ecc. – e divinità protettive come Ptah-Pateco, Bes, Sekhmet, Tueris. Inoltre vediamo altri bronzetti – alcuni di dubbia autenticità -, due situle, quattro scarabei, un osso umano e sette ushabti, tra cui spiccano i due più grandi, in legno, appartenuti al funzionario di XX din. Mehy.

I reperti sono pubblicati in: Pernigotti S., Antichità Egiziane del Museo «Gaetano Chierici» di Paletnologia, Reggio Emilia 1991.

https://www.musei.re.it/collezioni/collezioni-del-palazzo-dei-musei/museo-gaetano-chierici-di-paletnologia/

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